IL SEMAFORO ROSSO

di CARLO ALBERTO FALZETTI ♦

 Cara amica,

il tempo non è proprio quel filo teso che occupa il nostro immaginario, quel filo dove gli attimi si susseguono in modo che l’uno sia del tutto nuovo rispetto al precedente. Il tempo non è lo spazio che percorrono le lancette di un orologio. Suddividere lo spazio e farne cifra cronologica può essere un ottimo espediente per chi deve fare scienza o manipolare formule matematiche.

Sono molti gli anni che ho visto passare. Così sembra che alle mie spalle io abbia a trascinare una specie di grosso cumulo fatto di affastellati eventi che di tanto in tanto io vada a rovistare e faccia rivivere con la memoria o che un meccanismo, che ignoro, mi ponga improvvisamente di fronte durante il sonno. Sovente sto a vedere come ricordi immersi nell’oblio balenino all’improvviso posti in essere semplicemente dall’innocente agire di un senso (come per la madelaine di Proust).

Debbo riconoscere che il tempo non sia mai definitivamente passato. Perché passare dovrebbe significare che qualcosa sia sparito, andato via, perso nella nebbia. Per la maggior parte della gente gli eventi scorrono inesorabilmente come le lancette dell’orologio. Vanno via, scorrono come l’acqua di un fiume.

 Ma non è così! O meglio è così solo in minima parte.

Vedi, il tempo di ciascuno è come un gomitolo aggrovigliato che si accumula e che si va sempre più appesantendosi.

Un gomitolo, amica mia, è un intreccio disordinato che mescola passato prossimo con passato remoto senza una precisa regola. Altro che tempo lineare, regolato sulla rispettosa successione degli eventi!

Il passato non è mai risolto del tutto. Il passato dura e nel durare paralizza il presente e contamina il futuro.

Rammento l’infanzia con i suoi sogni fantastici, ricordo l’adolescenza con le sue promesse primaverili. Allora l’albero della vita era pieno di gemme che attendevano solo di sbocciare, di farsi ramo. Quanti sono i rami che hanno avuto vita ed infiorescenze? E quanti quelli che non hanno potuto vegetare? Purtuttavia,  questa convulsa vegetazione è perfettamente impressa in quel grigio tronco, anche se più non germoglia.

Come si può pensare che “il già stato” venga del tutto assorbito così da renderlo perfettamente innocuo?

Quante sono le macerie di ciò che stava per essere, di ciò che sarebbe potuto essere, di ciò che non scegliemmo o non ci capitò di scegliere? Ed in quelle macerie ammassate lungo la via della vita ci sono anche i detriti della nostra relazione incompiuta.

Intendimi! Io non so dirti se la mia vita trascorsa, le scelte che ho fatto, il destino che ho avuto  sia stato frutto di libertà o del puro caso. Io non so dirti se si agisce o più onestamente si è agiti.

 Però una cosa mi sembra chiara, almeno così mi sento di dirti: tutto ciò che mi ha riguardato è come se si fosse rappreso, come una specie di poltiglia densa che mi resta appiccicata addosso e non si assorbe.

Ed il presente che vivo? Capisci bene che quanto non abbia trovato assorbimento ora sia qui, a bussare alla porta, a tormentarmi ma anche a rallegrarmi, a sciogliermi in tenui nostalgie, ad irritarmi per qualche riemergere raccapricciante. Tutto questo, insomma, paralizza il mio presente e fa anche qualcosa in più: condiziona quel poco di futuro che m’è concesso.

 Già, proprio questo fa il tempo! Un gioco rocambolesco dovuto al fatto che questo breve futuro sembra tornare sempre più indietro perché il passato si slancia in avanti impietosamente, capisci? Si slancia addosso trascinando il futuro a sé, condizionandolo, quasi ingoiandolo con le sue capaci fauci. Il passato determina il futuro.

 Che gioco insensato!

Alla mia età vorrei tanto ricevere una tranquillità dell’anima, una tranquillitas animi. Certo, questo vorrei, ma non posso.

Per caso, ho saputo di te, quando ho rallentato la mia auto al semaforo ed ho gettato uno sguardo sul muro di lato. Il tuo volto che stentavo a riconoscere, il tuo nome, la tua età, una data, un orario. Ed il passato, come una scintilla, ha fatto irruzione furiosamente facendo riaffiorare uno strato geologicamente sommerso dai tanti “io”che si sono via via succeduti.

Ci incontrammo alla circonvallazione, ricordi? Un grumo di tanti decenni fa. In una sera fumosa d’estate. Ricordo un vecchio malconcio palazzo, l’ombra illanguidita di tua madre, le trecce intrecciate e la gonna a fiori. Mi intenerivo alla luce fioca della lampada comunale che ci sovrastava. Dolcezza erano quelle mura screpolate del tuo palazzone pallidamente rosato. Spasmodica la corsa che facevo per raggiungerti in quello spazio così anonimo, così triste, ma allora così avvolgente. Inquieti spiriti  ci stavano ascoltando ed avrebbero impresso nella memoria il loro marchio: un filo avvolto nel grande gomitolo del tempo.

Vedi, solo ora, dopo tanti anni, si è stabilito fra di noi un gioco di vicinanza nella  lontananza che ci separa. Seppur è solo lontananza provvisoria.

Ora che le mie possibilità sono del tutto esaurite e le energie smarrite mi scopro a parlare con te, ora che non posso più avere risposte. Mi sento, nel ripiegarsi della coscienza su se stessa e grazie alla tua immaginaria presenza, sospinto verso uno spazio di pura irrealtà che però soddisfa la mia sete di illusione verso un mondo ove sia finalmente estinta  ogni relazione legata al tempo, giunto come sono alla periferia della mia esistenza.

Un eterno presente senza più il tempo, ora questo desidero!

CARLO ALBERTO FALZETTI