Il conflitto di Gaza nel contesto storico-politico mediorientale – Parte I

di PAOLO POLETTI

  1. Dalle guerre arabo-israeliane agli Accordi di Abramo.

La risoluzione 181 delle Nazioni Unite (29 novembre 1947) propose di dividere la Palestina mandataria in uno Stato ebraico (≈ 55 % del territorio) e uno arabo (≈ 45 %), lasciando Gerusalemme sotto amministrazione internazionale. Benché i sionisti accettassero il piano, la leadership araba lo respinse; ne seguì una guerra civile che, dopo la proclamazione di Israele il 14 maggio 1948, divenne conflitto interstatale con Egitto, Giordania, Siria, Libano e Iraq.

Per gli israeliani quella del 1948-49 fu la War of Independence; per i palestinesi fu la Nakba (in arabo “catastrofe”): più di 700 000 arabi, circa il 75 % della popolazione palestinese dell’epoca, furono espulsi o fuggirono e tra 400 e 600 villaggi vennero distrutti o ripopolati con nuovi coloni ebrei. Gli sfollati si riversarono in Cisgiordania, Gaza, Libano, Siria e Giordania, dove vivono tuttora in campi profughi multigenerazionali. L’Assemblea ONU, con la risoluzione 194 (11 dicembre 1948), riconobbe loro il diritto di ritorno o a un equo indennizzo, ma Israele ne ha sempre negato l’applicazione, facendo della questione dei rifugiati un nodo irrisolto del conflitto. Ogni 15 maggio, “Giorno della Nakba”, i palestinesi commemorano quell’esodo; nel 2025 la ricorrenza è tornata al centro del dibattito per il timore di una “seconda Nakba” a Gaza.

Dopo la guerra del 1948 si susseguirono altri grandi conflitti:

  • Crisi di Suez (1956) – Israele, Regno Unito e Francia attaccarono l’Egitto di Nasser ma si ritirarono sotto la pressione statunitense e sovietica;
  • Guerra dei Sei Giorni (5-10 giugno 1967) – vittoria lampo israeliana e occupazione di Sinai, Gaza, Cisgiordania, Gerusalemme Est e Alture del Golan, territori ancora al centro delle rivendicazioni palestinesi e arabe;
  • Guerra dello Yom Kippur (6-26 ottobre 1973) – offensiva egiziano-siriana che, pur non ribaltando la situazione, preparò il terreno per futuri negoziati;
  • Invasione del Libano (1982) – volta a espellere l’OLP da Beirut, finì per favorire l’ascesa di Hezbollah, sostenuto dall’Iran.

Sul piano diplomatico la prima pace arabo-israeliana arrivò con gli Accordi di Camp David (Egitto–Israele, 17 settembre 1978), che restituirono il Sinai al Cairo e dimostrarono la centralità degli Stati Uniti come mediatori. Nel 1993 gli Accordi di Oslo stabilirono il reciproco riconoscimento fra Israele e OLP e la creazione di un’autonomia palestinese transitoria con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) per amministrare Gaza e Cisgiordania con autonomia limitata senza tuttavia giungere alla nascita di uno Stato sovrano. Da allora l’OLP resta il rappresentante politico-diplomatico dei palestinesi, mentre l’ANP governa sul terreno in attesa di uno Stato definitivo. Infine, il 15 settembre 2020, gli Accordi di Abramo, normalizzarono le relazioni fra Israele e Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco, segnando una svolta davvero epocale nei rapporti con parte del mondo arabo e relegando la questione palestinese a problema irrisolto sullo sfondo della rivalità con l’Iran. In parallelo, Washington sta cercando di estendere gli Accordi di Abramo all’Arabia Saudita, ma il negoziato è congelato: Riad pretende un trattato di sicurezza con gli USA, un programma nucleare civile e – soprattutto – passi israeliani verso uno Stato palestinese; dopo il 7 ottobre, la guerra di Gaza e l’intransigenza del governo Netanyahu hanno spinto l’erede al trono Mohammed bin Salman a rinviare la firma «a tempo opportuno», lasciando la normalizzazione in sospeso.

Ora dobbiamo chiederci: perché esiste Gaza?

La Striscia nasce con il cessate-il-fuoco del 24 febbraio 1949 (accordo di armistizio israelo-egiziano siglato a Rodi): una linea d’armistizio (corridoio costiero di appena 41 km di lunghezza e 6‑12 km di larghezza fra il deserto del Neghev e il Sinai, affacciato sul Mediterraneo orientale) trasformata in confine che racchiuse 200 000 profughi (oggi 1,7 milioni). Venne amministrata dall’Egitto (1949‑1967) e poi occupata da Israele (1967‑2005). Quest’ultimo si è ritirato nel 2005, ma controlla ancora spazio aereo, acque e valichi. La vittoria elettorale di Hamas nel 2006 e la sua presa di potere nel 2007 resero Gaza politicamente separata dalla Cisgiordania, sigillando l’enclave. Troppo densa per essere annessa e troppo fragile per farsi Stato, resterà nodo irrisolto finché non si concorderanno confini e diritti dei rifugiati.

  1. La questione palestinese rimasta senza soluzione.

Gli Accordi di Oslo si fondavano su due pilastri:

  • fase transitoria di cinque anni, con la nascita dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e il graduale ritiro israeliano dalle città (“Area A”) e da parte delle campagne (“Area B”);
  • negoziato finale su confini, Gerusalemme e rifugiati, da concludere entro il 1999.

Nei fatti, però, oltre il 60 % della Cisgiordania (la “Area C”) rimase sotto pieno controllo israeliano e frammentata in 165 “isole” palestinesi non contigue. Dopo l’assassinio di Yitzhak Rabin (4 novembre 1995) – che molti storici descrivono come il vero “punto di non ritorno” del processo di pace – l’ascesa di Hamas e una crescita esponenziale delle colonie (da ≈110 000 coloni nel 1993 a ≈700 000 nel 2025) erose lo spazio fisico e politico per lo Stato palestinese.

Il Quartetto (ONU-USA-UE-Russia) lanciò nel 2003 una Road Map in tre fasi che prometteva un accordo entro il 2005, ma senza meccanismi di coercizione rimase lettera morta; analogo destino toccò alla Conferenza di Annapolis (2007), chiusa senza intesa definitiva nonostante l’impegno di Ehud Olmert e Mahmoud Abbas, meglio conosciuto con il “kunya” (soprannome) di Abu Mazen.

Per i palestinesi lo stallo significa oggi:

  • frammentazione territoriale ed economica (l’Area C, ricca di risorse, resta preclusa agli investimenti);
  • disillusione verso l’ANP, percepita come inefficace e clientelare: l’87 % dei palestinesi denuncia corruzione nelle sue istituzioni e quasi il 90 % chiede le dimissioni di Abu Mazen.

Ricordiamo che l’OLP fu fondata nel 1964 su impulso della Lega Araba come “parlamento in esilio” dei palestinesi. La colonna portante – numerica, finanziaria e simbolica – dell’OLP è Fatah[1]: controlla anche la presidenza dell’ANP e la maggior parte dei servizi di sicurezza in Cisgiordania, ma è accusata di corruzione e autoritarismo. Le sue Brigate dei Martiri di al-Aqsa risultano frammentate e meno influenti rispetto ai primi anni 2000. L’OLP rimane l’ente riconosciuto a livello internazionale come “rappresentante legittimo del popolo palestinese”, ma i suoi organi si riuniscono di rado; molte fazioni minori (FPLP, DFLP, ecc.) contestano il monopolio di Fatah. Nei negoziati formali, Israele e la comunità internazionale parlano con l’OLP/ANP, cioè con la dirigenza di Fatah; sul terreno, a Gaza, invece, l’interlocutore di fatto è Hamas.

  1. L’ambiguità dei Paesi arabi.

Dal 1948 al 1973 la retorica ufficiale fu riassunta dai “tre no” di Khartoum (1967): niente pace, niente negoziati, nessun riconoscimento di Israele. Dopo l’accordo separato tra Egitto e Israele (Camp David 1978) la coesione araba si incrinò; la “causa palestinese” rimase un collante simbolico interno, utile a legittimare regimi spesso impopolari, ma non una priorità strategica.

Nel 2002 l’Arabia Saudita presentò l’Arab Peace Initiative: riconoscimento collettivo di Israele in cambio del ritiro entro i confini del 1967 e di uno Stato palestinese con capitale a Gerusalemme Est. L’iniziativa fu lodata, ma mai implementata. Negli anni 2010-20, l’emergere dell’Iran come rivale egemonico spinse molte monarchie del Golfo a una cooperazione di fatto con Israele su intelligence e difesa, culminata negli Accordi di Abramo (2020). L’obiettivo reale di gran parte dei leader arabi è oggi contenere Teheran; la statualità palestinese viene rimandata o ridotta a un’“autonomia” di facciata, spesso ipotizzata in confederazione con la Giordania.

4.Hamas e Hezbollah: breve storia e crisi della leadership palestinese e libanese.

4.1 Hamas: dalle origini alla presa di Gaza (1987‑2007).

Fondata il 14 dicembre 1987 durante la Prima Intifada, Ḥarakat al‑Muqāwama al‑Islāmiyya (Hamas) nasce come ramo palestinese dei Fratelli Musulmani con l’obiettivo dichiarato di “liberare tutta la Palestina”:

  • 1988: pubblicazione della “Carta di Hamas”, che definisce la Palestina «waqf islamico» (bene consacrato) e nega ogni soluzione negoziale;
  • anni ’90: costruzione di una capillare rete di moschee, scuole e cliniche che consolida il radicamento sociale; prime operazioni suicide contro civili israeliani per sabotare gli Accordi di Oslo;
  • 2000‑2005: nella Seconda Intifada le Brigate ʿIzz al‑Dîn al‑Qassam moltiplicano attentati e lanci di razzi, diventando il simbolo della “resistenza” armata.;
  • 2005: il disimpegno unilaterale israeliano portò all’evacuazione di circa 9 000 coloni ed alla chiusura di tutte le basi militari dalla Striscia di Gaza, lasciando un vuoto di potere che si trasformò in scontro aperto fra Fatah e Hamas;
  • 2006: vittoria alle elezioni legislative (44 % dei voti, 74 seggi su 132) grazie al sistema maggioritario; il tentativo di governo di unità nazionale con Fatah fallisce in pochi mesi;
  • giugno 2007: dopo una breve guerra civile (Battaglia di Gaza) Hamas espelle Fatah, assume il controllo della Striscia e innesca il blocco israeliano‑egiziano: da allora governa l’enclave senza elezioni.

4.2 Hezbollah: da “Partito di Dio” a egemone del Libano (1982 – oggi).

Hezbollah nasce nel 1982 nella valle della Beqāʿa, addestrato da 1.500 istruttori dei Pasdaran iraniani come risposta all’invasione israeliana del Libano:

  • 1985: pubblicazione del Manifesto che prevede la cacciata delle forze occidentali, la distruzione di Israele, la lealtà al “Wilāyat al‑Faqīh” iraniano;
  • 1992: primo ingresso in parlamento con 8 deputati; grazie ai servizi sociali (ospedali, scuole, ricostruzione) conquista il consenso della comunità sciita marginalizzata;
  • 2000: Israele si ritira dal sud del Libano; Hezbollah capitalizza il ritiro proclamandosi artefice della “prima vittoria araba”;
  • 2006: guerra dei 34 giorni; 4 000 razzi su Israele, distruzione nel sud del Libano; l’organizzazione emerge come “esercito medio” con una legittimazione panaraba;
  • maggio 2008: dopo che il governo tenta di smantellarne la rete di telecomunicazioni, Hezbollah occupa militarmente Beirut Ovest; gli Accordi di Doha gli conferiscono diritto di veto in Consiglio dei ministri, sancendo uno “Stato nello Stato”;
  • 2012 – 2025: intervento in Siria a fianco di Assad, rafforzamento dell’arsenale (≈150 000 razzi) e crescente dipendenza di Beirut dalle sue milizie per la sicurezza del confine meridionale.

4.3 Doppio fallimento di governance.

Il risultato è che a Gaza, Hamas governa in modo autoritario, mentre in Cisgiordania l’ANP sopravvive grazie ad aiuti esterni e cooperazione di sicurezza con Israele, ma perde legittimità presso la propria popolazione. In questo vuoto politico-istituzionale, la prospettiva dei due Stati si allontana sempre più.

4.4 ANP in crisi: da Arafat a Abu Mazen.

  • 1994‑2004: era Arafat. L’Autorità Nazionale Palestinese nasce dagli Accordi di Oslo ma si concentra attorno alla figura del raʾīs; proliferano 14 servizi di sicurezza paralleli, monopoli economici gestiti da Fatah e accuse di corruzione endemica;
  • 2004‑2006: transizione incompiuta. Dopo la morte di Arafat (11 novembre 2004) Abu Mazen viene eletto presidente; promette riforme su trasparenza e sicurezza che però ristagnano, travolte dalla vittoria elettorale di Hamas (gennaio 2006);
  • 2007 – oggi: Autorità senza elezioni. La presa di Gaza da parte di Hamas confina l’ANP alla Cisgiordania; Abu Mazen governa per decreto dal 2009, rimanda le urne, dipende da aiuti esterni e dai trasferimenti doganali israeliani. La fiducia popolare è crollata (sondaggio PCPSR 2023: 12 %);
  • frammentazione securitaria: l’emergere di milizie giovanili armate a Jenin, Nablus e Tulkarem erode ulteriormente il controllo di Ramallah; cresce la percezione dell’ANP come «sub‑appaltatore» della sicurezza d’Israele.
  1. Il “tridente” iraniano: Hamas, Hezbollah, Houthi.

Dalla rivoluzione del 1979 la Repubblica islamica ha assunto come mandato costituzionale l’esportazione della rivoluzione e il rifiuto dell’esistenza di Israele, definito da Khomeini un “tumore canceroso da estirpare” – formula che la Guida suprema Ali Khamenei ripete tuttora nelle proprie fatwe e nei discorsi del Quds Day[2]. Strumento operativo di questa strategia è la Forza Quds dei Pasdaran[3], incaricata di addestrare, finanziare e armare milizie amiche; la dottrina è ottenere “profondità strategica”: se Israele o gli Stati Uniti colpiscono l’Iran, Teheran può “accendere” più fronti periferici in simultanea.

5.1 Hub operativo: Forza Quds e corridoi logistici delle Unità specializzate (es. Unit 190 per il contrabbando di armi, Unit 340 per l’ingegneria missilistica) sfruttano la rotta Iran‑Iraq‑Siria‑Libano e i ponti aerei Mahan Air verso Damasco. L’Iran ha organizzato un “portafoglio” d’armi condiviso, fatto di missili, razzi droni e kit di guida di precisione che vengono smistati ai proxy e adattati localmente.

5.2 Hezbollah: deterrenza multilivello. Riceve da Teheran circa 700 M $ l’anno in contanti, armi e know‑how. Vive quasi interamente di questi finanziamenti e di un’economia clandestina (contrabbando, donazioni), con accuse di nepotismo e gestione “a scatole cinesi” di fondazioni religiose.

Dal punto di vista militare, dispone di oltre 150 000 razzi, droni d’attacco e unità d’élite “Radwan” schierate sul confine nord‑israeliano. In Siria coordina le milizie sciite irachene creando un corridoio terrestre verso il Golan.

5.3 Hamas: pilastro sunnita funzionale. Dal 2014 il Qatar ha elargito oltre 1,8 miliardi $, arrivando a 30 mln $ al mese per salari pubblici, sussidi e carburante. Sebbene sunnita, secondo il Dipartimento di Stato USA, riceve fino a 100 mln $/anno da Teheran (e, secondo fonti israeliane, 350 mln $ nel 2023) in contanti, armi e know-how militare.

Indagini giornalistiche e rapporti di intelligence indicano che una quota consistente di questi fondi, anziché essere destinata alle esigenze di Gaza, è confluita in arsenali o conti personali della dirigenza islamista. Alcuni leader – come Mousa Abu Marzouk, con un patrimonio stimato in miliardi – incarnano l’immagine di un movimento che predica la resistenza ma alimenta la propria élite.

Dal punto di vista logistico, l’IRGC ha fornito “formazione dei formatori” in Libano e Iran e tecnologia per razzi e droni. Dopo il 7 ottobre 2023 Hamas è passato all’impiego combinato di alianti, “sciami” di droni e sorveglianza in real‑time via drone.

5.4 Houthi – la chiave marittima del Mar Rosso. La leadership degli Ansar Allah controlla dogane, carburanti e industria di riscatti; un’élite ristretta della famiglia al-Houthi gestisce i proventi, mentre i servizi pubblici restano al collasso. Il gruppo riceve da 100 a 300 mln $/anno dall’Iran e si avvale anche di un vero e proprio sistema fiscale parallelo nelle zone che controllano, arricchendo la cerchia dei capi e finanziando la guerra. Dal 2015 l’Iran ha girato ai ribelli zayditi droni kamikaze, missili balistici e anti‑nave. Dal 19 ottobre 2023 gli Houthi hanno lanciato vettori su Israele e colpito oltre 70 navi in transito nello stretto di Bab al‑Mandeb, determinando le operazioni di contenimento di Washington e Londra.

5.5 Sinergia e scenari futuri. Le tre pedine esercitano pressioni concentriche: Hezbollah (nord), Hamas (sud‑ovest), Houthi (sud‑est). Esse non solo moltiplicano la pressione militare su Israele, ma erodono la sovranità degli Stati ospitanti (Libano, Palestina, Yemen) instaurando “Stati nello Stato” che rispondono prima a Teheran che ai governi centrali. In Libano Hezbollah condiziona governo e sicurezza; a Gaza Hamas ha espulso l’ANP; in Yemen gli Houthi paralizzano qualsiasi transizione politica. Tutto ciò avviene mentre Khamenei ribadisce che “la fine di Israele è solo questione di tempo”, sancendo l’impossibilità di un riconoscimento reciproco e rendendo la normalizzazione regionale – dagli Accordi di Abramo all’ipotetico ingresso saudita – ostaggio della minaccia iraniana.

In sintesi, l’“asse della resistenza” costituisce per Teheran un moltiplicatore di potenza a basso costo: nessuna proxy da sola può sconfiggere Israele, ma agendo a tenaglia – nord (Hezbollah), sud-ovest (Hamas) e sud-est (Houthi) – garantiscono all’Iran la capacità di destabilizzare l’intera regione e di negoziare da una posizione di forza con Washington, Gerusalemme e le monarchie del Golfo.

5.6 Nuovi sviluppi da monitorare:

  • distribuzione di missili ipersonici Fattah/Paveh a Hezbollah;
  • creazione di un Command & Control combinato (“Operations Room”) tra Gaza, Beirut e Sana’a;

uso crescente di criptovalute e reti Hawala per eludere sanzioni e mantenere i flussi di cassa.

[1] Fatah (Ḥarakat al-Taḥrīr al-Waṭanī al-Filasṭīnī – Movimento di liberazione nazionale palestinese, fu fondata nel 1959-60 in Kuwait da un gruppo di esuli guidati da Yasser Arafat, Khalil al-Wazir (Abu Jihad), Salah Khalaf (Abu Iyad) e altri. L’obiettivo originario era liberare la Palestina con la lotta armata contro Israele, senza dipendere da regimi arabi. L’ideologia era un nazionalismo palestinese laico: non un partito marxista né islamista, ma un movimento “big-tent” che accoglie sensibilità diverse, da socialdemocratiche a più conservatrici. Era costituita da una rete di cellule militari (al-Asifa, poi Forze 17, Tanzim, al-Aqsa Martyrs’ Brigades) e da ramo politico concentrato attorno al Comitato Centrale.

[2] È una manifestazione annuale, istituita da Ayatollah Khomeini nel 1979, che si tiene l’ultimo venerdì del mese di Ramadan per esprimere solidarietà ai palestinesi e per contestare l’esistenza di Israele. Il nome deriva da al-Quds, appellativo arabo di Gerusalemme.

[3] L’Islamic Revolutionary Guard Corps (IRGC) è la forza militare d’élite istituita in Iran dopo la rivoluzione del 1979 con lo scopo di proteggere il sistema teocratico ed “esportare la rivoluzione” attraverso operazioni convenzionali, intelligence e attività clandestine all’estero. Comprende reparti terrestri, aerospaziali, navali e la Forza Quds, braccio esterno incaricato di addestrare e finanziare milizie alleate (Hezbollah, Hamas, Houthi, milizie sciite irachene e siriane).

PAOLO POLETTI