APERTO COME UNA MANO
di ANDREA BARBARANELLI ♦
Lo trovò nel patio, seduto per terra, le spalle appoggiate al muro di cinta, e lo prese per un ubriaco entratogli in casa a smaltire la sbornia del venerdì notte. Teneva gli occhi aperti, come se stesse fissando i frutti che pendevano dai rami del totumo, ma solo nel momento in cui lo riconobbe vide lo squarcio che gli attraversava la gola. Deve aver saltato il muro prima che lo sgozzassero, ma certamente era già ferito in qualche altra parte del corpo, pensò Horacio, perché il sangue aveva fiorito di un muschio color ruggine i pezzi d’intonaco sopravvissuti all’inverno. Si inerpicò sul mucchio di mattoni abbandonati da tempo lì accanto, in attesa di essere utilizzati, e guardò dall’altro lato del muro. Da quell’altezza, tenendosi in equilibrio con uno sforzo che finì per bagnarlo completamente di sudore, constatò la rovina delle aiuole nel giardino dei vicini, i vasi rovesciati e rotti nella furia di una fuga e di un inseguimento, che gli fu facile immaginarsi, i fiori schiacciati nel fango. Era evidente che lo avevano raggiunto quando il muro lo aveva fermato, dopo averlo rincorso attraverso chissà quanti cortili e giardini. Lo avevano però finito, sgozzandolo, lì dove lo aveva trovato: non si può superare un muro con la gola tagliata. Riconobbe meticolosamente i segni della violenza impressi nel terreno e solo allora, dopo averli considerati con calma, si dedicò a un esame più scrupoloso del cadavere. Prese fra le mani la testa del morto, la tirò verso di sé, delicatamente, per staccare il corpo dalla parete, e constatò che il cadavere presentava altre tre ferite: una all’altezza della scapola destra, un’altra pochi centimetri al di sopra delle reni, una terza nel polpaccio della gamba sinistra, evidentemente infertagli mentre scalava il muro. Le mani, che teneva strette fra le cosce, erano state attraversate dalla lama di un coltello, come se avesse cercato di parare i colpi a mani nude. Si alzò, spaventato e perplesso, e cercò di ricostruire mentalmente la successione dei fatti che avevano portato quel corpo nel luogo dove ora si trovava. Si girò lentamente su sé stesso e si rese conto, per il silenzio dei cortili deserti, che ormai tutti i vicini sapevano che suo cugino Álvaro era stato ammazzato durante la notte ed era venuto a morire in casa sua. Erano le otto di mattina di un sabato sfolgorante e nessuno dei vicini aveva ancora acceso la radio o collocato una sedia all’ombra degli alberi per cominciare la giornata. Benché fosse un cinquantenne dai gesti lenti e misurati, a cui costava uno sforzo enorme l’elaborazione di un pensiero, capì di colpo che il paese, per cominciare a muoversi, stava aspettando che facesse lui il primo passo. Guardò ancora una volta il cadavere e, infastidito dal trovarsi esposto allo sguardo di quegli occhi aperti, si chinò con l’intenzione di chiuderglieli. All’ultimo momento si fermò, ricordando che non doveva toccare il cadavere prima del sopralluogo della polizia. Si diresse verso la porta della camera da letto e si fermò sulla soglia, alzando la tenda.
«Abbiamo avuto visite stanotte», disse.
Dall’oscurità della stanza gli rispose il piagnucolio con cui sua moglie, irreparabilmente convinta del suo destino di femmina sterile da una tormentosa menopausa precoce, lamentava di essere sopravvissuta a un’altra notte di insonnia.
«Vieni a vedere che ho trovato nel patio», disse Horacio. «Che strano che non ti sia accorta di niente, tu che hai il sonno così leggero».
«Non ho il sonno leggero», si risentì la donna. «Sono dieci anni che non chiudo occhio per la mia nevralgia».
Non aveva curiosità per quello che succedeva intorno a lei e non gli domandò che cosa avesse trovato nel patio.
«Alzati e vieni a vedere», insistette Horacio. «È meglio che lo veda, prima che chiami le guardie».
«Non poteva scegliersi un altro posto?», disse disgustata, dopo aver dato un’occhiata alla faccia del morto, sulla quale avevano cominciato a posarsi le mosche. Era alta e imponente, ma con un viso di bambina dove si perdevano due occhi chiari e acquosi che guardavano il mondo di sguincio.
«È l’ultimo bel regalo che ti ha fatto».
«Lo hanno inseguito fin qui», la corresse lui staccando ogni parola, perché lei capisse esattamente come si erano svolti i fatti. «Ha attraversato tutti i cortili, inseguito dagli assassini, e alla fine lo ha fermato il nostro muro. Lo hanno raggiunto lì sotto: ci sono i segni sul terreno. Li ho già visti e esaminati».
Horacio entrò nella camera da letto e ne riuscì con in mano un lenzuolo piegato. Lo stese aprendo le braccia e, vedendo che il cadavere era coperto di mosche, lo agitò per cacciarle; si rivolse quindi alla donna che già si incamminava verso la cucina:
«Devo andare in commissariato. Ti sei accorta che ancora non è uscito nessuno?».
«Fatti prima la barba», disse la donna. «Se ti presenti con quella faccia, penseranno che l’hai ammazzato tu».
Le visite cominciarono verso sera, quando il morto, collocato in una bara troppo grande per il suo corpo magro e rattrappito, fu esposto nell’ultima stanza della casa, in fondo al corridoio scoperto. Per la prima volta da quando erano sposati, Horacio si era opposto vittoriosamente alla volontà della moglie, che pretendeva che i poliziotti, compiute le formalità del sopralluogo, si portassero via il cadavere.
Sono il suo unico parente, aveva detto, senza preoccuparsi dell’improvviso mal di testa che aveva abbattuto la donna su uno sgabello. Lo veglio in casa mia.
Osservò ancora una volta il morto, i cui occhi infine erano stati chiusi dalle donne chiamate a lavarlo e vestirlo. All’espressione di spaurito stupore che la sua faccia conservava ancora quando lo aveva trovato nel patio, era seguita, dopo che gli erano state abbassate le palpebre, un’aria di consapevole tristezza. Poco a poco, con il passare delle ore, il viso si era contratto in una specie di smorfia dolorosa, che sembrava provocata dall’intima resistenza ad accettare la nuova condizione, ad accettare l’ineluttabile immobilità della morte. Era la prima volta che Horacio poteva osservare suo cugino Álvaro senza doversi difendere dalle provocazioni con cui era solito turbare la sua tranquillità e i suoi pregiudizi di uomo perbene. Era talmente inquieto, quel benedetto cugino, che non riusciva a tranquillizzarsi nemmeno nella morte? O è forse che nessuno può adattarsi all’idea di finire sottoterra? Sarebbe successo così anche a lui, quando fosse arrivata la sua ora? Lo avrebbe volentieri lasciato solo, in quella bara di legno lucido rivestita all’interno di raso, dall’aspetto tutto sommato morbido e accogliente, ma davanti all’ingresso di casa era già riunito tutto il vicinato.
Passata la mezzanotte, qualcuno gli segnalò la straordinaria e sorprendente somiglianza con lui che il defunto era andato assumendo col passare delle ore. Si aprì un varco tra la folla, nell’aria resa pesante dall’odore della morte. Appoggiò le mani sul bordo della cassa. Era vero. Il corpo che lui aveva evitato di guardare da quando era iniziata la veglia, si era rilassato, il viso si era acquietato, aveva raggiunto un’espressione di profonda tranquillità, quasi di beatitudine, come se si fosse riconciliato con sé stesso. Adesso, forse per effetto dei gas della decomposizione, era addirittura ingrassato e riempiva completamente il feretro nel quale, all’inizio della veglia, dava l’impressione di perdersi.
Si allarmò. Diede una rapida occhiata intorno a sé ma si trovò davanti delle facce impenetrabili. Mise una mano sulla fronte del morto e sentì il freddo della carne morta. Per la prima volta, davanti a un cadavere, pensò al proprio corpo, a come sarebbe stato dopo la morte. Questo corpo qui nella bara è il mio corpo, pensò faticosamente, come arrendendosi all’evidenza. Questo corpo è il mio corpo come sarà dopo l’ultimo respiro. Questo morto sono io.
Benché suo cugino avesse vissuto in un modo che lui non era mai riuscito né a capire né ad approvare, Horacio sentiva che adesso, nella morte, stava cercando di suggerirgli qualcosa che doveva essere di estrema importanza, per lui, se gli procurava una pena, un malessere che aveva l’intensità di un pentimento. O di un rimorso. Ora, nella morte, gli si era avvicinato come mai era successo da vivo. E allora, pensò, era stato inutile, era stato addirittura stupido e privo di senso sacrificarsi, vivere di rinunce, dedicarsi alla moglie malata, al suo onesto lavoro di macellaio? Certo che era stato inutile, se ora, nella morte, era impossibile distinguerli, i due cugini, l’irrequieto, l’insofferente di ogni regola e il corretto benpensante, il conformista ligio alle regole. Dal fondo degli anni lontani della gioventù, quel cadavere era venuto a naufragare contro il muro di casa sua per ricordargli che anche lui avrebbe potuto cadere con la gola tagliata da un coltello, come suo cugino, se solo avesse preso una strada diversa, una strada appena appena diversa, una fra le tante che gli si erano aperte davanti, agli inizi della vita, tanti anni prima.
Cos’è che vuoi da me?, disse avvicinando la faccia alla faccia del morto. Travolto da una passione che aveva tardato tutta la vita a manifestarsi, si piegò sul morto, comprendendo per la prima volta che Álvaro era solo un altro suo io cresciuto in altre circostanze, una diversa altra realizzazione della sua stessa natura, fra le infinite che gli si erano offerte come possibili nell’infanzia e nell’adolescenza, quando tutto era ancora indefinito. In quel momento amava appassionatamente suo cugino, e gli accarezzava la fronte, mentre le lacrime gli bagnavano le guance. In quel momento lo amava e provava per lui un affetto che non si era mai accorto di avere.
La moglie, che era entrata per offrire da bere ai visitatori, non poté frenare l’indignazione.
«Vieni ad aiutarmi coi bicchieri, piuttosto», disse. Gettò quindi un’occhiata furiosa al cadavere e restò paralizzata dall’orrore.
Tre giorni dopo il funerale, Horacio sognava di trovarsi nel terremoto quando lo svegliarono gli scossoni di sua moglie.
La luce era accesa.
Lei si mise un dito sulle labbra.
«C’è qualcuno nel corridoio», disse.
Lui si sedette nel letto. Si sentiva solo, fra i rami del totumo, il vento che precede l’acquazzone.
«Non c’è nessuno», disse.
«Ho sentito dei rumori», insistette lei.
Aveva il viso talmente stravolto che lui preferì darle retta. Si alzò, prese la torcia elettrica e aprì la porta, senza affrettarsi. Si sentì da fuori la sua voce che in tre giorni era diventata più grave.
«Era solo un gatto. Era restato sotto un sacco di cemento».
Prese l’abitudine di non riaprire la macelleria, dopo la siesta.
Passò i primi pomeriggi a rintonacare il muro di cinta e a imbiancare le pareti esterne della casa. Ma lasciò il lavoro a metà. Afflitto da una pena che non riusciva a spiegarsi, appoggiava la spalliera della sedia al muro di cinta del patio, nel punto in cui aveva trovato il corpo di Álvaro, e restava a fissare i frutti del totumo finché, nell’oscurità, non diventavano dei lucidi teschi tra le foglie.
La donna aveva smesso di lamentarsi. Seduta sul letto, sostenuta da quattro cuscini, spiava il marito dalla porta socchiusa e scuoteva di tanto in tanto la testa, come era solita fare in presenza delle disgrazie irrimediabili.
La seconda settimana, Horacio si sedette di fronte all’albero fin dal mattino presto. La donna si animò a domandargli:
«Non apri la macelleria?».
«Ho messo un avviso sulla porta», disse lui.
«Che avviso?».
«Chiuso per lutto».
«Ma se sono ormai passate tre settimane».
«Non è il lutto per Álvaro».
Abbandonata a sé stessa, la casa prese rapidamente l’apparenza di un teatro in disuso. Le piogge torrenziali di quel mese provocarono una crescita prodigiosa delle erbe e dei rampicanti che, dopo aver invaso il patio, trasformandolo in una selva dove scorrazzavano le iguane, continuarono la loro avanzata nelle stanze. Inchiodata nel suo letto, la donna tossiva incessantemente, soffocata dall’odore delle muffe.
Seduto sull’erba che ora gli arrivava alle spalle, Horacio ripercorreva minuziosamente le strade che l’avevano portato fin lì, si fermava ad ogni biforcazione e cercava di immaginare che cosa avrebbe potuto trovare in fondo alla strada che, quando aveva avuto la possibilità di imboccarla, non aveva preso.
Perso nel labirinto che andava costruendo giorno dopo giorno, non avvertì l’affaccendarsi delle vicine nella camera da letto dove non era più entrato, quando vennero a portarsi via la malata.
Si rianimò solo quando una voce, che proveniva da una delle teste appese ai rami del totumo, lo chiamò pronunciando parole di una lingua che non aveva mai sentito prima. Si alzò e s’incamminò verso l’albero, reso trasparente dalla luce della luna, inciampando nelle dure erbe intricate e spaventando le serpi che vi avevano fatto il nido. Ci fu uno sbattere d’ali, all’altezza della sua faccia, e lui seppe che, se fosse riuscito ad arrivare fino all’albero e ad avvicinare la sua testa alle teste appese ai suoi rami, il senso di quelle parole gli si sarebbe aperto, come un frutto o una mano.
ANDREA BARBARANELLI
