Maria
di ANDREA BARBARANELLI ♦
Fu l’innamorata che ebbi tra la fine del liceo e l’inizio dell’università a farmi conoscere Maria. Quando, per allontanare sua figlia da me, quello che non sarebbe comunque mai diventato mio suocero si trasferì all’altro capo del paese, partendo con famiglia e masserizie, a notte fonda, come un ladro, Maria mi telefonò per avvisarmi che rimaneva lei come unica intermediaria tra me e la mia innamorata ormai lontana. Era a lei che dovevo consegnare le mie lettere, che avrebbe provveduto a far segretamente pervenire, dissimulate fra le sue. Lo stratagemma escogitato dalla mia innamorata non mi piacque nemmeno un poco. Avrei preferito che ci servissimo del fermoposta per evitare una tale servitù, per me imbarazzante. Come ben poco mi piacque, fin dall’inizio, quella ragazzona corpulenta che portava scritta la sua condizione di orfana di padre negli occhi scuri continuamente allarmati e nella peluria sopra il sottile labbro superiore, e meno ancora l’occhiuta vigilanza della madre, esercitata su ogni mio gesto, dal momento in cui suonavo il campanello al momento in cui, pochi minuti dopo, dopo aver consegnato la mia lettera, uscivo dalla loro vista, svoltando l’angolo in fondo alla strada.
L’appartamento in cui Maria viveva con la madre e la nonna occupava il piano terreno di un piccolo edificio prospiciente una strada già allora molto trafficata e polverosa e, chissà perché, pur trovandosi ad appena pochi isolati dalla casa della mia famiglia, mi sembrava appartenere a un altro mondo. Venendo dalla carrozzabile, dovevo superare un ponticello di cemento per arrivare al portone della palazzina rivestita fino alle finestre del mezzanino da un rustico mosaico in pietra viva.
Qualche giorno fa, durante uno dei miei brevi soggiorni nella mia città natale, sono passato per caso per quella strada così vicina a quella dei miei genitori, ma completamente da me dimenticata, e ho rivisto le tre finestre del primo piano, ora protette da sbarre di ferro, come si usa da quando la gente è spaventata dai frequenti furti negli appartamenti. Dopo più di trent’anni, ho considerato inopportuno superare ancora una volta, come se nel frattempo nulla fosse successo, il ponticello di cemento, visibilmente deteriorato, andare a cercare il cognome di Maria nella bottoniera del portone e, nel caso in cui il cognome non ci fosse più, suonare comunque il campanello dell’appartamento del primo piano per chiedere della famiglia che anni prima ci aveva abitato. Nulla, certo, impedisce che Maria sia ancora viva, come lo sono io, e che continui a vivere in quello stesso appartamentino, magari con sua madre, che allora mi sembrava già vecchia, ma che, in realtà, poteva essere perfino più giovane di mia madre, che gode ancora di ottima salute. Ma potrebbe anche essersi sposata o trasferita in un’altra città.
All’inizio di questa storia, trent’anni fa, quando arrivavo alla sua porta, dichiaravo subito, perché non mi trattenesse, di avere molta fretta, le consegnavo la lettera per la mia innamorata lontana, e declinavo l’offerta del tè o del caffè da parte della madre immediatamente apparsa dietro la figlia: Entri, solo un momento, venga a prendere un caffè, non faccia complimenti.
In seguito, quando ormai erano passati molti mesi dalla partenza della mia innamorata, quando la furia e il furore dei primi tempi, che mi avevano portato a scriverle quotidianamente, s’erano andati affievolendo e acquietando e ormai già mi limitavo a scriverle due o tre volte la settimana, con una certa qual fatica e stanchezza, quasi per un malinteso senso del dovere, come se l’assenza l’avesse trasformata in un fantasma con cui mi era difficile comunicare e a cui, in fondo, avevo ben poco da dire, ora che la mia vita quotidiana procedeva del tutto separatamente dalla sua, accettai per la prima volta una tazza di tè.
Mi fecero entrare nel salottino e sedere alla tavola coperta da una tovaglia ricamata su cui erano già disposti in bell’ordine, come se si fossero aspettate la mia risposta positiva o come se sempre, comunque, la preparassero in vista di un’eventuale accettazione dell’invito, svariati vasetti di marmellate e di miele, un grande piatto con fette di pane abbrustolito, una panciuta teiera di porcellana e due tazze da tè della stessa ceramica traslucida con dei fiorellini a rilievo, la cui vista, non so perché, mi commosse. Maria mi servì il tè, mi chiese se preferivo aggiungervi del latte o una fetta di limone, mi avvicinò la zuccheriera. Mi sentii ben trattato e servito, come mi sarebbe piaciuto esser trattato in casa della mia innamorata, dove invece non solo non ero stato mai invitato, ma dove sapevo che altri erano stati invitati per rendere più bruciante l’offesa che mi si voleva arrecare con la mia ingiustificata e provocatoria messa al bando. Sì, in casa della mia innamorata mi si considerava un appestato da tenere a distanza, da respingere e mantenere fuori dalla intima cerchia degli affetti, addirittura dalla cerchia delle relazioni meno impegnative, alla quale io non dovevo a nessun conto essere ammesso. Sapevo bene perché e in vista di che, in vista di quale possibile migliore partito da trovare e attirare, nella nuova città nella quale il padre aveva deciso di trasferirsi. Seguivo con l’indice della sinistra il contorno del disegno con cui la ricamatrice aveva trasformato la superficie della tovaglia in una vigna al momento della vendemmia, gremita di grappoli d’uva. I tralci formavano una bella decorazione che si ripeteva tutto in giro e mi piaceva indugiare col polpastrello sui grossi acini in rilievo per sentirne la soffice rotondità. Era un lavoro prezioso e raffinato, come non se ne facevano già più, doveva appartenere al corredo della nonna di Maria, la vecchia signora dai capelli candidi che scorgevo passando davanti alla porta socchiusa della sua camera da letto, seduta sulla poltroncina accanto alla finestra. La madre di Maria usciva continuamente dal salotto per ritornarvi dopo pochi minuti con l’intenzione o il desiderio di sorprenderci, me e sua figlia, in un’intimità compromettente, in modo per me talmente imbarazzante da obbligarmi, quando usciva dal salotto, ad alzare la voce, come per seguirla nei suoi andirivieni in giro per la casa, benché non fosse con lei, ma con Maria, che conversavo.
Maria, invece, restava tutto il tempo seduta di fronte a me, dall’altro lato del tavolo, e imburrava i crostini di pane prima di stenderci sopra un ricco strato di marmellata o di miele. Ricordo la sua larga faccia placida, incorniciata dai folti capelli neri, ricci vicino alle punte, le labbra socchiuse in un sorriso appena accennato, e le mani che si muovevano abilmente, districandosi fra i vasetti e i piattini, le tazze, il bricco del latte e le fette di limone. Io fissavo quelle mani grassottelle, dalle dita piuttosto corte, evitando di guardarla in faccia, perché la peluria scura che le cresceva sopra il labbro superiore, formando due leggeri baffetti, le ampie guance carnose, sulle quali i segni dell’acne erano evidenti malgrado l’abbondante strato di crema, e soprattutto gli occhi castani scuri, quasi neri, in cui brillava una piccola luce non sapevo se ironica o maliziosa, o forse maligna, mi mettevano a disagio, oppure, probabilmente, mi disgustavano, senza comunque che io fossi capace di dirlo chiaramente a me stesso, perché, d’altra parte, non volevo rinunciare per questo alla mia visita settimanale.
Come si collocava, in rapporto alla storia del mio amore duramente contrastato, il rituale del tè e della fette di pane imburrato, intorno al tavolo del salotto in casa di Maria? Nulla c’era, in quella ragazzona triste e piuttosto sciatta, in cui intuivo un fondo di pura cattiveria, mal celato dall’ostentata religiosità, che potesse attirare un giovane in stato di costante esaltazione emotiva e intellettuale quale ero io a quell’epoca.
La mia condizione era comunque piuttosto singolare. Da un lato, ero ingiustamente e ingiustificatamente respinto dalla famiglia della mia innamorata, dall’altro mi si accoglieva in casa di Maria con tutti gli onori, suggerendomi e per così dire insinuandomi una voglia di normalità, il desiderio di essere trattato in modo tranquillamente e decentemente borghese, come vedevo che venivano trattati i miei coetanei dalle famiglie delle loro innamorate, con anelli di fidanzamento a consacrare la relazione. C’era, sì, la possibilità dell’avventura, della fuga con lei, intendo dire con la mia innamorata, ma, in verità, questa fuga avventurosa nemmeno riuscivo a immaginarla. No, quest’idea della fuga non si è mai presentata, in quel tempo, alla mia immaginazione. Solo adesso, da vecchio, mi domando: ma perché, allora, non ho mandato al diavolo il padre della mia innamorata e non me ne sono andato con lei da qualche parte, a vivere la vita che avrei voluto vivere? Perché non ero spregiudicato e libero e insolente e incapace di affermarmi? Ah, perché non avevo respirato fin da bambino l’aria libera e liberatrice della grande città? Solo molti anni dopo mi sarei reso conto di quanto fossi pieno di pregiudizi e timori, un bigotto, insomma, proprio io che posavo a ateo e libertario. La nostra storia era acerba, non aveva la carne e il sangue che solo avrebbe potuto darle il rapporto sessuale, era una storia fatta tutta di esaltazioni “spirituali”, un amore come poteva ancora sbocciare in quegli anni, se capitava che s’incontrassero due “anime gemelle”, allevate in un ambiente di rigoroso puritanesimo e nutrite di letture che oggi non esito a definire nefaste.
In casa di Maria mi sentivo apprezzato, non rifiutato e detestato come dai genitori della mia innamorata. Era, per me, l’accoglienza che mi veniva qui riservata, una specie di compensazione, che soddisfaceva – lo penso ora – la parte più meschina del mio essere.
Quando, di lì a qualche tempo, la mia innamorata, adducendo a pretesto i pressanti impegni di studio e non so che altri obblighi sociali, decise che ci saremmo scambiati una sola lettera ogni due settimane, cominciai a presentarmi a casa di Maria ogni secondo venerdì del mese. Quando interruppi le visite quotidiane e mi presentai dopo tredici giorni, fui accolto come una specie di figlio prodigo. È stato male? Che cosa le è capitato che non si è fatto più vedere? Perché ci trascura in questo modo? mi rimproverò la madre di Maria dall’alto della sua statura imponente, come se le mie visite non fossero esclusivamente legate alla funzione, assunta da sua figlia, di intermediaria fra la mia innamorata e me. Quando poi le lettere della mia innamorata si diradarono ulteriormente fin quasi a ridursi a un rivolo tenuissimo di comunicazione, dovetti inventarmi una qualche scusa che giustificasse quelle mie visite che, malgrado tutto, non avevo intenzione di interrompere, come se si fossero trasformate in un rituale che, per quanto povero di contenuti, non mi era però affatto fastidioso. Chiesi a Maria di darmi delle lezioni di pianoforte. Imparai a leggere le note sul pentagramma e ad eseguire qualche pezzo facilissimo con una sola mano, ma mettere insieme le due mani coordinandole si rivelò un’impresa al di sopra delle mie forze. Maria era una maestra paziente, ma la sua cultura musicale era molto scarsa e la sua tecnica poverissima. Strimpellava con la convenzionalità delle ragazze di famiglia che hanno il dovere sociale di studiare il pianoforte. Niente a che vedere con la tempestosa passione che faceva della mia innamorata una creatura tormentata dalla sua sensibilità musicale.
Mai ci fu, tra me e Maria, una sola parola o un solo gesto che andasse al di là del rapporto istituitosi fin dall’inizio: non più di una corretta amicizia. Continuava a tenermi informato, visto che la mia innamorata ormai non mi scriveva se non molto di rado. Attraverso di lei, ne scoprivo aspetti che avevo sempre ignorato. Giorno dopo giorno, un poco alla volta, l’immagine della mia innamorata, già resa vaga dalla lontananza e dall’impossibilità di vederla, tenuta sotto custodia com’era, si andava trasformando in quella che Maria mi presentava. Alla fine, mi ritrovai con una innamorata che non riconoscevo più, che non era più quella che avevo conosciuto, al cui ricordo disperatamente cercavo di restare attaccato e la cui immagine cercavo di mantenere viva dentro di me. Maria, per esempio, mi riferiva: È contentissima, perché il padre le ha regalato una pelliccia. Figurati che fortuna, per una ragazza della sua età, una pelliccia di visone! O ancora: non so se ti ha scritto che non vede l’ora che arrivi l’estate per andare ai bagni di mare. Hanno preso in affitto un appartamento proprio davanti alla spiaggia.
Maria, dunque, faceva parte di un piano, di una congiura ben intessuta, per allontanarmi nel modo più tranquillo e banale dalla mia innamorata? La mia innamorata, dunque, non solo non si era opposta alla manovra di suo padre che, trasferendosi in una città così lontana, aveva puntato tutto sull’antico principio “lontano dagli occhi lontano dal cuore”, ma l’aveva condivisa e assecondata? Il fatto di aver scelto e designato come sua rappresentante e intermediaria quella sua “amica del cuore” avrebbe dovuto mettermi sull’avviso, sin dall’inizio, su quali fossero le vere intenzioni della mia innamorata nei miei confronti. Appena pochi mesi dopo la sua partenza, era riuscita, con la discreta collaborazione di Maria, ad assopire i miei ardenti spiriti giovanili, ad acquietare la mia ansia di rivolta, di ribellione di fronte all’oltraggio del rifiuto, della rottura, della mia messa al bando da parte della sua famiglia.
ANDREA BARBARANELLI

Caro Andrea, mi piace davvero molto leggere i tuoi scritti, hai un modo di narrare “avvolgente”, che consente l’immersione nella storia.
Maria Zeno
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Complimenti. Un quadretto d’altri tempi reso molto bene. grazie
Marcello luberti
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