Trastevere: Memorie di una Famiglia del XX Secolo

di MARINA MARUCCI ♦

 I racconti che seguono fanno parte di un romanzo, in via di stesura, che narra le vicende di tre donne del XX secolo: una nonna, una madre, una figlia, nate a Trastevere, celebre rione di Roma. E’ la storia delle donne della  mia famiglia, ricca di aneddoti, di drammi e di gioie, che attraversa il “secolo breve”, recuperandone la memoria, il loro vissuto, le loro radici, perché è dalle  persone comuni che vengono alla luce i momenti più veri di una storia collettiva che non dovremmo dimenticare.  

       PRIMA PARTE

 LA NONNA

Mia nonna Clorinda, con il suo nome da guerriera, nacque  a Roma  nel 1903. Venne alla luce in una casa romana in Vicolo del Moro, nel quartiere Trastevere che  dall’antichità era popolato da gente fiera, tenace,  una popolazione  a sé  stante dal resto della capitale. Fin dal Medioevo aveva vie molto strette, tortuose, dove non riuscivano a passare neanche i carri a causa dei “mignani”, avancorpi sporgenti lungo le facciate delle case che solo alla fine del  quattrocento furono demoliti  ma il quartiere rimase sempre un labirinto di viottoli irregolari, con forti contrasti tra le ricche e  fastose abitazioni signorili e le casupole dei più poveri.  Trastevere è  stato, negli anni tra la fine dell’ottocento e il XX secolo, un quartiere turbolento, promotore di sommosse, ribellioni e i bulli dei vicoli non erano considerati dei criminali ma  eroi,  guerrieri, giusti rappresentanti degli antichi romani.  E’ stato il primo quartiere multietnico  della capitale, frequentato da stranieri giunti da tutto il mondo perché porto commerciale sul fiume, sito a destra del Tevere, nei pressi dell’antico Emporium.

 Il padre  di  mia nonna faceva il muratore, si chiamava Angelo, spesso non lavorava così la moglie, di nome Rosa, cercava di sbarcare il lunario impagliando sedie di legno commissionate da un falegname della zona. La donna, dopo l’allattamento,  inseriva la figlia neonata,  imbragata e irrigidita da fasce fino ai piedi, dentro lo scheletro delle seggiole, usate come  culla verticale o seggiolone chiamato “bigonzo”. All’età di sei anni mia nonna era stata ribattezzata Linda, per risparmiare sul tempo che occorreva per  chiamarla,  forse perché era una donna, quindi di poco conto. Diventata più  grande  aiutava in casa, oltre alle faccende domestiche rivestiva di paglia le sedie, insieme ai suoi due fratelli maggiori che però abbandonarono presto  quel lavoro, per inseguire altri mestieri  più remunerativi e adatti ai maschi,  tipo il macellaio, il venditore di frutta, il ciabattino: Trastevere era sempre stata ricca di artigiani.  Lei lasciò  presto la scuola, non terminò neanche  le  elementari, non servivano, per sposarsi non c’era bisogno di saper leggere e scrivere, una donna che pensa, chiede,  risponde era malvista, allora come ancora oggi e poi,  compiuti gli undici anni arrivò la prima  grande guerra, quella del 1914-1918.

 In quella casa di vicolo del Moro, mentre la guerra mondiale imperversava nell’Italia del Nord, Linda  sentiva narrare dalla madre storie di magia e folclore, spacciate per fede religiosa.  Rosa le raccontava che aveva un grande dono, quello di  saper leggere il futuro  delle  persone e, in quel periodo in cui  gli uomini erano impegnati nelle trincee al fronte, molte donne si rivolgevano a lei per conoscerne la sorte, alcune le credevano, altre facevano finta,  la speranza  aiutava a  sopravvivere. La madre questo potere lo aveva soprannominato “il palmo”: misurava la lunghezza del suo braccio sinistro  con il palmo della  mano  destra  e si fermava soltanto quando sentiva “le voci”, così da lei chiamate. Raccomandava alla figlia,  prima degli incontri, di posizionare sul davanzale della finestra che guardava il vicolo, delle foglie di salvia bianca, piante di rosmarino, lavanda e alloro che a suo dire  purificavano l’aria e l’anima. Non era ben chiaro se quel corredo facesse parte della  scenografia per impressionare  ma   era certo  che lei  non si faceva pagare, perché le rivelazioni del  “dono”  le  metteva a disposizione di chi le chiedeva: lo considerava la sua missione di vita.  Diceva che  le “voci” rispondevano, lanciando nell’etere parole che lei captava e traduceva nel suo linguaggio,  diretto, incisivo; altre volte non le comunicavano  nulla o la lasciavano dubbiosa, così da rimandare ad un appuntamento successivo la risposta alla moglie, sorella, madre o fidanzata  inquieta. Era probabile che qualcuna le facesse delle donazioni, come  verdura, ortaggi, mele, fagioli, sempre graditi ma lei non chiedeva nulla:

 « E’ Dio che li manda» affermava, cucinandoli in fretta, come fosse una vergogna da nascondere. Nonna Linda, in quelle sedute  le vedeva  spesso trasfigurare il viso, tremare, incurvarsi sul pavimento, insomma  andare in trance, dire parole incomprensibili o  preghiere quali l’Ave Maria o il Padre Nostro.  Sacro e profano hanno sempre fatto parte della nostra  vita, in un connubio inestricabile  in cui l’ uno si è nutrito dell’altro: sono le nostre origini  greco- romane, poi giudaiche – cristiane ad averci plasmato.

Rosa  la rincuorava:

« Non aver paura figlia mia, iddio è con me e lo sarà anche con te, quando tu imparerai».  Se per la madre il “dono”  esprimeva il suo coraggio per lei era soltanto una visione che la terrorizzava.

  I suoi fratelli più grandi, di sedici e diciassette anni, già quasi uomini, le dicevano che quelle erano superstizioni, folclore e che era vera solo la guerra e la fame. Si perché a Roma di fame ce ne era tanta, soprattutto tra i più umili. La sua famiglia mangiava una volta al giorno,  i soldi era pochissimi, spesso la sera andavano a letto senza cena e la notte il gorgogliare delle pance vuote li tenevano svegli.  Quando la madre riusciva ad  apparecchiare la tavola,  nei giorni di festa,  Angelo aveva la pessima abitudine  di ubriacarsi, di litigare e di tirare la tovaglia in aria,  così che il poco cibo e le umili stoviglie si disperdevano irrimediabilmente  in terra . Oltre tutto Rosa era una donna energica che si ribellava a quella violenza verbale e il marito si sentiva in diritto di picchiarla, proprio per la sua insubordinazione.

Linda guardava quelle scene inghiottita dalla  paura e esile com’era,  spesso andava a nascondersi dentro una cassapanca, vicino alla porta di casa, per  avere la possibilità di scappare. Se gli strilli dei suoi genitori continuavano e anche le percosse a sua madre,  lei sgattaiolava, nel trambusto generale, fuori dal nascondiglio e percorreva  veloce il vicolo verso Piazza Sant’Appollonia dove lavorava  Giulio, il suo amico d’infanzia, più grande di lei.

« Da dove scappi scugnizza? Scappi dalle botte? » le chiedeva.

« Da quelle di mio padre a mia madre, che poi quando è ubriaco le dà pure a me, senza ragione»

« Sai che ti dico, un marito che mena la moglie  non è bello ma almeno tu un padre ce l’hai». Lei lo fissava  con uno sguardo distaccato, cinico, come  una persona adulta ormai assuefatta a quella brutalità.

Giulio era una ragazzo di quasi diciotto anni, nato nel 1898, la generazione  che si stava facendo ammazzare nelle trincee  e nelle gallerie del  Monte Carso, che non sapeva neanche in quale  parte d’Italia  si trovasse la catena montuosa del Carso. Suo fratello maggiore era già partito per il fronte e lui  in quel periodo era molto preoccupato perché erano giorni che non riceveva le sue lettere. Il loro padre era morto giovane, così aveva sempre raccontato la madre ma lui non ne era convinto. Lavorava come apprendista  nella falegnameria che riforniva  Rosa di sedie da impagliare e Linda lo aveva conosciuto proprio in quella bottega. Le era simpatico,  scherzava, la prendeva in giro per la sua gonna sbiadita e striminzita, insomma la faceva ridere e la  chiamava  “scugnizza” perché lui aveva  origini  napoletane.   Era gentile, non urlava  e  lei  si era affezionata a quel mite  ragazzo. In quella bottega,  nella penombra , dove la luce del sole  entrava soltanto dalla porta, Linda si sentiva protetta, la comunità del quartiere le faceva da scudo ma la divorava pure: tutti sapevano  tutto di tutti.

Una mattina di metà  novembre del 1917 arrivarono le notizie della disfatta di Caporetto, luogo la linea dell’Isonzo: 13.000 morti, 30.000 feriti, 265.000 prigionieri e un milione di profughi civili, il fratello di Giulio era tra i 13.000 e lui, ormai diciottenne, sarebbe dovuto partire.

 La notizia si diffuse per il rione e Linda corse a cercarlo nella falegnameria.

« Mi hanno detto che vai in guerra anche tu» gli disse gridando.

« Si, è arrivata la cartolina,  anche io vado a morire come mio fratello!»

« Ma perché? Tuo fratello è morto, tua madre ha soltanto te, perché?ۛ»

« Perché? La guerra ha un perché? Uomini che ammazzano altri uomini per un pezzo di terra in più, tutto questo ha un perché? Pensi che la vita sia giusta per noi poveracci? Non è cosi“scugnizza”  tu non capisci, sei ancora piccola»

Ma Linda  non lo era più, quando  l’infanzia ti viene negata sei costretta a crescere in fretta. Fin da bambina il padre aveva sfogato sulla famiglia, con durezza, il rancore  per il “dono” posseduto dalla moglie e l’alcool  lo stava distruggendo perché si sentiva  incapace di domarla; la  madre era   spesso additata  come una fattucchiera, ma comunque ricercata  e  lei aveva imparato presto a difendersi . Inoltre ascoltava dai fratelli  le storie dei loro amori, delle ragazze che avevano conosciuto, poi lasciate,  mai di quelle che li avevano abbandonati; si era svezzata sentendo parlare  di “zoccole”, di “puttane”, di “mignotte”. La sua ingenuità  era andata sbiadendo  attraverso la comprensione del significato di quelle parole,  usate contro  il suo stesso sesso e si era convinta che il suo fosse il sesso disgraziato.

« Non sono piccola, ho quattordici anni- rispose-  ma lo sai tu  che la figlia di Jole, Annunziata, quella che abita  in Vicolo del Moro 12, alla mia età è già incinta?»

Giulio la guadò di traverso, le si avvicinò, le prese con le mani le spalle, come per scuoterla  e  le chiese:

«Ma tu come fai a sapere queste cose?»

« Me lo ha detto mio fratello Ernesto, quello più grande, perché anche lui era preoccupato per una delle sue tante fidanzate »

Il ragazzo scosse il capo, si allontanò da lei ed aggiunse:

« Ora capisco,  sei cresciuta, sei grande, magari ti scrivo quando sono al fronte».

Linda  ne fu meravigliata,  anche se sapeva leggere e scrivere  male, gli rispose che sarebbe stata contenta e in quel preciso momento decise di imparare di nuovo e meglio. Poi  si mise a girovagare nello stanzone della falegnameria e vide un libricino rosso,  quasi nascosto tra  alcuni strumenti del mestiere, lo prese al volo: a casa sua non c’erano libri,  al massimo fogli o  pezzi di giornale per impacchettare le seggiole impagliate.

 Giulio le disse di restituirlo , che non era cosa per una ragazzina, ma lei lesse, sillabando  a voce alta il titolo:

«Partito Socialista Italiano, ma che è?»

«Dammelo, lascialo,  non capiresti»

« Perché sono una  femmina? »

« No, perché la politica è soprattutto per gli uomini»

Linda scappò via con il libro e la notte stessa iniziò a leggerlo, tra le coperte del suo letto mal riscaldato, i cui tizzoni,  tra la cenere delle scaldino, erano quasi spenti. Il testo parlava di proletariato, di capitalismo,  della lotta di classe, termini a lei ignoti, così decise  di tornare il pomeriggio seguente  a trovare il suo amico, per capire meglio, le piaceva parlare con lui. Quel giorno però la madre aveva già organizzato un incontro con tre signore e lei doveva essere presente per ogni evenienza. Entrò in casa una donna ben vestita, giovane , su i vent’anni, spiegò che faceva la maestra elementare e che suo fratello medico era partito in guerra. Era sopravvissuto a Caporetto, prestava servizio  nella Croce Rossa, ma non si era risparmiato a curare i feriti che arrivavano copiosi dopo la disfatta: da giorni non ricevevano  sue notizie.  Mentre Rosa pregava e continuava a  misurare il palmo del  suo braccio sinistro,  la giovane donna guardava incuriosita Linda.  Dopo una buona mezz’ora  Rosa le disse che erano arrivati i segnali giusti:

« Vostro fratello è vivo, vedrete arriveranno notizie giuste»

La maestrina la guardò smarrita, senza sapere se crederle davvero oppure dubitare, la ringraziò e le chiese:

« Appena riceverò informazioni ritorno- si girò verso Linda – La ragazzina è sua figlia immagino, va a scuola?»

« No, aiuta me nell’ impagliare sedie»

«  Sai leggere e scrivere? »

« Poco, ma vorrei imparare di più» rispose Linda.

La donna le promise che alla prossima occasione  le  avrebbe portato un romanzo  molto bello,  il Conte di Montecristo di Alessandro Dumas, un grande scrittore disse e si congedò.  Le altre due donne in attesa non ebbero le risposte che cercavano, così si fece tardi ma Linda corse comunque  verso la bottega, con il libricino in mano. Il proprietario stava chiudendo, le riferì che Giulio era partito proprio quel giorno e lui  non sapeva a quale linea del fronte fosse stato  destinato.  Linda era amareggiata, per non averlo potuto salutare ma era certa  che quel ragazzo, in futuro, avrebbe fatto parte della sua vita. Quel pensiero  la raggelò, intuendo di avere forse lo stesso potere della madre.

Decise di nascondere  il libro  dentro la cassapanca: nessuno della sua famiglia sarebbe stato in grado di spiegarle il significato.

Passarono molti giorni ed una mattina il postino bussò alla porta di casa per consegnare una lettera. Rosa  non sapeva leggere,  chiese a chi fosse  indirizzata e le fu indicato il nome della figlia , la depose sulla cassapanca senza capire che il mittente era proprio Giulio.  Linda, tornata a casa, la vide subito  e spinta dal timore che il padre andasse a sbirciare la nascose dentro la tasca del sua rinsecchita gonna e corse subito nel bagno per leggerla.  Il gabinetto era  una semplice  latrina,   inserita dentro una piccola alcova, recuperata da un angolo vicino alla cucina. Angelo, abile muratore, quando era sobrio, aveva sfruttato quell’interstizio per  evitare alla sua famiglia di salire al piano di sopra ed usare il bagno sito sul ballatoio,  in comune con gli altri. Si entrava con difficoltà,  bisognava  ripiegarsi, la puzza spesso ristagnava ma loro si ritenevano  fortunati.  La porta era appoggiata alla meglio,  non  combaciava  con gli stipiti e aveva bisogno di uno strattone per riuscire a girare la chiave nella toppa. Linda si trascinò  quella porta dietro e tentò di chiuderla con tutte le sue forze, poi lesse lentamente  la lettera:

“Cara Linda, mi dispiace , sono partito senza salutarti ma quando sono andato al distretto mi hanno dato solo due giorni per salutare mia madre, prendere la tradotta e dopo un lunghissimo viaggio con tanti cambi di treno sono arrivato a Trento,in tempo per essere spedito nelle retrovie del Carso  . Mi hanno destinato qui, per ora, perché figlio unico di madre vedova, poi, a seconda come andrà la guerra decideranno. Ci sono ragazzi come  me di varie regioni d’Italia, spesso non ci capiamo con i dialetti, ma l’unica cosa che sappiamo  è che noi Fanti del Regio Esercito Italiano  siamo carne da cannone, come dicono da queste parti.  Scusa se ti scrivo in questo modo ma tu non immagini cosa succede qui. Mi risponderai vero? Mia madre non sa leggere né scrivere , magari scrivo a te per sapere come sta lei e anche come stai tu, così non mi sentirò solo.  Un saluto. Giulio”

Intanto qualcuno bussò alla porta del bagno. Linda sentiva il cuore in tumulto, le pulsavano le tempie, la testa le girava, il corpo aveva iniziato a tremare, forse per la paura o l’emozione, non le era chiaro. Chiuse la lettera e la mise nelle mutande, in mezzo alle natiche, le sembrava il posto più nascosto, mentre Ernesto la sollecitava. Linda tirò la catenella che era collegata allo sciacquone e uscì.

« Finalmente, ma che eri svenuta dalla puzza?»  chiese.

La ragazzina  lo guardò appena e corse in cucina dove la madre stava preparando  una brodaglia di cavoli e broccoli che diffondeva nella casa un odore simile a quello che affiorava dalla latrina, ma nessuno ci faceva caso ormai, l’importante era mangiare e quella minestra era il dono delle donne del “palmo”. Linda, dopo averla assaggiata,  si alzò dalla seggiola e sentì  un liquido caldo scenderle in mezzo alla vagina , pensò di  aver fatto inavvertitamente la pipì e corse di nuovo in bagno. Si tolse le mutande, vide che quella  che credeva fosse  la sua urina era invece una chiazza di sangue e che la lettera del suo amico scivolando si era macchiata. La ragazza non capiva, nessuno le aveva spiegato che quello rappresentava il segno che  era diventata davvero grande. Corse agitata  dalla madre che le spiegò l’accaduto:

« Ora sei una donna, una donna che può fare  figli, stai attenta agli uomini, con  loro devi stare sempre in guardia. Ora prendi dei pannolini di lino dentro il comò della camera da letto e due spille chiuse, le trovi nella scatola dell’ago e filo,  ti faccio vedere come si fa  a tappare il sangue  ».  Le disse proprio “tappare” come se lei fosse un contenitore, un contenitore mal chiuso  che,  con il   sangue sgocciolato tra le gambe, aveva sporcato il messaggio di Giulio. Pensò che il suo era proprio un sesso sciagurato.

Sentiva il dovere di scrivergli, subito, anche se la sua calligrafia era ancora incerta, la sua risposta immediata avrebbe trattenuto, fissato, e dato  valore a quelle  parole  da lei macchiate e scolorate. Tirò fuori, sempre dalla famosa cassapanca, il suo quaderno di quarta elementare, strappò alcune pagine e scrisse con mano tremante:

“Caro Giulio, sono contenta della tua lettera. Se vuoi scrivere per tua madre io sono capace di leggere, in questo periodo ho riletto il sussidiario delle elementari e una amica di mamma mi ha regalato un bel libro: Il Conte di Montecristo, bello, sono arrivata a metà ma non vedo l’ora di finire. Nella prossima lettera raccontami di te, della brutta guerra.  Quando torni? Saluti, ora sono diventata davvero grande.  Firmato Linda.”

Rosa aveva avuto ragione,  erano arrivate conferme  sulla buona salute  del dottore in guerra  e la maestrina  aveva regalato il romanzo a Linda,  uno scambio tra sacro e profano.

 Passarono molti giorni prima che la “scugnizza”, impaziente , ricevette  una risposta alla sua:

« Cara Linda, scrivo poco perché qui arriva poca posta. Mi hanno spostato al fronte,sul Monte Grappa, al vettovagliamento, come lo chiamano nell’esercito e sono impegnato a distribuire il rancio tra le trincee dei nostri soldati. Ma dimmi come stai? Mia madre come sta? E tu perché mi scrivi che sei diventata davvero grande? Che cosa ti è successo? Qui c’è solo sangue e morte, non riusciamo ad avanzare e gli Austriaci sparano continuamente. Scusami ma lo hai detto tu di raccontarti la guerra, che poi per una ragazzina non è giusto. Non so quando potrò avere una licenza per tornare, ci spero e spero proprio di rivederti. Firmato Giulio»

Aver ricevuto quello scritto per lei era vivere una giornata di festa.  Mai si era  sentiva considerata, al centro della vita di un’altro e, seppur le notizie dalla guerra fossero pessime, viveva dentro il suo cuore una sorta di gioiosa energia, di voglia di crescere, diventare una donna, al di là del menarca.   Inoltre non ne poteva più di impagliare sedie, di ripulire la casa infestata da quella paglia che rilasciava minuscoli fuscelli in ogni  singola fenditura del pavimento, fessura di  mobili, spiragli nel muro e dentro il suo letto, così si mise  d’accordo con la zia, sorella della madre,di andare ad aiutarla al  banco di frutta e verdura,  nel mercato di San Cosimato, in cambio di poche lire,  visto che suo cugino era partito anche lui per la guerra.

 Rosa fece qualche resistenza per quel lavoro, forse sua figlia era troppo piccola ma Angelo le  diede il permesso, ben contento di avere più soldi disponibili per le soste all’osteria.

 Durante i primi  mesi  del 1918, mentre la guerra si intensificava, anche la corrispondenza tra i due ebbe un ulteriore sviluppo. Quelle lettere aiutavano Giulio a sentirsi protetto, si convinse che finché ci fosse stato quello scambio,  nulla gli  sarebbe potuto accadere, malgrado i cannoni dell’artiglieria austriaca. Linda, appena le riceveva, correva a leggerle alla madre di lui, Lisetta, che l’aveva accolta  come una figlia e spesso, per riconoscenza, la invitava  a mangiare. La donna aveva un cugino che faceva il macellaio nel rione, in via della  Lungaretta e le regalava, in quel periodo di magra, ossi buchi con i quali fare un brodo che almeno aveva il sapore della carne, frattaglie avanzate con piccoli pezzi di pollo e scarti di manzo. Per Linda era difficile trovare la carne  nei piatti cucinati da sua madre così accettava e rimaneva a chiacchierare con Lisetta  nei pomeriggi, quando il mercato era chiuso. Il suo corpo stava cambiando, i seni crescevano, la vita le si assottigliava, il sedere aveva preso una curvatura pronunciata e la migliore alimentazione le stava regalando una salute  superiore di quella dei suoi fratelli.

Arrivò l’estate del 1918, la guerra infuriava ancora e Giulio non era riuscito ad avere una licenza per tornare.

Una mattina presto, mentre Linda, di spalle al banco, era impegnata a riciclare  le verdure del giorno precedente, sentì chiamare:

« Scugnizza, sei tu?»

Lei rimase impietrita, quella voce e quelle parole erano inconfondibili.

Si girò e vide Giulio che la guardava meravigliato.

« Ma allora sei tu davvero!  Accidenti sei una ragazza ormai, quasi non ti riconoscevo,  mia madre mi ha detto che a quest’ora ti avrei trovato a lavorare al mercato.».

 Lui sembrava più alto, emaciato, un pò trascurato, però a lei parve bellissimo, con la divisa e  il cappello da Fante del Regio Esercito.

«  Si, sono io, Linda, ma quando sei arrivato?»

«  All’alba, mi hanno dato qualche giorno di licenza,  sono passato a casa e poi qui, da te»

Quelle parole causarono in lei una brivido, lasciò andare la verdura che ancora teneva in mano, si pulì le mani e corse da lui abbracciandolo. Giulio non si aspettava quell’accoglienza, pensava di ritrovare la ragazzina che conosceva, la  “scignizza” ma  in quel momento stava stringendo tra le braccia  una ragazza, malgrado i suoi  quindici anni. Si allontanò, come se i cambiamenti del corpo di lei avessero modificato i suoi sentimenti, non più amici ma qualcosa d’altro. Linda se ne accorse subito,  lei lo  amava, il suo non era un amore adolescenziale che ti fa innamorare del sentimento amoroso, senza valutare la persona conosciuta ma  una attrazione  profonda. Sentiva che anche  per lui era lo stesso  e gli chiese, con la schiettezza che la caratterizzava:

« Ti allontani, perché? Hai conosciuto un’altra ragazza, su  nella alt’Italia?»    

Giulio capì , capì anche l’emozione  verso di lei e disarmato  da quella spontaneità le rispose:

« No, non ho conosciuto nessuna ragazza a Trento»

« Meno male, perché io sono stata qui ad aspettarti» le disse con un  tono ironico.

Così iniziava una storia scandita da una passione autentica, genuina,  una di quelle che ti scaldano il cuore, perché senza l’esistenza di queste due persone,  senza il loro vissuto  di sofferenza,  di gioia e  di  dramma collettivi,  io non avrei avuto mia madre.     

MARINA MARUCCI

Immagine di copertina:  Veduta aerea dell’ Isola Tiberina e Rione Trastevere all’inizio del 1900      (Archivio Capitolino).