Fiori, lacrime e altre distrazioni – Femminicidio e metamorfosi nell’Italia che si crede moderna.

di CAROLETTE VILLOTTI
In principio fu la Voce.
Non un grido, non un ordine, ma un canto — limpido, pieno, vivo — come acqua che sgorga da una roccia ostinata, con lo sguardo rivolto al cielo.
Poi vennero le Mani.
Non per sorreggere, ma per stringere, piegare, imprigionare: radici attorno a una caviglia che tenta la fuga.
Venne il Giudizio, greve e appuntito, cucito nell’orlo della borsa che ogni donna si porta dietro: quella dei giorni ingoiati, delle scelte negate, dei “non fa niente” che pesano come pietre.
E con quella borsa addosso, inciampa ogni volta che osa dire “io” — come se l’autonomia fosse una colpa da espiare.
Poi giunsero le Carezze.
Quelle che domandano, quelle che pretendono, quelle che soffocano — e la colpa, sempre, è tua.
E le parole — dolci lame — sussurrate con la grazia del veleno, accompagnate da sorrisi affilati, educati, definitivi.
E infine, il Silenzio.
Non quello che consola. Quello che corrode.
Che si insinua sotto le porte chiuse, tra una lite e una lasagna, tra una scusa e un’occhiata.
Silenzio che si stende nel letto con lei, si annida nella gola, si posa sulle ciglia,
sottile come gas, incolore come l’abitudine, letale come la normalità. Invisibile. Totale.
E dopo il Silenzio, la Bara.
È sempre così che comincia e finisce una storia d’amore malata: con la voce che sparisce, come un’eco nel pozzo.
E noi, spettatori attoniti e sazi di fiction, abbiamo fatto del dolore altrui un episodio da binge-watching emotivo.
Non troverete qui i nomi delle vittime di femminicidio.
Non per dimenticanza. Ma perché sono già tutte qui, tra queste righe antiche, scolpite nei miti: donne inseguite, spogliate, silenziate, trasformate per sopravvivere.  
Perché ogni Dafne è anche una Giulia.  
Ogni Filomela, una Chiara.  
Ogni Eco, una Sara.
I loro nomi esistono. Li conosciamo. Ma qui, le rappresentiamo con quelli che il tempo non è riuscito a cancellare.  
Perché il mito — quello vero — non è finzione. È memoria. È specchio. È profezia.
E il passato, a volte, è solo il presente travestito meglio.
METAMORFOSI, TRA VERSI E REALTÀ
C’era una volta, in un mondo non troppo diverso dal nostro, un poeta romano dal nome altisonante: Publio Ovidio Nasone. Scriveva versi incantevoli su ninfe che diventano alberi, fanciulle che si dissolvono in suono, donne che si trasformano in uccelli per sfuggire a mariti violenti.
E noi, affascinati da tanta poesia, ci siamo distratti. Non abbiamo notato che in quelle Metamorfosi c’era una verità scomoda: il corpo femminile, per salvarsi, deve cambiare forma. Svanire. Scomparire.
Duemila anni dopo, eccoci qui: ancora a contare le donne che, per salvarsi, devono fuggire, nascondersi, cancellarsi. O che, più spesso, non ci riescono. E muoiono.
OVIDIO, IL POETA DEGLI STUPRI CON LA LIRA IN MANO
No, Ovidio non era un attivista femminista. Era un uomo del suo tempo, abile con i versi e con i potenti. Ma nella sua Metamorfosi, forse senza volerlo, ha scritto il più lungo e poetico bollettino di guerra contro il corpo delle donne. Un’epica del dolore, incastonata tra la grazia del verso e la brutalità dell’atto.
Apollo, il dio-bullo che trasforma Dafne in alloro perché “se non posso averti, ti pianto”. Letteralmente.
Tereo, che violenta Filomela e le taglia la lingua perché taccia per sempre.
Narciso, che lascia Eco morire di mancanza, troppo innamorato del proprio riflesso per notare chi gli muore accanto.
Altro che mitologia. Questo è un verbale, solo con più rime.
DAFNE OGGI SI VESTE DA OMBRA
Prendiamo Dafne, per esempio. Corre via da Apollo, che – piccolo dettaglio – è un dio. Ma neanche questo le basta per essere lasciata in pace. Lui la vuole, lei dice no, lui rincorre. E lei, per scampare allo stupro, si fa trasformare dal padre in albero. Alloro. Corteccia. E lui? La guarda e sospira: “Che bellezza. Ti onorerò.”
Certo, che uomo romantico. È appena passato dal tentato stupro al giardinaggio commemorativo.
Ora, basta sostituire Apollo con “il tuo ex”, “il capo invadente” o “quello che ti segue in macchina fin sotto casa” e il mito, sorprendentemente, prende vita.
Dafne oggi corre per strada, stringe le chiavi tra le dita come fossero artigli. Non si trasforma in alloro, ma si mimetizza: si veste largo, si abbassa, si cancella.
Si annulla.
È il nostro sport nazionale: la sopravvivenza femminile.
FILOMELA: QUANDO PARLARE È REATO DI LESA MAESTÀ
Poi c’è Filomela.
Violentata dal marito della sorella, Tereo, che – per evitare complicazioni legali – le taglia la lingua.
Eh già, la comunicazione è importante in una relazione.
Ma lei non tace.
Tesse.
Ricama la sua verità su un tessuto, parola dopo parola, filo dopo filo.
Una forma antica di resistenza, più potente di mille discorsi.
Come oggi: un post scritto a notte fonda, una denuncia fatta tremando, una frase su un cartello alzato in una piazza che non sa ascoltare.
Perché le donne, da sempre, raccontano come possono.
E se non possono parlare, scrivono, cuciono, incidono, cantano, urlano piano.
Non è cambiato molto. Cambiano i mezzi.
Ma il mondo, spesso, resta sordo nello stesso modo.
ECO E NARCISO: LOVE STORY TRA VISUALIZZATI E FANTASMI
Eco ama Narciso, che ama solo sé stesso. Lei lo segue, ripete le sue parole, si consuma. Alla fine, di lei resta solo la voce.
Ecco, un altro mito da manuale. Il rapporto tossico. Il grande classico: lei si adatta, lui si specchia. Lei si annulla, lui si contempla. Lei lo ama, lui ama… il riflesso nel proprio bicchiere, mentre le spiega che è troppo sensibile.
Eco oggi ha un profilo social dove ogni post è un “ti amo” travestito da ironia. Si scusa, si colpevolizza, si annulla. E se poi sparisce del tutto, tutti si chiedono: “Ma sembrava così felice…”
IL FEMMINICIDIO COME FALLIMENTO EPOCALE
Nel mondo reale, fuori dalle pagine di Ovidio, le donne non si trasformano. Non diventano alloro, né piume, né suono. Diventano statistiche. Una ogni tre giorni, in Italia. Una donna uccisa da un uomo che spesso diceva di amarla.
E allora si parla di “raptus”. Un’altra parola nobile per dire “non so accettare un no”. Si dice “amore malato”. Ma no. Il femminicidio non è un’anomalia. È il picco letale di una cultura che ha normalizzato il possesso, la prevaricazione, la paura come strumenti di relazione.
IL PATRIARCATO HA CAMBIATO LOOK, MA NON INTENZIONI
Ogni volta che accade un femminicidio, parte la solita liturgia mediatica: “Era un uomo normale”, “Un gesto inspiegabile”, “Lei non aveva mai detto nulla”, “Lui, un gran lavoratore”.
Fiori. Fiaccolate. Frasi di circostanza. Poi si passa alla prossima notizia.
Il patriarcato oggi si presenta con modi più eleganti, parole meno sguaiate. Ma non ha perso la sua fame. Ha solo imparato a indossare il doppiopetto, a parlare di “relazioni difficili” e “emergenze educative”. Nel frattempo, le donne muoiono.
METAMORFOSI 2.0: RESTARE INTERE, CAMBIARE IL FINALE
Ovidio ci ha lasciato i miti. Tocca a noi scrivere i finali. Questa volta, senza metamorfosi. Senza fughe. Senza silenzi.
Perché le donne non vogliono più diventare voci spettrali, alberi inchiodati alla terra o fili di lana da decifrare. Vogliono essere ascoltate prima. Credute prima. Protette prima.
Sì, certo: i tempi sono cambiati. Ma finché una donna sarà costretta a “trasformarsi” per non essere uccisa, non sarà mai abbastanza.
FINALE – IL CANTO INTERO
In principio fu la Voce.
Non un grido, non un ordine, ma un canto — limpido, pieno, vivo.
E infine, sarà ancora Voce.
Non più spezzata, non più morsa, non più cucita.
Una voce intera, che non chiede permesso.
Che non tace per educazione,
che non si abbassa per amore,
che non si spegne per paura.
Nessuna corteccia. Nessuna piuma. Nessun filo.
Le donne non vogliono metamorfosi.
Vogliono restare. E restare vive.
Non diventare altro per sfuggire,
ma essere sé stesse — e basta.
Come acqua che non si lascia contenere,
come pietra che non chiede scusa alla terra,
come fiato che ritorna nel petto dopo il pianto.
Non più silenzio.
Non più bara.
Solo voce.
E questa volta,
ascoltatela bene.
Perché non smetterà più.
CAROLETTE VILLOTTI