LA PRINCIPESSA
di ANDREA BARBARANELLI ♦
Svoltato l’angolo del corridoio, che s’era andato progressivamente stringendo tanto che ormai si poteva procedere solo in fila per uno, si fermò, spaventata dal buio improvviso e dalla certezza di non essere più seguita dalle sue accompagnatrici.
Hanno spento le torce e sono tornate indietro, mentre io svoltavo l’angolo, o sono entrate in un altro corridoio o in una stanza che io non ho visto, pensò. Che cosa orribile, questo buio e questo freddo. È come se camminassi completamente nuda e scalza. Eppure ricordo che quando sono entrata in questo sotterraneo indossavo un meraviglioso vestito di cotone e di piume di quetzal.
Si fermò, dunque, e si girò, benché le fosse stato ordinato di non farlo mai, per nessun motivo. Percepì o credette di percepire un chiacchiericcio e delle risatine soffocate oltre l’angolo da poco superato, e tornò indietro, per sorprendere le sue accompagnatrici, violando coscientemente l’altro divieto che le era stato imposto, quello di non tornare mai sui suoi passi. Annaspò nel buio, agitando le braccia davanti a sé. Dove avevano potuto nascondersi? Forse l’avevano lasciata sola ancor prima di arrivare a questa parte del sotterraneo, quando stavano ancora attraversando la successione di stanze, tutte minuziosamente uguali, che le aveva provocato la vertigine che l’ordine ossessivo può dare, a differenza della trascuratezza festosa del disordine. Si erano nascoste per giocare o si erano davvero perse in quel labirinto di stanze? O era stata lei ad avanzare troppo e troppo in fretta, incalzata dal desiderio di arrivare all’ultima stanza, dove la stavano aspettando per la cerimonia finale, e le aveva lasciate indietro, chi sa in quale incrocio di corridoi, incapaci ormai di proseguire, terrorizzate come dovevano essere al pensiero delle conseguenze che avrebbe avuto una tale mancanza al loro dovere di accompagnatrici? Se era così, doveva tornare indietro per il cammino già percorso finché non le avesse incontrate di nuovo. Ma se invece l’avevano lasciata intenzionalmente, perché era previsto e stabilito che percorresse da sola e al buio l’ultimo tratto che la separava dalla camera nuziale, doveva farsi coraggio, senza cercare l’appoggio di nessuno, e arrivare senza titubanze al suo destino. Non era forse la figlia di un sovrano? Che aveva in comune con le donne che l’avevano accompagnata nella prima parte del percorso, con quelle servette che parlavano in modo ordinario, volgare, utilizzando giochi di parole e doppi sensi che lei non riusciva ad afferrare, che ridevano indecorosamente, e avevano mani ruvide e callose che le avevano maltrattato la pelle mentre la vestivano? Però, malgrado tutto ciò, le avevano fatto indossare uno splendido vestito di cotone candido come la neve delle montagne e ornato la testa con un prezioso diadema di piume di quetzal. Non poteva nascondere a sé stessa che, quando quelle donne erano entrate in frotta chiassosa nella sua stanza, era stata travolta dalla felicità di vedersi adorata come una dea. Il contatto della stoffa delicata l’aveva esaltata come la carezza della mano di un innamorato. Pensò solo questo: “È arrivato il momento delle nozze”. Quando l’avevano presa per mano, aveva chiuso gli occhi con l’intenzione di riaprirli solo nel momento in cui sarebbe entrata nella sala della cerimonia. Questo aveva pensato. Ma, poco dopo, le forti mani che la conducevano l’avevano lasciata e, appena ebbe riaperto gli occhi, si era accorta immediatamente che il cammino fino alla sala doveva essere ben più lungo e intricato di quanto avesse previsto. Circondata dalle ancelle, che si spingevano disordinatamente facendo ressa, gridando, insultando, era passata quasi di corsa da un corridoio a un salone con una porta in ciascuna delle pareti. “Per quale dobbiamo passare?”, aveva domandato. Ma le donne, in piedi in mezzo alla sala, avevano continuato a ridere e a pronunciare parole che ferivano il suo udito. “Per dove tu vuoi, e speriamo che non ti perda!”. “Meglio per lei, se si perde!”, aveva gridato un’altra. “Molto meglio per lei!”
Sarebbero venute a cercarla? Forse era passato tanto tempo, dal momento in cui era restata sola, che ormai quelle sfrenate, sregolate, oscene servette dovevano essersi dimenticate di lei. Non capiva nemmeno se quest’idea di essere stata dimenticata nascesse dal timore o dalla speranza. Un momento dopo s’immaginò di essere stata lei a prendere l’iniziativa di separarsi dalle donne e di far perdere le proprie tracce. Se era vero, in questo momento la stavano cercando in tutti i corridoi, furibonde e preoccupate per la sua scomparsa. Stava sola, nel gomito del corridoio, come un animale selvatico in una trappola. Conosceva quel sistema utilizzato dai cacciatori, ne era stata testimone, in giorni ormai lontani. Aveva visto la fiera avanzare con cautela nella galleria di tronchi piantati in terra, irresistibilmente attratta dall’odore dell’animale impazzito dal terrore, legato nella gabbia finale, la cui porta sarebbe caduta dall’alto non appena vi fosse entrata, inrappolandola senza possibilità di scampo.
“Ma io sono la figlia unica di un re”, si diceva.
Riprese a camminare per il corridoio e, appoggiandosi con le palme delle mani aperte alle pareti che continuavano a restringersi, sentì le sporgenze e le cavità di un qualcosa che non poteva essere altro che un bassorilievo scolpito nella pietra viva di una delle due pareti. Nell’oscurità, gli occhi non potevano distinguere le forme che le dita accarezzavano. si fermò, tornò indietro per cercare il punto in cui il bassorilievo cominciava. Come una cieca che riconosce una faccia toccandola, si provò a riconoscere le figure intagliate nella pietra. La invase un furore o un delirio di scoperta, mentre le mani, come due creature provviste di intelligenza propria, percorrevano la superficie lavorata. Chiuse gli occhi per non lasciarsi distrarre dall’oscurità confusa e minacciosa del corridoio.
Ma questa bambina sono io!, esclamò riconoscendosi in un profilo sbalzato nella pietra. Era lei bambina nel giardino della casa in cui era nata e cresciuta, con la sua fonte e i suoi alberi e le aiuole traboccanti di fiori. Questo è il vestito che avevano cucito per me e che indossavo quando ero piccola, come potrei non riconoscerlo?, e questi sono i giocattoli con cui ho giocato da sola e in compagnia delle bambine che a volte venivano a trovarmi, li riconoscerei fra mille. Ah, sì, questo è il viso di mia madre, anche se non lo vedo non posso sbagliarmi, non è possibile che non riconosca la fronte e il naso e le guance e la bocca che tante volte ho accarezzato e baciato! E questa è la faccia di mio padre, così lontano e terribile nella sua severità, ma non con me; con tutti gli altri, perfino con mia madre, ma non con me, che mi approfittavo della sua allegria, quando mi vedeva arrivare, per arrampicarmi sulle sue ginocchia e accarezzargli la faccia. Sì, questo è il momento in cui sono stata chiamata alla presenza di mio padre, e lui mi ha comunicato che ero stata scelta per le nozze con il signore della città dei nostri alleati, e queste sono le lacrime che gli sono colate dagli occhi, quando me l’ha annunciato. Questa sono io durante il viaggio, il lungo viaggio attraverso le montagne e le valli, con il mio seguito, quando sono venuta qui, e questo è il palazzo in cui sono stata accolta, nella città costruita sulle isole del lago. Sì, questa, tutta questa è la città: una per una le sue case, le sue piramidi a gradoni, i suoi giardini, i ponti sui canali, le canoe che navigano sulle acque del lago. Questa sono io mentre mi fanno indossare l’abito nuziale e il diadema di piume di quetzal; questa sono io mentre avanzo nel corridoio che porta alla sala delle cerimonie, e questo è il sotterraneo in cui sono stata introdotta, poco fa, accompagnata da quelle pazze servette, il labirinto sotterraneo in cui ora mi trovo, abbandonata e smarrita. È incredibile che si trovi già rappresentato qui nella pietra, come se già fosse tutto successo anni e anni fa, perché questo bassorilievo dev’essere stato scolpito quando sono stati costruiti, anni e anni fa, questi corridoi sotterranei.
Fin qui arriva tutto il passato, pensò, e il presente attuale, questo momento in cui sono qui e sto scoprendo questa meraviglia di questo bassorilievo scolpito da uno scultore dotato di un potere sicuramente magico, ma le figure continuano a snodarsi, a svilupparsi le une dalle altre, come le spire di un lungo serpente piumato, fin dove termina questo corridoio di cui non arrivo a vedere la fine, pensò ancora e disse ad alta voce, aprendo gli occhi per cercar di penetrare l’oscurità. Fin qui arrivava il passato, questo è il passato appena trascorso, il passato appena passato, e il presente immediato, da questo punto in avanti posso leggere quello che sta succedendo in questo stesso momento in cui tocco queste figure. Questa sono io mentre leggo con le mani, camminando sul pavimento di pietra.
Tremando come due animaletti spaventati, le sue mani si affrettarono a percorrere ogni intaglio, ogni rilievo, ogni sporgenza, ogni dettaglio di ciò che restava del bassorilievo, avanzando verso il futuro.
Questa sono ancora io! Questa sono io mentre le mie accompagnatrici, che erano scomparse, sono ricomparse per spogliarmi del mio vestito e dei miei ornamenti, sì, mi stanno spogliando, bruscamente, con cattiveria, senza riguardi per il mio delicato corpo di vergine, di sposa pronta alle nozze, mi afferrano per i polsi e le caviglie e mi distendono su una tavola di pietra, sì, sull’altare dei sacrifici, e questa sono io mentre il sacrificatore mi apre il petto con il pugnale di ossidiana, questa sono io mentre mi strappa il cuore dal petto.
