“I RACCONTI DEI SOPRAVVISSUTI” DI MICHELE CAPITANI – UN LAVANDINO PER SVOLGERE BENE IL COMPITO
di MICHELE CAPITANI ♦
Ore 11.15, mi sono appena seduto, con un amico, al caffè sul lungomare. Arriva la cameriera, che mi guarda e mi scruta come se mi conoscesse.
Ci lascia i pieghevoli col menù, ma quando torna la riconosco:
«Ma tu ti chiami Silvia?»
«Sì, e lei era il mio professore di italiano al geometra».
Scarni convenevoli, poi lei se ne esce, fulminante:
«Ma lo sa, che me ricordo ancora della goccia?!»
La goccia?
Già, quella goccia… la conosco molto bene, quella goccia.
E come mai a Silvia è sbucata subito dalla memoria, dopo vari anni?
E perché io ancora ne parlo?
*****
Prendiamola larga.
Un mostro infetta la scuola italiana (cioè, uno dei tanti mostri): nel complesso quadro clinico di quel grande malato che è la scuola, l’obbligo a 16 anni è a volte un agente patogeno che, così com’è, non aiuta la gurigione.
Superate le medie, si deve stare inchiodati al banco ancora altri due anni, che, nel caso di chi non ne abbia voglia, diventano due anni estenuanti e trascinati, anche quando lo sventurato alunno, in realtà, volenterosamente non vede l’ora di andare a lavorare. Quest’obbligo dei sedici anni pare essere assurto al rango di una nuova divinità dell’èra contemporanea (alla pari della dèa Privacy e del moloch Sicurezza, per dire, che ormai comandano su tutto, così come il Fato era più potente persino degli dèi).
Dunque per i primi due anni le scuole superiori si trovano “appesantite” da questi ammassi di povera gente condannata a una pena di due anni, pena non meritata giacché la mancanza di voglia di studiare non risulta essere un reato. Pena senza sconti, né condizionale, né possibilità di ottenere domiciliari.
Accanimento didattico eretto a sistema.
Tutto quel I geometra, cioè la classe di Silvia la cameriera, era un gruppo brutto, svogliato e disunito: un crocchio alla fermata dell’autobus era un aggregato sociale meno casuale e più coeso rispetto a loro. I colleghi insegnanti mi capiranno: era una di quelle classi senza un’identità collettiva.
L’aula era adeguatamente sconfortante: spoglia, scrostata, insulsamente calda per via di pannelli adesivi scuri appiccicati ai vetri, per fare ombra (!) e levare ogni visuale di fuori. Anche senza tirare in ballo l’oscitanza nelle prime classi del superiore, o la demotivazione degli studenti che magari hanno faticosamente superato le medie ma son costretti da norme insane a marcire in classe fino all’inutile e stanco traguardo dei sedici anni, anche solo a ricordare l’ambiente fisico di quella classe non mi stupisco dei 12 bocciati su 23 alunni, che ci furono a fine anno.
Dico: dodici-su-ventitré.
Impromuovibili, semplicemente.
Non si incuriosivano in nulla, non facevano i compiti, e anche dai “migliori” le soddisfazioni non erano frequenti. Figurarsi l’anonima massa umana stazionante a fondo classe… Diciamo che avevano un approccio catatonico alla scuola.
Be’, si capisce: quelli che a scuola ci venivano.
Ad Andrea, uno intelligente e relativamente “maturo” nonostante l’invincibile negligenza, lo dissi:
«Andre’, scusa, ma che ci vieni a fare? Vai a spasso, stai con la pischella, dormi, lavora, gioca con la play, insomma fai tutto quel che vuoi, ma non venire qui, perché se devi venire qui in questo modo, tu qui sei inutile», e fui molto contento, cioè contento per lui, al vedere che si offendeva:
«E no, professo’, “inutile” non me lo può dire».
«No, fai attenzione: non ho detto che sei una persona inutile, ho detto che sei inutile qui».
Mi sembrò che capisse.
Si disprezzavano, si sprecavano, e mi irritavano perché “dicevano” qualcosa anche riguardo al sottoscritto: non bisogna essere geni dell’autoanalisi per capire che li odiavo in quanto facevano sentire inutile anche me.
Capii, anche perché esperivo ciò che avevo letto tempo prima, che quando un insegnante non ha voglia di andare a scuola, può anche essere per motivi simili a quelli che demotivano i suoi alunni!
L’anno successivo sarei andato a insegnare agli alunni adulti, e con loro (compresi quelli in carcere) avrei riflettuto meglio sul senso dell’obbligo ai sedici anni. Parlo dei veri “perché”, e non delle stucchevoli e velleitarie melensaggini dei burocrati. Riflessioni che riguardano la profondità della demotivazione nei ragazzi, che obbligare a stare due anni di più in quello che facilmenta diventa un luogo vuoto di ogni senso, risulta un’idea che rasenta il perverso. Al vedere quei sedicenni condannati si toccava con mano la loro angosciante nausea verso la scuola, e l’avrei riscontrata, appunto, anche nei racconti in prima persona degli adulti che ritornavano a scuola e narravano il proprio vissuto, ma con tutt’altra maturità: quanta nausea avevano covato da giovani, e anche molto prima del conseguimento della terza media!
A differenza dei Greci (e di molti nostri contemporanei) io non credo nel Fato, o nell’Ananke, o come volete dirlo, però credo nella possibilità di dare un senso ai fatti, eventualmente anche a posteriori.
*****
Ma dunque, la nostra goccia?
Una goccia è un meraviglioso racconto di Dino Buzzati, un brevissimo racconto di cui io sono perdutamente innamorato.
Perché la proposi a quella classe?
Perché come ultima ratio di quell’anno interminabile, arido e frustrante, sperai che quei ragazzi venissero un poco scossi dall’inspiegabile, dal mistero, da ciò che ci suggerisce qualcosa, che allude a noi senza dircelo esplicitamente, tramite una letteratura anche allucinata, che, sotto sotto, si percepisce che ci riguarda.
Anche se Buzzati è autore che su tutti ho sempre amato, quel certo giorno di svariati anni fa non è che confidassi in lui per scuotere la classe, o almeno non più che in altri autori; ci avevo già provato con Landolfi, per dire, eppure constatai lo sbigottimento, stavo per dire l’impallidimento (un po’ come il Prospero di Poe ai rintocchi dell’orologio nell’ultima stanza) mentre leggevo quel racconto:
Una goccia d’acqua sale i gradini della scala. La senti? Disteso in letto nel buio, ascolto il suo arcano cammino. Come fa? Saltella? Tic tic, si ode a intermittenza. Poi la goccia si ferma e magari per tutta la rimanente notte non si fa più viva. Tuttavia sale. Di gradino in gradino viene su… Anche il dormire in una camera interna, lontana dalla tromba delle scale, non serve. Meglio sentirlo, il rumore, piuttosto che passare le notti nel dubbio se ci sia o meno… (non vi dico come finisce).
Quegli alunni raccogliticci mi chiesero cosa mai volesse dire; pertanto io, già felice per il solo fatto che rispondevano, mandandomi un barlume lontano, una risonanza di aver ascoltato, un segnale di esistenza (anche della mia esistenza!), diedi come compito semplicemente di provare loro stessi a capirlo.
Poteva simboleggiare quel nostro anno scolastico? In parte sì: oramai so che su quel racconto si possono addensare suggestioni e metafore con forza inarrestabile: da quell’anno in poi lo proposi quasi sempre, nelle classi in cui ho insegnato, e ne sono sempre scaturite interpretazioni interessanti. Anche fra gli adulti, anche nelle classi in carcere.
Il mattino dopo, non pensando più a quell’interesse mostrato dai ragazzi verso il racconto, restai allibito ancor di più: mentre percorrevo svogliatamente il corridoio diretto alla loro classe, vidi laggiù Laura uscire dalla porta, anzi non uscire: erompere dalla porta della classe come sparata fuori, per esclamare nella mia direzione, a voce alta, da laggiù in fondo:
«Ah professo’, so’ stata tutta ‘a sera di fronte al lavandino! Ma mica ho capito quella goccia che vôr di’!!!»
Segnali di vita da Laura, mai ricevuti né prima né dopo quel mirabile giorno! Laura, adolescente taciturna e saturnina, che si sarebbe poi ritirata molto prima di fine anno; una di quelle alunne su cui un perfido collega ipotizzava che, a farle l’elettroencefalogramma, sarebbe sorto il dubbio che il macchinario era rotto.
Ebbene, lei urlava verso di me la sua curiosità, la voglia di sapere.
Ma la sua curiosità finì come era iniziata, ahimé.
Perciò anche ora che scrivo spigolando tra i ricordi, e mi piace attaccarmi a questo, mi viene da dirmi “Consolàmose co’ l’ajetto” (come avrebbe detto non Dino Buzzati bensì mia nonna!), ma certamente Laura, per un giorno, risultò essere scolasticamente viva.
*****
Non ho idea di quale fine abbia fatto Laura.
Né ho idea di cosa la sua ex compagna di classe che oggi ho incontrato, cioè la cameriera Silvia, abbia compreso, in fondo, riguardo all’enigmatica goccia. Magari glielo chiederò se un giorno la vedrò meno impegnata coi clienti ai tavolini.
Ma sapere che nei ricordi di ex alunni, dopo anni, il mio volto è rimasto legato stretto all’idea geniale d’un immenso scrittore, mi ha scosso qualcosa proprio qui: dentro di me, ho sentito come uno squillare di campane…
MICHELE CAPITANI

Bello, Michele!
Tante sono le motivazioni del nostro lavoro, alcune arcane altre palesi…Ogni tanto una scintilla si fa strada ed accende il nostro cammino.
Rimane uno dei lavori più belli ( e misteriosi) del mondo.
Maria Zeno
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Caro Michele, il tuo racconto è intriso da un misto di malinconia, ironia e riconoscimento. Emerge la tua capacità di trasformare un incontro casuale al bar in un viaggio nella memoria scolastica e quel senso di frustrazione in positivo che ogni insegnante (e ogni ex studente) conosce bene. La tua è un’allegoria geniale e perfetta non solo dell’anno scolastico che descrivi – lento, inesorabile, apparentemente insensato – ma anche del ruolo ambiguo della scuola che spesso mortifica (quell’obbligo ai 16 anni che somiglia più a una condanna che a un’opportunità). Sono rari quei momenti in cui la letteratura riesce a bucare il muro dell’indifferenza, come avviene con Laura che esplode dal silenzio. Ci sono un paio di cose che mi fanno pensare: La scuola come luogo di “attrito” dove lo scontro tra demotivazione degli studenti e la fatica degli insegnanti riescono tuttavia a generare scintille inaspettate; Il paradosso dell’obbligo che costringe ragazzi disillusi a stare in un “non-luogo” (quelle aule scrostate, quei vetri oscurati) è quasi una crudeltà e malgrado quel contesto possono, anzi nascono frammenti di umanità: Silvia che ricorda la goccia, Laura che per una sera si interroga. Riuscirà la società a trasformare quell’obbligo in qualcosa di meno alienante? O è inevitabile che, in certi casi, la scuola diventi una prigione per tutti, alunni e professori? Mi ha commosso il finale, con lo “squillare di campane” dentro di te. È un’immagine che restituisce dignità al mestiere di insegnante: anche quando sembra di seminare nel deserto, qualche seme – come la goccia che sale – sempre lo stesso seme trova il modo di germogliare, magari anni dopo. Grazie per aver condiviso questa storia.
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Grazie… Non so chi sei, ma grazie davvero. La memoria resta viva, come vivo resta il sentimento sia dell’inutilità (vera o apparente) di certe esperienze, sia della luce di certi barlumi, perciò sapersi compresi da lettori e colleghi (mi sembra che tu lo sia) resta sempre prezioso. Michele
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Grazie… Non so chi sei, ma grazie davvero. La memoria resta viva, come vivo resta il sentimento sia dell’inutilità (vera o apparente) di certe esperienze, sia della luce di certi barlumi, perciò sapersi compresi da lettori e colleghi (mi sembra che tu lo sia) resta sempre prezioso. Michele
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