Dentro la mente. Il progetto dell’imprevedibile: la storia vera dietro l’economia comportamentale

di SIMONE PAZZAGLIA ♦

Cosa succede quando due delle menti più brillanti del ventesimo secolo si incontrano e iniziano a smontare, pezzo dopo pezzo, le fondamenta della razionalità umana? The Undoing Project, scritto da Michael Lewis nel 2016, non è un semplice libro di psicologia, né un saggio tecnico sull’economia comportamentale. È, prima di tutto, una grande storia di amicizia, un racconto affascinante e profondo su come nascono le idee rivoluzionarie, su quanto possano essere fragili i nostri giudizi, e su come due uomini – Amos Tversky e Daniel Kahneman – abbiano cambiato per sempre il nostro modo di pensare.

Michael Lewis, autore noto per aver raccontato con brillantezza il mondo della finanza e delle statistiche in Moneyball e The Big Short, si avventura qui in un territorio diverso ma non meno affascinante: quello della mente umana. La sua capacità di trasformare concetti astratti in narrazione avvincente lo rende il narratore perfetto per una vicenda che è al tempo stesso scientifica ed esistenziale.

Kahneman e Tversky erano psicologi, non economisti. Eppure, le loro scoperte hanno travolto il mondo dell’economia, mostrando che l’idea dell’uomo razionale – il famoso homo oeconomicus – è più un mito che una realtà. Attraverso una serie di esperimenti eleganti e disarmanti, hanno rivelato che le nostre decisioni sono regolarmente distorte da bias cognitivi, scorciatoie mentali che ci fanno deviare dalla logica formale. Eppure, questa non è solo la storia di due scienziati che sfidano un paradigma: è il racconto di un legame profondo, di un sodalizio intellettuale e affettivo che ha prodotto alcune delle intuizioni più importanti della psicologia moderna.

Con uno stile fluido e toccante, Lewis ci guida dentro l’universo mentale di questi due uomini straordinari, mostrandoci non solo cosa pensavano, ma come pensavano. Il risultato è un libro che riesce a parlare a lettori molto diversi: agli appassionati di scienza, a chi ama le biografie, a chi cerca chiavi per comprendere meglio sé stesso. In un mondo che ci chiede continuamente di decidere, giudicare, interpretare, capire come funzionano davvero le nostre scelte è una forma di conoscenza tra le più urgenti.

Quando Daniel Kahneman e Amos Tversky si incontrarono per la prima volta, alla fine degli anni Sessanta, nessuno avrebbe potuto prevedere che da quell’incontro sarebbe nata una delle collaborazioni intellettuali più fruttuose della storia della scienza sociale. Erano entrambi israeliani, psicologi sperimentali, professori universitari. Eppure non avrebbero potuto essere più diversi.

Kahneman era introverso, tormentato, incline al dubbio e all’autoanalisi costante. Un pensatore metodico, spesso insoddisfatto, sempre critico, in primo luogo verso sé stesso. Tversky, al contrario, era brillante, carismatico, ottimista. Amava le battute taglienti, le risposte rapide, le soluzioni eleganti. In aula era una celebrità, con un’intelligenza affilata che affascinava colleghi e studenti. Dove Kahneman vedeva complessità, Tversky vedeva semplicità. Dove Kahneman si fermava a riflettere, Tversky aveva già tracciato una sintesi.

Eppure, proprio in questa diversità si celava la loro forza. Michael Lewis descrive la loro relazione quasi come una danza intellettuale perfetta: si completavano, si provocavano, si mettevano alla prova. Lavoravano per ore, chiusi in ufficio, scambiandosi idee in modo così intenso che spesso finivano le frasi l’uno dell’altro. Non c’era egocentrismo nella loro collaborazione: le loro pubblicazioni venivano firmate congiuntamente, senza che nessuno sapesse chi avesse scritto cosa. Era un pensiero a due teste.

Questa alchimia mentale, però, era anche un rapporto umano fortissimo. I due viaggiavano insieme, ridevano insieme, si telefonavano ogni giorno anche quando lavoravano in continenti diversi. Per anni furono inseparabili, non solo nel lavoro ma nella visione del mondo. Condividevano una missione: smascherare le illusioni della mente umana, rendere visibile l’invisibile. Non volevano solo descrivere gli errori cognitivi, ma mostrarne l’universalità, la forza, la prevedibilità. E ci riuscirono, grazie a una serie di studi innovativi che cambiarono radicalmente la psicologia cognitiva.

Lewis, con la sua prosa limpida, riesce a restituire la magia di quel legame, mostrando come le grandi idee nascano non solo da individui geniali, ma da rapporti di fiducia, di conflitto produttivo, di affinità profonda. Non è un caso che i momenti migliori della loro produzione siano quelli in cui la loro relazione è più solida. E che, con il suo progressivo logorarsi, anche la loro ricerca perda un po’ della brillantezza iniziale.

Nel raccontare la storia di Kahneman e Tversky, The Undoing Project parla anche del mistero della collaborazione umana. Di come due menti possano diventare una, almeno per un tempo breve e straordinario. E ci ricorda che, a volte, dietro le rivoluzioni scientifiche ci sono soprattutto storie di amicizia, vulnerabilità e ascolto.

Il lavoro congiunto di Kahneman e Tversky non si è limitato a sfidare alcune certezze della psicologia. Lo ha fatto con una precisione tale da far tremare le fondamenta stesse di discipline come l’economia, il diritto, la medicina, la finanza. Le loro intuizioni – sviluppate nel corso di più di un decennio – hanno mostrato che la razionalità umana, spesso data per scontata nei modelli teorici, è in realtà una costruzione fragile, sistematicamente esposta a errori. Ma la genialità dei due non stava solo nel dire che le persone sbagliano: stava nel mostrare che questi errori non sono casuali, bensì prevedibili. Seguono pattern, regole, logiche interne che si possono studiare, descrivere, modellizzare.

Una delle prime e più importanti scoperte riguarda l’uso delle euristiche: scorciatoie mentali che il cervello utilizza per prendere decisioni rapide in condizioni di incertezza. Tversky e Kahneman ne identificarono diverse, ma tra le più famose c’è l’euristica della rappresentatività: la tendenza a giudicare la probabilità di un evento sulla base della sua somiglianza con uno stereotipo, anziché su basi statistiche. Ad esempio, se ci viene descritto un uomo introverso, ordinato, appassionato di logica, molti di noi lo immagineranno come un bibliotecario piuttosto che come un agricoltore, anche se – statisticamente – ci sono molti più agricoltori che bibliotecari nel mondo. Il cervello, in altre parole, preferisce la coerenza narrativa ai dati.

Un’altra euristica fondamentale è quella della disponibilità: tendiamo a valutare quanto è probabile un evento in base alla facilità con cui ci viene in mente. Se sentiamo parlare spesso di attacchi di squali o di incidenti aerei, finiamo per sovrastimarne la frequenza. Questo bias, oggi amplificato dai media e dai social network, ha conseguenze enormi sul nostro modo di percepire il rischio e di prendere decisioni, dalla politica alla salute.

Ma forse l’intuizione più famosa dei due psicologi è la prospect theory, una teoria della scelta in condizioni di incertezza che ha messo in crisi i modelli economici tradizionali. Secondo la teoria classica, l’essere umano decide massimizzando l’utilità attesa: sceglie l’opzione che garantisce il miglior rapporto tra rischio e beneficio. Ma Kahneman e Tversky hanno dimostrato che nella realtà non è così. Le persone, ad esempio, temono le perdite più di quanto apprezzino i guadagni equivalenti: perdere 100 euro ci fa soffrire più di quanto ci rallegri guadagnarne 100. Questo principio, chiamato avversione alla perdita, ha un impatto profondo su tutti i comportamenti economici, dalle decisioni di investimento alla gestione del denaro nella vita quotidiana.

Un altro concetto chiave introdotto dai due scienziati è quello di framing, o effetto cornice. Le persone rispondono in modo diverso alla stessa domanda, a seconda di come è formulata. Se un trattamento medico viene descritto come “con il 90% di possibilità di sopravvivenza”, sarà percepito in modo molto più favorevole rispetto a quando viene detto che ha “il 10% di possibilità di morte”, anche se il contenuto informativo è identico. Questa scoperta ha avuto ripercussioni enormi nel mondo della comunicazione, della pubblicità, della politica.

Con questi strumenti teorici – euristiche, prospect theory, framing – Kahneman e Tversky non solo hanno smascherato le illusioni della mente umana, ma hanno aperto un nuovo campo di studi: l’economia comportamentale. Le loro ricerche hanno mostrato che non è possibile comprendere i mercati, le istituzioni, le scelte collettive senza partire da come realmente pensa, decide e si illude l’essere umano.

Lewis, nel raccontare queste idee, non le descrive come verità astratte, ma le intreccia alle biografie dei due protagonisti. Ci fa vedere come nascono i concetti, come si discutono, come si affinano nel confronto quotidiano. Ed è proprio questo il tratto più originale del libro: non spiega solo le scoperte, ma ci porta dentro il laboratorio mentale in cui sono state generate. È come assistere alla nascita di una nuova scienza, non da spettatori esterni, ma da testimoni coinvolti.

Per molti anni, la collaborazione tra Daniel Kahneman e Amos Tversky fu così intensa da sembrare indissolubile. Era come se avessero creato una mente a due teste, capace di pensare con una lucidità e una creatività impossibili da raggiungere separatamente. Ma anche le collaborazioni più brillanti, e forse proprio quelle, finiscono per logorarsi sotto il peso delle differenze, delle tensioni, delle aspettative. E quella tra Kahneman e Tversky non fece eccezione.

Con il passare del tempo, la notorietà iniziò a crescere, così come i riconoscimenti accademici. Tversky, con il suo stile brillante e comunicativo, divenne una figura centrale nel panorama scientifico statunitense. Era richiesto, citato, celebrato. Kahneman, più riservato e tormentato, cominciò a sentire che il suo ruolo veniva oscurato, che l’equilibrio tra loro si stava incrinando. Le incomprensioni si fecero più frequenti, le distanze – prima solo geografiche – divennero anche emotive. Non ci fu un vero litigio, ma un lento allontanarsi, fatto di silenzi, di ambiguità, di parole non dette. Un dolore profondo, per entrambi.

Quando Amos Tversky si ammalò di un cancro alla fine degli anni Novanta, i due ripresero a parlarsi, ma ormai il tempo a disposizione era poco. Tversky morì nel 1996, lasciando incompiuta una delle collaborazioni più fruttuose della storia della scienza moderna. Sei anni dopo, Daniel Kahneman ricevette il Premio Nobel per l’Economia. Era il primo psicologo a ricevere tale riconoscimento, e lo fece grazie a un corpus di lavori che erano, per gran parte, nati da quel sodalizio ormai spezzato. Nella sua toccante conferenza di accettazione, Kahneman dedicò il premio a Tversky, parlando di lui come dell’altra metà del loro pensiero. Ma il vuoto era palpabile.

Michael Lewis racconta questa parte della storia con delicatezza, senza forzature. Non c’è melodramma, solo la consapevolezza che anche le menti più brillanti sono fragili, e che l’intensità creativa può diventare, con il tempo, fonte di conflitto. L’amicizia tra Kahneman e Tversky non è una favola edificante, ma una storia complessa, fatta di ammirazione reciproca, gelosie sotterranee, amore intellettuale e tensione emotiva. Ed è proprio questa complessità a renderla vera, e profondamente umana.

In un certo senso, The Undoing Project è anche un’indagine sul prezzo del genio: su quanto sia difficile mantenere l’equilibrio tra collaborazione e autonomia, tra visione comune e desiderio di riconoscimento individuale. Ma è anche una testimonianza del fatto che le grandi idee non nascono dal nulla, né da menti isolate, bensì dal confronto, dall’ascolto, dalla fiducia reciproca. E che, anche quando la collaborazione finisce, il suo frutto può continuare a vivere, a generare trasformazioni, a cambiare il modo in cui vediamo noi stessi e il mondo.

Ci sono libri che cambiano ciò che sappiamo, e libri che cambiano come pensiamo. The Undoing Project riesce, in un certo senso, a fare entrambe le cose. Da un lato ci racconta una delle più grandi rivoluzioni scientifiche del ventesimo secolo, quella che ha messo in discussione l’idea che le persone prendano decisioni in modo razionale, lineare, calcolato. Dall’altro ci porta dentro l’intimità di una relazione intellettuale straordinaria, fatta di passione, intuizioni, divergenze, amicizia e perdita.

Michael Lewis, con la sua capacità rara di tenere insieme rigore e narrazione, costruisce un ponte tra il mondo delle idee e il mondo delle emozioni. Non si limita a spiegare concetti come bias, euristiche o framing: ci mostra da dove vengono, come sono nati, in che contesto umano e accademico si sono sviluppati. È un libro che parla di psicologia, sì, ma anche di relazioni, di collaborazione creativa, di fragilità personale. Un libro che si legge come un romanzo, ma che lascia il lettore con domande profonde su sé stesso e sul modo in cui interpreta la realtà.

In un’epoca come la nostra, in cui le decisioni si moltiplicano, i giudizi si affrettano e la complessità viene spesso semplificata con superficialità, The Undoing Project offre una lezione fondamentale: prima ancora di pretendere di capire il mondo, dovremmo imparare a osservare come funziona la nostra mente. E capire che, molto spesso, gli errori non sono eccezioni, ma parte integrante del modo in cui pensiamo. Non per colpa, ma per natura.

Per chi ha letto Pensieri lenti e veloci di Kahneman, questo libro rappresenta la sua controparte più umana e narrativa. Per chi non ha mai affrontato il tema dei bias cognitivi, è un punto d’ingresso privilegiato, accessibile ma mai banale. E per chi è interessato alla scienza, alla filosofia, o semplicemente alle grandi storie, è un’opera da cui partire per esplorare un’intera costellazione di idee.

Tra le letture consigliate dopo questo viaggio, ci sono certamente Nudge di Thaler e Sunstein, Predictably Irrational di Dan Ariely, e lo stesso Pensieri lenti e veloci, che rappresenta la sintesi teorica di un percorso cominciato proprio con l’amicizia tra due giovani psicologi in un’università israeliana. Ma forse il primo consiglio, prima ancora dei libri, è uno sguardo diverso su ciò che facciamo ogni giorno: come scegliamo, come giudichiamo, come ci raccontiamo le nostre storie.

Perché alla fine, il vero “undoing” – il vero disfare – non riguarda solo i modelli della mente. Riguarda anche le certezze con cui affrontiamo il mondo. E riconoscere i nostri limiti, paradossalmente, può essere la forma più alta di lucidità.

SIMONE PAZZAGLIA