Il conflitto di Gaza nel contesto storico-politico mediorientale – Parte III
di PAOLO POLETTI ♦
- Iran, il grande regista silenzioso.
Il ruolo di Teheran – ideologico, finanziario e operativo – nel sostegno alle milizie antisraeliane resta quasi intatto, complici le divisioni occidentali e la cautela dei Paesi del Golfo, riluttanti a uno scontro diretto con la Repubblica islamica.
- Il fallimento dei negoziati ed il problema degli ostaggi.
Dalla tregua lampo del 24-30 novembre 2023, mediata da Qatar ed Egitto e conclusasi con lo scambio di 110 ostaggi israeliani e 240 prigionieri palestinesi, ogni negoziato successivo è naufragato: le proposte egiziano-qatarine di febbraio 2024 sono saltate perché Israele ha respinto un cessate-il-fuoco permanente, ritenendolo inconciliabile con l’obiettivo di «distruggere Hamas».
L’unico spiraglio è arrivato nel maggio 2025 con il piano Witkoff, che prevede 60 giorni di tregua, il rilascio di 10 ostaggi vivi e 18 salme in cambio di 1.125 detenuti palestinesi e un graduale ritiro israeliano.
Gerusalemme ha dato un sì «in linea di principio», mentre Hamas ha opposto un sì condizionato, pretendendo garanzie statunitensi sul cessate-il-fuoco definitivo, una liberazione scaglionata degli ostaggi e corridoi umanitari verificabili.
Israele definisce quella replica un «rifiuto di fatto», ma a pesare sono le pressioni interne: il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir minaccia di far saltare l’intesa se l’IDF non «annienta Hamas», e il titolare delle Finanze Bezalel Smotrich bolla come «follia pura» qualsiasi accordo che non imponga la resa totale del movimento, ventilando la crisi di governo.
Così Netanyahu resta stretto fra gli alleati ultranazionalisti, che esigono la «vittoria totale» e le famiglie dei sequestrati, che invocano un’intesa immediata
Intanto, sui 251 ostaggi del 7 ottobre 2023, 110 sono stati liberati, 2 salvati in operazioni israeliane e 31 restituiti senza vita; al 31 maggio 2025 ne restano 58 (solo parte presumibilmente vivi) accanto alle salme di altre 35 vittime, un’impasse che continua a bloccare il negoziato.
- Civili intrappolati e aiuti sotto controllo.
Hamas usa la popolazione come scudo e cerca di intercettare gli aiuti; Israele, dal canto suo, ha trasformato il blocco umanitario in leva di pressione. La recente creazione della Gaza Humanitarian Foundation ha suscitato indignazione in ONU e ONG per l’opacità e la militarizzazione della solidarietà.
Circa il primo punto, diversi rapporti indicano che Hamas cerchi di prelevare o tassare parte degli aiuti che entrano a Gaza: miliziani e funzionari impongono gabelle ai varchi o sequestrano quote dei carichi, così da rifornire i combattenti ma, soprattutto, decidere a chi distribuire cibo, carburante e medicine. Questa gestione “clientelare” degli aiuti accresce il potere del movimento, perché in un contesto di penuria chi ottiene un sacco di farina o una tanica di benzina tende a non mettersi contro chi glieli fornisce. Le principali agenzie ONU e molte ONG, però, contestano l’idea di un dirottamento massiccio: riconoscono episodi di prelievo o saccheggio, ma sostengono che la gran parte dei convogli arrivi comunque ai destinatari. Hamas respinge le accuse e ha persino punito ladri di derrate per mostrarsi garante degli aiuti, mentre, quando ONG e Stati Uniti hanno aperto punti di distribuzione autonomi, il movimento li ha bollati come tentativo di eroderne l’autorità. In breve, il controllo (anche parziale) degli aiuti serve a Hamas per finanziare le proprie strutture e, soprattutto, per mantenere la leva quotidiana sui civili; resta, tuttavia, una controversia aperta su quanto sia esteso il fenomeno.
Del pari, esistono prove che Hamas talvolta si finanzi sfruttando canali umanitari – sia attraverso false ONG all’estero che raccolgono donazioni poi dirottate, sia tassando o requisendo parte dei convogli che entrano a Gaza – ma sull’ampiezza reale del fenomeno le valutazioni divergono. Israele e alcuni Paesi occidentali sostengono che questa “tassazione degli aiuti” sia una fonte strutturale di entrate per il movimento; le Nazioni Unite e le principali ONG, invece, ammettono singoli episodi ma negano un dirottamento sistematico della maggior parte dei rifornimenti, rivendicando controlli interni e audit. Per ridurre i rischi, USA, UE e Regno Unito hanno inasprito le verifiche sui flussi finanziari diretti a Gaza, consapevoli però che troppe restrizioni possono rallentare gli aiuti essenziali. In sintesi: il pericolo di infiltrazioni esiste ed è monitorato, ma non c’è consenso sul fatto che la massa degli aiuti finisca effettivamente nelle casse di Hamas.
Di contro, Israele usa ormai l’accesso degli aiuti come leva negoziale: rallenta o blocca i convogli quando le trattative su ostaggi e tregue si impantanano, poi concede riaperture limitate presentandole come “gesti umanitari” legati ai progressi al tavolo. Mantiene comunque un “minimo vitale” di forniture per non incrinare il sostegno di Washington e, con i nuovi canali di distribuzione gestiti insieme agli Stati Uniti, sceglie dove e quando far arrivare viveri e carburante, riducendo l’influenza di Hamas ma accrescendo la dipendenza dei civili dal via libera militare israeliano. In pratica, la strettoia sui valichi funge al tempo stesso da strumento di sicurezza e di pressione politica.
A proposito dei canali di distribuzione gestiti insieme agli Stati Uniti, la nascita della Gaza Humanitarian Foundation (GHF) è un perfetto esempio di come, in questa guerra, persino l’assistenza umanitaria diventi terreno di competizione politica, affari e sicurezza. L’organizzazione compare alla fine del 2024, registrata nello Stato nord-americano del Delaware – notoriamente amico di statuti societari snelli – e, quasi in parallelo, in Svizzera, dove però l’autorità di vigilanza ne contesta subito la scarsa trasparenza inducendola a chiudere il capitolo elvetico dopo poche settimane. Dietro l’atto costitutivo americano si affaccia l’avvocato fiscalista James H. Cundiff, lo stesso che amministra la società di sicurezza privata Safe Reach Solutions (SRS): coincidenza rilevante, perché sono proprio gli ex militari statunitensi della SRS a scortare i convogli umanitari di GHF con mezzi blindati e regole d’ingaggio tutte loro, al di fuori della supervisione ONU.
La logica dichiarata è “proteggere gli aiuti dal dirottamento di Hamas”, ma la scelta di escludere le agenzie multilaterali e le ONG storiche segna una svolta inedita: la militarizzazione dell’assistenza. Israele, che dopo lo scandalo UNRWA preferisce canali alternativi, fornisce a GHF i permessi di transito nelle aree sotto controllo IDF; Washington, sotto pressione del Congresso, può così rivendicare un impegno umanitario senza affidarsi a strutture ONU criticate da parte dei repubblicani. Nel frattempo, la fondazione dichiara di aver raccolto “oltre 100 milioni di dollari” da donatori anonimi e da “un Paese dell’Europa occidentale” che resta senza nome; mancano bilanci pubblici, mentre inchieste di stampa citano imprenditori vicini al governo di Gerusalemme e un ex funzionario CIA tra i promotori. Per i contractor la commessa è remunerativa: sicurezza, logistica e consulenza in un’area dove la domanda è enorme e la sorveglianza contabile minima.
Non stupisce allora l’indignazione di Nazioni Unite e ONG. I loro rilievi toccano i pilastri del diritto umanitario: neutralità, imparzialità, indipendenza. Se l’organizzazione che distribuisce cibo e medicinali è percepita come “US – Israel backed” e ricorre a scorte armate, si confonde l’assistenza con un’operazione di contro-insurrezione; la popolazione rischia di vedere negli operatori umanitari non benefattori ma attori di parte, con la conseguenza di aumentare i pericoli per tutti i volontari sul terreno. In più, la privatizzazione dell’aiuto sottrae fondi ai canali multilaterali già in sofferenza, introducendo logiche di profitto laddove dovrebbero valere solo criteri di bisogno.
Dietro la vicenda GHF si intrecciano dunque interessi molteplici. Israele vuole minimizzare il rafforzamento di Hamas attraverso gli aiuti e mostrarsi capace di “soluzioni alternative”; gli Stati Uniti cercano una via di mezzo tra pressioni interne pro-Israele e l’esigenza di non apparire indifferenti alla catastrofe umanitaria; i contractor colgono un mercato nuovo dove la linea fra sicurezza e filantropia è sottile; alcuni Paesi arabi – specie del Golfo – e donatori privati guardano a GHF come a un modo per sostenere Gaza senza alimentare direttamente l’influenza iraniana.
Finché governance, bilanci e catena di comando non verranno resi pubblici, la Gaza Humanitarian Foundation resterà il simbolo di un soccorso “a porte chiuse”, modello dalle conseguenze potenzialmente dirompenti: se passerà l’idea che l’emergenza può essere gestita come un affare privato, l’intera architettura umanitaria internazionale rischia di trovarsi, suo malgrado, fuori gioco.
- Perché non è più possibile accettare il governo Netanyahu.
Da qualunque angolo lo si osservi – sondaggi d’opinione, testimonianze dei vertici militari, indicatori economici, atti giudiziari internazionali – il governo Netanyahu appare ormai privo di legittimità sostanziale. Un’indagine dell’Israel Democracy Institute, pubblicata a marzo 2025, ha registrato che l’87 % degli israeliani attribuisce al premier la responsabilità del disastro del 7 ottobre e ne chiede le dimissioni immediate o comunque alla fine della guerra: quando quasi nove cittadini su dieci ti voltano le spalle, il deficit di mandato diventa un dato di fatto. In parallelo, la frattura tra il primo ministro e gli apparati di difesa ha toccato livelli inediti: più di centomila riservisti hanno sospeso il servizio, il direttore dello Shin Bet Ronen Bar si è dimesso denunciando pressioni politiche e una schiera di ex capi di Mossad e Shin Bet – da Tamir Pardo ad Ami Ayalon – parla apertamente di un leader «pericoloso per la democrazia e la sicurezza».
Sul piano internazionale la situazione non è meno grave. La Corte penale internazionale ha emesso mandati di arresto per Netanyahu e per il ministro della Difesa Gallant con l’accusa di crimini di guerra, mentre negli Stati Uniti – tradizionale ancora diplomatica di Gerusalemme – si discute per la prima volta di collegare gli aiuti militari al rispetto del diritto umanitario. Nell’ONU e presso le principali ONG si moltiplicano denunce sulla militarizzazione degli aiuti – emblematica la controversa Gaza Humanitarian Foundation – che contribuiscono a isolare moralmente Israele.
All’interno, intanto, l’immagine di «Start-Up Nation» si sgretola: gli investimenti hi-tech sono crollati di oltre il cinquanta per cento nel 2024, l’outlook di S&P è passato a negativo e l’esodo dei capitali corre in parallelo con la fuga di ingegneri che, un tempo, rappresentavano il fiore all’occhiello dell’economia israeliana. La promessa di prosperità e stabilità, da sempre cardine del consenso di centro-destra, vacilla di fronte a un conflitto destinato a trascinarsi senza sbocco politico: dopo quasi due anni di operazioni, Hamas non è stato distrutto, la Striscia è in macerie, la popolazione civile paga un tributo di sangue che le Nazioni Unite definiscono «insostenibile» e il governo continua a non offrire un progetto realistico per il «day after».
Infine, c’è la questione istituzionale. La riforma giudiziaria, percepita come uno scudo personale per il premier, ha innescato la più vasta mobilitazione di piazza della storia israeliana e ha eroso un delicato equilibrio fra poteri che finora aveva garantito la tenuta democratica. Quando la sicurezza interna diventa terreno di lotta politica, i contrappesi si svuotano e lo Stato di diritto si incrina. Sommando perdita di consenso, crisi nei servizi di sicurezza, isolamento diplomatico crescente, deterioramento economico e smantellamento graduale dei pesi e contrappesi, accettare ancora il governo Netanyahu significa – rilevano ormai molte voci anche dentro l’establishment – mettere a rischio non solo la reputazione morale di Israele, ma la sua stessa sicurezza e la sua democrazia.
- Conclusione. Condannare Israele senza negarne il diritto a esistere.
Onorare la memoria della Shoah e riconoscere l’unicità storica del popolo ebraico non significa accettare supinamente politiche che contraddicono i diritti umani. Allo stesso modo, condannare Hamas per il 7 ottobre non implica chiudere gli occhi sulle sofferenze di Gaza.
La complessità della situazione e, va detto, l’insufficienza di negoziati e negoziatori, tende a non far distinguere Gaza coi suoi abitanti dai terroristi di Hamas e dalle ragioni di Israele.
Una riflessione, tuttavia, si impone. Non è soltanto l’Islam politico a segnalare quanto la religione, quando scivola dall’ambito etico a quello giuridico-identitario, possa deformare le istituzioni democratiche. Israele, Stato nato sotto l’egida di un sionismo laico-socialista e per decenni presentato come caso-scuola di “democrazia occidentale” nel Medio Oriente, offre oggi un inquietante contro-esempio: il progressivo peso dei partiti religiosi nazionalisti nella coalizione Netanyahu ha trasformato prescrizioni bibliche in norme civili, ha subordinato la giurisprudenza rabbinica a interessi di maggioranza parlamentare e ha ridotto la Corte suprema a ostacolo da aggirare. La conseguenza più visibile è un doppio sistema di cittadinanza – una per gli ebrei, l’altra per tutti gli altri – che alimenta polarizzazioni interne prima ancora che conflitti esterni.
Questa traiettoria mette in guardia anche società che si percepiscono vaccinate contro il teocratico. Negli Stati Uniti, per esempio, la retorica del Christian nationalism non è più circoscritta a frange marginali: ispira disegni di legge che restringono il diritto all’aborto, ridefiniscono i programmi scolastici attorno a “valori biblici” e celebrano una presunta eredità cristiana come discrimine tra “veri americani” e “altri”. In Polonia, il precedente governo guidato da Diritto e Giustizia ha incardinato una visione cattolico-nazionale nella Corte costituzionale, subordinandone le sentenze ai precetti dottrinali sull’embrione; in Ungheria, Viktor Orbán fa costantemente appello alle “radici cristiane” della nazione per legittimare restrizioni ai media e alla magistratura. Nel cuore dell’Europa occidentale, movimenti identitari francesi, tedeschi, spagnoli o italiani invocano “l’Occidente cristiano” come categoria giuridica, più che come patrimonio culturale.
Il caso israeliano dimostra che il passaggio successivo di questo processo è la frattura permanente fra cittadini: chi si riconosce nella religione di Stato diventa depositario di diritti pieni, tutti gli altri gravitano in un’orbita periferica di tolleranza condizionata. Una volta scardinati i contrappesi – la neutralità giudiziaria, il pluralismo mediatico, l’autonomia militare – tornare indietro è arduo perché l’argomentazione teologico-nazionalista sostituisce il dibattito pubblico con l’appello al mandato divino.
La lezione non invita a relegare la fede nel privato, bensì a ribadire, con fermezza, due principi cardine delle democrazie liberali: la libertà di coscienza, che tutela tutte le fedi e le non-fedi senza attribuire supremazie e la neutralità dello Stato, che amministra diritti e doveri senza “indossare la tonaca”. Finché la religione resta bussola morale – personale o collettiva – arricchisce il tessuto sociale; quando pretende di sostituirsi alla costituzione come fonte esclusiva della sovranità, avvelena il compromesso democratico ed espone qualsiasi nazione, per avanzata che sia sul piano tecnologico o istituzionale, alla spirale di radicalismo da cui voleva tenersi distante.
Detto questo, una pace reale richiede:
- fine dell’occupazione e dei nuovi insediamenti;
- transizione politica a Gerusalemme che escluda gli elementi messianici più estremi;
- riforma profonda della leadership palestinese, con elezioni libere e unificazione amministrativa di Cisgiordania e Gaza;
- coinvolgimento dei Paesi arabi non solo come finanziatori, ma come garanti di sicurezza e sviluppo;
- pressione multilaterale su Iran e attori proxy per fermare il fuoco incrociato regionale;
- architettura di sicurezza credibile: sta emergendo nelle discussioni USA-Egitto-Arabia Saudita l’idea di una forza multinazionale limitata – circa 5-8 000 uomini, arabi in prevalenza, con mandato ONU o Lega Araba – schierata lungo il corridoio di Philadelphi e nei valichi per separare IDF e milizie palestinesi. Think-tank statunitensi (Atlantic Council) ne tracciano contorni operativi, dal controllo dei tunnel alla protezione dei convogli. Senza un “cuscinetto terzo”, il ritiro israeliano rimarrà politicamente irrealistico;
- meccanismo di ricostruzione tracciabile: la posta economica è gigantesca (stima Banca Mondiale: 45-60 mld $). Bruxelles ha aperto un corridoio marittimo Cipro–Gaza con hub doganale europeo e un nuovo molo USA; proposte RAND e Atlantic Council suggeriscono di riutilizzare le macerie per creare una penisola artificiale che ospiti porto e aeroporto civili. Serve però un fondo fiduciario multilaterale, simile a quello usato per l’Ucraina, con audit indipendenti per blindare i capitali da corruzione e interferenze di Hamas o Fatah;
- sequenza ostaggi-prigionieri come confidence-building: la bozza di cessate-il-fuoco statunitense (pausa di 60 giorni, rilascio scaglionato di ostaggi e detenuti) è il ponte minimo per avviare negoziati più ampi. Senza un accordo simbolico su vite umane, nessun passo politico successivo è credibile né verso l’opinione pubblica israeliana né verso quella palestinese;
- incentivi regionali e normalizzazione “condizionata”: Riad ha congelato il dossier sulla normalizzazione, ma continua a far trapelare che un trattato di difesa con Washington e un ruolo saudita nella gestione delle moschee di Gerusalemme potrebbero riaprirlo solo se Israele congela gli insediamenti e accetta una cornice per lo Stato palestinese. Inserire queste clausole in un pacchetto multilaterale (sul modello Accordi di Abramo 2.0) darebbe ai falchi israeliani qualcosa in cambio della retromarcia sui coloni;
- legittimità palestinese dal basso: le rilevazioni PCPSR mostrano che oltre il 60 % dei palestinesi chiede elezioni entro sei mesi; il sostegno a Hamas scende nelle ultime due tornate di sondaggio, mentre cresce, seppur di poco, quello a Fatah. Qualsiasi transizione che mantenga Abu Mazen senza urne o re-imponga tecnocrati esterni sarà percepita come nuova occupazione;
- giustizia e responsabilità reciproche: i mandati della Corte penale internazionale contro Netanyahu e Gallant, insieme alle indagini aperte su crimini di Hamas, creano un contesto legale inevitabile. Prevedere un meccanismo di transitional justice (commissione d’inchiesta internazionale sul modello Sudafrica/Tunisia) può disinnescare la competizione di narrazioni e offrire alle vittime di entrambe le parti un percorso di riconoscimento.
Senza questi mattoni aggiuntivi, il “giorno dopo” rischia di essere solo un interludio fra due guerre: Gaza rimarrebbe un cumulo di macerie senza governance credibile; Israele, spinto dall’alleanza messianica, continuerebbe l’espansione coloniale in Cisgiordania; Teheran e le sue proxy sfrutterebbero il vuoto per riposizionarsi; l’Arabia Saudita resterebbe dietro le quinte e l’Europa confinata al ruolo di bancomat senza voce politica. In sintesi, la pace esige non soltanto concessioni bilaterali, ma un’architettura multilaterale di sicurezza, sviluppo e giustizia con garanzie verificabili, o l’ingranaggio di morte continuerà a macinare non solo vite palestinesi, ma anche la residua tenuta democratica di Israele.
Infine, una considerazione personale. Negli anni al servizio dello Stato, ho lavorato fianco a fianco con colleghi israeliani nei servizi di sicurezza, contrastando terrorismo, radicalismi e antisemitismo. In quelle attività abbiamo condiviso la convinzione che la tutela dei civili e lo Stato di diritto siano parte integrante della sicurezza. Vedere oggi un governo israeliano allontanarsi da quei principi fa male, perché contraddice non solo un’alleanza professionale, ma anche legami di amicizia costruiti in principi ed esperienze comuni. Proprio per questo so che dentro Israele esiste ancora una comunità – analisti, militari, medici, studenti in piazza – che continua a credere nella democrazia e lotta per difenderla. A loro e alla loro idea di sicurezza come protezione della dignità umana, queste povere pagine vogliono tendere la mano, come ai Gazawi.
PAOLO POLETTI
