Tedeschi Acthung!
di SILVIO MORETTI ♦
Le colline guardavano il mare ed un ragazzo andava lungo la strada costeggiata da lecci, roverelle e querce da sughero.
All’epoca non avevo ancora quindici anni, mi accesi una sigaretta. Fumavo tutto quello che capitava o che mi offrivano non avendo mai soldi sufficienti per comprarmi le sigarette. Doveva essere la primavera inoltrata del 1944.
Con la famiglia da quasi un anno ci eravamo infatti stabiliti sulle vicine colline circostanti. Eravamo dovuti scappare come sfollati dalla nostra città dopo il bombardamento degli Alleati del ’43.
Avevamo trovato accoglienza presso una cugina di mia madre che ci aveva ospitati: un camerone per tutta la famiglia, padre, madre e tre figli e l’uso della cucina in comune con i proprietari della casa. Mio padre, a causa delle conseguenze della Prima Guerra, non era stato più lui: era terrorizzato dai bombardamenti e nella situazione in cui si trovava era impossibile trovargli un lavoro.
Io lavoravo, o per meglio dire aiutavo, per pochi soldi alla settimana nell’azienda del “Moro”. Dei pochi spiccioli guadagnati ne davo un po’ a mia madre e tenevo qualcosa per me per le sigarette o per qualche serata di ballo per fare il grande con le ragazze.
Il “Moro” era soprannominato così per il colore scuro della sua carnagione. Uomo di una tempra forgiata dal duro lavoro, era un tipo dai modi rudi, a volte violenti soprattutto se aveva bevuto, che però si era inventato un fiorente lavoro di carrettiere. Trasportava, con i carri trainati da muli o da cavalli, sabbia, ghiaia, pozzolana, carbone e altro materiale da costruzione. Oltre al figlio lavoravano con lui tre lavoranti.
A me venivano affidati piccoli lavori anche se non mi venivano risparmiati compiti più umili.
Il “Moro”, quando la sera tornava dal lavoro e si sedeva sempre sulla sua solita e logora sedia, esigeva che qualcuno gli sfilasse gli stivali e a me toccava spesso questa incombenza. Era anche quella una manifestazione di potere.
Svolgevo quel compito un po’ a malincuore, senza mai darlo a vedere.
Avevo visto qualche volta che il “Moro” usava il frustino non solo con i muli, ma con me non si sarebbe permesso. Solo urlare, quello sì, ma era il suo modo abituale di rivolgersi ai suoi sottoposti. Perfino il figlio, un ragazzone grande e grosso che avrebbe potuto con le possenti braccia serrargli i polsi, non fiatava quando riceveva rimproveri non sempre giustificati.
A me piaceva quella vita. Non che avrei voluto farla sempre!
Del resto la vita del carrettiere era fatta di enormi sacrifici: gente abituata a vivere sulla strada, alzarsi di buon’ora al mattino, a sopportare disagi di ogni sorta, col sole a picco, col vento, con la pioggia ed il fango e spesso a viaggiare anche di notte.
Non potendo andare a scuola per via della guerra, non mi dispiaceva stare tutto il giorno nei campi all’aria aperta e mia madre alla fine aveva tollerato quell’occupazione.
Mi era amico un cane di cui mi prendevo cura, un bastardino tutto nero con una macchia bianca sul petto, disprezzato da tutti, tanto che lo chiamavano “Pensa per te”.
Avevo imparato a cavalcare, anche senza sella, approfittando del fatto che quando rimanevo in paese c’era sempre una bestia a disposizione. Sapevo come attaccare il mulo alle stanghe del carro e mi prendevo cura di tenere sempre in ordine i finimenti delle bestie. Ma soprattutto avevo cominciato, prima in compagnia di qualcuno, in genere il figlio del padrone, poi anche da solo a compiere i primi trasporti.
Così quando gli operai avevano riempito di sabbia o d’altro materiale le casse dei carri, tra i richiami dei ritardatari, lo scalpiccio dei muli e lo schioccare delle fruste, davo un fischio al cane che saliva con me a cassetta e partivamo. I viaggi potevano richiedere anche molte ore: spesso si partiva al mattino che non si era ancora fatto giorno e si ritornava la sera quando era già buio.
Ed in più c’era da tener conto che i muli spesso s’impuntano quando non vogliono più procedere. In quei casi assestavo un leggero colpo di pala, che stava nella cassa dietro di me, sul dorso del mulo e questi immediatamente ripartiva.
Però mi era accorto che la bestia ancor prima di ricevere il colpo si metteva già in movimento. E ciò era dovuto al fatto che il mulo, prima ancora del colpo, sentiva arrivare sulla pelle i granelli di sabbia attaccati alla pala e quindi presagendo il resto partiva. Quella scoperta fu sensazionale perché, per superare l’ostinazione del mulo, bastava buttargli sulla groppa una manciata di sabbia risparmiando alla povera bestia l’ennesimo colpo e a me il fastidio di dovere ogni volta riprendere la pala.
Durante una trasferta notturna, in un delirio di acqua, fulmini e tuoni nel buio rischiarato solo dalla lanterna a petrolio appesa al carro me l’ero vista brutta. Avevo incrociato un altro carrettiere che procedeva in direzione opposta. Bardati nelle pesanti mantelle incerate con il volto coperto dal cappuccio ci eravamo fermati e per un po’ reciprocamente temuti. Giravano i briganti in quel periodo e non si poteva stare tranquilli. Anche i muli mostravano nervosismo. Vedevo la mia bestia che si era irrigidita nel corpo, i muscoli tesi, la respirazione si era fatta più rapida e aveva le narici dilatate, segnalando ansia e timore.
Poi con piccoli passi c’eravamo avvicinati e riconosciuti e l’altro, che era un anziano di del paese diceva di conoscere la mia famiglia. Confessò lui pure di aver avuto paura.
Talvolta la stanchezza poteva prendere il sopravvento ma il mulo ormai conosceva la strada palmo a palmo e io mi fidavo.
Quella sera della primavera del ’44 al ritorno dal giro quotidiano il “Moro” era stato avvertito che due muli, che si trovavano nel ricovero in campagna, erano spariti.
«Porco Giuda!» disse ai suoi «ci hanno rubato due muli».
Il Moro, del furto dei muli, l’aveva saputo da “Adiacenze”. Ormai nessuno conosceva il suo vero nome e tutti lo chiamavano così perché una volta aveva avuto la bella idea di usare l’insolita e ricercata espressione “nelle adiacenze”.
«Ho visto due muli» aveva detto «e poco dietro una pattuglia di cinque tedeschi, proprio dove c’è la curva del cimitero, là dove finisce il paese. Per favore, Moro, non fare il mio nome, però» implorò «con le spie fasciste nel paese c’è poco da scherzare».
Il paese, come del resto gran parte dei territori circostanti, erano sotto il controllo tedesco dopo l’8 settembre del ’43.
Non disdegnavano, seppure contrastati da bande armate di partigiani, di fare frequenti irruzioni in paese, grazie alla delazione delle spie locali. Bisognava stare attenti con chi parlare.
Era di qualche settimana prima la retata nazista che aveva prelevato più di venti persone del paese, alcuni partigiani ma la maggior parte cittadini comuni avviati, si diceva, ai lavori forzati sulla costa, lungo la linea di difesa per opporsi al fronte Alleato.
Esclusa quindi la pista del furto di bestiame da parte di qualche contadino locale, non infrequente tuttavia in quel periodo, il “Moro” decise che bisognava andare a recuperare i muli. Ci voleva qualcuno che non desse nell’occhio. Si sapeva che i tedeschi si erano appostati in una località a tre chilometri dal paese, nei pressi di una tenuta agricola, dove custodivano un deposito di grano.
«C’è qualcuno che se la sente di andare a recuperare quei muli?». Nessuna risposta. Ci voleva fegato per affrontare quella prova.
«Vado io» avevo detto, non considerando che sarebbe stato da incoscienti mandare un ragazzo a rischio di essere preso dai tedeschi e fucilato, non sapendo quanti soldati si sarebbe trovato di fronte.
«Se il ragazzo se la sente» aveva detto uno degli anziani che così si sentiva sollevato dalla pericolosa incombenza.
«Sei sicuro di farcela» aveva chiesto il “Moro”.
«Certo» avevo risposto inorgoglito del fatto che mi si poteva affidare l’impresa.
Il piano da attuare prevedeva la partenza l’indomani mattina presto per cercare di sorprendere i tedeschi. Sarei arrivato con il cavallo vicino alla postazione tedesca cercando di far tornare indietro le due bestie, sempre che gli animali stessero ancora lì.
Così quella mattina ero sulla strada con il cavallo e “Pensa per te” al mio fianco.
Era appena spuntata l’alba con i suoi colori lilla e pesca e c’era un alito di vento umido che veniva dalla campagna. Mentre andavo al passo ripetevo tra me il piano da attuare per cercare di sorprendere i tedeschi.
Percorso poco più di un chilometro dopo aver lasciato alle spalle il cimitero, cominciavo ad intravedere la postazione dei tedeschi. La macchia mediterranea si mescolava a campi coltivati e alberi, tra stradine bianche che separavano i terreni con mucche che si riposano languide in gruppi.
Dalla sommità riuscivo a vedere il mare o forse solo a immaginarlo.
Quando mi apparve il profilo neo gotico della Chiesa dell’Immacolata capii di essere quasi arrivato e che dovevo scendere da cavallo e proseguire a piedi, legando la bestia ad una staccionata.
Pur non sapendo che un grande Papa, Paolo III Farnese, particolare che conobbi solo in seguito, aveva un tempo avuto quelle terre tra i suoi possedimenti, rimasi dominato dal silenzio e dalla magia che quel luogo riusciva ad evocare.
Proseguii per un breve tratto a piedi riparandomisi dietro a cespugli di rovi fino a quando sentii provenire delle voci da dietro una casa probabilmente abbandonata. Era solo un confuso brusio ma mi arrestai per riuscire ad ascoltare meglio.
Dovevano essere passate da poco le sette.
Fatti ancora alcuni passi più avanti per avere una visuale migliore, udii il raglio di un mulo e capì che quelle erano le nostre bestie e quelli dovevano essere tedeschi, ma non capivo quanti. Ancora qualche metro e riuscii a vedere molto bene i due animali, le redini legate a due alberi. Ero distante da loro meno di cento metri, la casa dove probabilmente s’erano sistemati i tedeschi almeno a duecento metri.
Mi feci coraggio e mi avvicinai ai muli che sembrava mi avessero riconosciuto, li slegai e poi con un piccolo colpo sul dorso li indirizzai verso la strada. Era avvenuto tutto nel massimo silenzio ma uno dei tedeschi, che era andato a pisciare intorno alla casa si era insospettito e aveva richiamato l’attenzione degli altri. Solo dopo mi sarei reso conto che erano solo in due.
Li persi di vista e cominciai a scappare per raggiungere al più presto il cavallo, mentre vedevo i muli che trotterellando avevano già imboccato la direzione giusta.
Ora ero allo scoperto e per un momento, girandomi, vidi uno dei due soldati che aveva imbracciato una mitragliatrice. Riuscii a guadagnare il ponte in pietra e scavalcarlo, calandomi dalla sponda nel fosso sottostante, quando arrivò una raffica tedesca che per fortuna mi mancò. Stetti acquattato un po’, seguirono altre sventagliate di colpi verso il ponte. Riuscii a sentire qualche imprecazione in tedesco che non compresi ma i soldati dovevano aver rinunciato all’inseguimento. Fu la mia fortuna.
Risalii per un centinaio di metri velocemente la riva del fosso, protetto dall’erba alta verso nord fino a raggiungere un punto più agevole per riprendere lo sterrato. Recuperai il cavallo e saltai velocemente in sella. Vedevo i muli più avanti, li raggiunsi conducendoli sulla via del ritorno.
Il mare guardava le colline ed un ragazzo si accendeva l’ennesima sigaretta lungo il cammino ammirando lecci, roverelle e querce da sughero che costeggiavano la strada. Il sole cominciava ad alzarsi dietro le colline. Mi sembrò di avere più di quindici anni.
Pensai che quell’avventura un giorno l’avrei potuta raccontare ai miei figli.
SILVIO MORETTI
