ALLA SQUALDRINA DEL VENTO

di CARLO ALBERTO FALZETTI ♦

Nell’aria s’avverte l’odore di primavera. Plachiamo l’animo offeso dal vento d’America con un breve ricordo sulle opere e i giorni che un tempo scandivano la vita di maremma.

Al saccheggio del frumentone s’ingegnavano di notte a luna alta.

 Abbrancati nel folto, verri, troie e porcastri mettevano a sacco l’intero campo. L’indomani,  fisso lo sguardo nel disastro, il villico svillaneggiato celebrava l’atavica liturgia elevando agili e devoti moccoloni a quel cielo da sempre silente sulle sfortune di quaggiù. E lesto allertava  i braccaioli per la guerra che s’aveva da iniziare, consolando la mestizia con qualche coscio di cignale arrivatogli  alla fine della cacciata vendicatrice. Pochi i porcastri silvestri che riuscivano a scanare nel corso della battuta  poiché ampia era la muta ed altrettanto ampia la schiera degli schioppi impegnati.

Con la gorpe la questione era di certo più dura. Mossasi a governare, al lividore della prima alba calpestando un prato stillante guazza rugiadosa, la Sora Lea di turno rimaneva ammutolita e cogli occhi smarriti di fronte al massacro, al sangue aggrumato, alle carcasse sbudellate, ai colli maciullati e sparsi un po’ ovunque. Se, quale risposta al gallinaro depredato si decideva per l’amara trappola e se la sorte impietosa decretava che l’animale ivi cadesse, pur di non crepare la malefica bestiola rodevasi la zampa in ceppi pur di fuggire dalle grinfie umane.

Con la spinosa non era questione di vendicare niente. Solo divertimento e voglia di gozzovigliare col bujone finale. A notte fatta si partiva alla cerca. Quale ambasciata spirata dal vento il sito forte del selvatico s’ incanalava fitto nelle narici della canizza ansimante. Con la tana scovata era il momento di mandare a risico la vita delle bestiole amiche. Si scavava l’intera notte con i veltri affollati ed acchiocciolati a cerchio, si faceva pulito attorno al pertugio, si infilavano a turno i botoli più ardenti e temerari in tana, si cavavano ad una ad una le spine conficcate nei corpi canini, si rammendava qualche sfregio sanguinolento, si confidava che il cunicolo non crollasse addosso alla canizza impegnata nell’azzanno. Al lumeggiare lento del sole si lanciavano i bracchi più potenti di taglia sulla povera bestia sortita fuori della tana, esausta, disperata, ferita ma fiera di cedere la vita ad alto prezzo. Era il momento dell’agonia finale tra l’indifferenza mista alla curiosità umanoide e la naturale soddisfazione della muta ormai chetatasi e ben satolla di emozione.

 Ci si sente a disagio nel cavar fuori dai ricordi tutto questo, ma è così che ci si gingillava nelle campagne d’un tempo.

E poi toccava al maiale. Qui né crudele vendetta, né goloso sollazzo ma puro dovere generazionale, azione archetipale, atto liturgico.  Il freddo secco di febbraio era il segnale di morte. Una cicciosa, di certo recalcitrante, scrofa di due quintali dopo esser stata morta veniva appiccata a ganci e squartata ad arte accogliendone  il colante sanguinaccio in un generoso secchione. Poco o nulla si gettava via, certo le unghie, certo il pelo irsuto che si raschiava con l’acqua bollente, certo le ossa, se non andavano abboccate dai cani che circondavano ansimanti l’intera scena. Si recideva con accortezza e col giusto filo. Gli scarti di carne di risulta dai tagli , erano ammassati e selezionati per far salsicce. L’avanzo di minor qualità era bollito avvolto in panno per ricavarne la coppa. Si modellavano lonze, si salavano  posteriori ed anteriori che avrebbero atteso mesi di freddo non umido. Da ultimo, la minutaglia di ciccioli di grasso e di scarti di magro staccatesi qua e là veniva accuratamente raccolta nella “padellaccia”, premio finale per tanta fatica.

 La giornata, iniziata a levata di sole, finiva a riverbero d’un grande braciere quando ormai l’astro era già andato sotto, con una conviviale attrippata attorno a quel piatto ignorante. A rallegrare il gozzo ci pensava come sempre il vecchio rosso cavato per l’occasione nel fondo più fondo d’una cantina tufacea intagliata con lo stesso verso del sepolcro etrusco. Per tutti, quel luogo, aveva il sacro sapore d’un tabernacolo laico.

Alla polledrara ben recintata con vecchi passoni  stagionati s’accedeva attraverso il grosso cancello saldamente impiantato sulla colonna di antico legno. Ma spesso il passaggio più rapido avveniva attraverso agili scalarole. I polledri avevano il manto bajo e più raramente nero, il muso montonino, l’occhio nervoso.  Il giorno della doma scalpitavano come se sapessero che quel tanto trambusto attorno era riservato tutto a loro. Capati ad uno ad uno con giudizio per non ‘mpatassarli, fiaccati a giro del  pedagno, ricavato da una vecchia cerqua e ficcato al centro del rimessino , assaggiavano il canapo sul collo, segno del dominio dell’umano. Il cavallaro  s’approssimava, senza far furia, al prescelto per non farlo stulzà e colla bardella in mano, la poneva in groppa, la fissava colle cinghie, pianava sopra e, a forza di saltamontoni e balzelloni riusciva, se fortunato, a calmare per un po’ la bestia. Non era ancora doma, ma il più era fatto.

 Era la merca il giorno più atteso. Le manzette venivano addossate dai cavallari e fatte entrare nella rimessa. Poi, ad una ad una entravano nel recinto a circolo, dove i butteri lanciavano la lacciola per legarne le grandi corna classiche della razza di maremma. In cinque o sei l’atterravano, legavano le zampe, tenevano ben salda la testa, piegavano la coda tra i posteriori, stringevano fortemente il cotozzo. Il marchio a fuoco si imprimeva sul coscio destro e sinistro e subito dopo  grasso per rimarginare la bruciatura. S’avvertiva nell’aria l’acre odore di pelle bruciata che si mescolava al forte sito della bestia sudata e dei suoi molli e tondi escrementi sparsi sul terreno che olezzavano d’erba macerata.

Quando il vento ti schiaffeggiava quando, nelle tristi giornate invernali eri senza riparo. Quando a cavallo attraversavi le lande aperte costeggiando quei monti dove solo i folti macchioni di rovo t’avrebbero offerto riparo. Quando le gelide tramontanate facevano penetrare il freddo nel più profondo delle ossa. Quando la folata del vento faceva far mulinello a cespugli e fogliame.  Quando tutto questo accadeva ecco che potevi ben dire d’esser alla squaldrina del vento, alla mercé del vento. Frase evocativa questa tante volte evocata e che rende bene la situazione d’un tempo, il modo di essere di campagna, le opere ed i giorni dell’uomo, del suo cavallo, della maremma originaria. Ma, non si è solo alla squaldrina  del vento. Lo si è anche del tempo. Questa l’amara conclusione pensando al presente dove più non è l’intera quinta scenica ed il passato è divenuto solo cimitero dei ricordi.

 Un tempo era d’estate, era a quel fuoco, a quegli ardori, che si destava la mia fantasia. Inclino adesso all’autunno dal colore che inebria, amo la stanca stagione che ha già vendemmiato. Niente più mi somiglia, nulla più mi consola di quest’aria che odora di mosto e di vino, di questo vecchio sole ottobrino che splende sulle vigne saccheggiate..(Cardarelli).

CARLO ALBERTO FALZETTI