L’ISOLA VOLANTE
di MICHELE CAPITANI ♦
(una parentesi tropicale)
Ai tempi dei tempi, quando in adolescenza scoprii la lettura e divenni un lettore accanito, ci fu un periodo (breve, per fortuna!) in cui considerai l’atto del leggere quasi come un vero atto sacro. Ero rimasto talmente preso che la mia visione mi portava a guardare quasi come pubblici bestemmiatori coloro che leggevano “male”, cioè ad esempio sulla metropolitana, o in contesti rumorosi, o di fretta o senza attenzione: mi parevano porci a cui s’erano regalate perle, erano sfregiatori di opere michelangiolesche. Nella mia visione estremista, chi non vedeva la lettura come ascesi, raccoglimento, immersione, non aveva capito nulla (e ovviamente era peggiore colui che non leggeva affatto).
A queste categorie potevo, peraltro, concedere indulgenza, come a volte ci si degna di impietosirsi verso chi non sa quello che si perde; ma c’era una più reietta categoria, i paria di quel mio modo di vedere: coloro che non solo leggevano male o non lo facevano affatto, ma che perfino ostentavano il loro disinteresse verso i libri, magari vantandosene: lì tutto quanto in me diveniva disprezzo.
Chiaro che il mio atteggiamento snob era stupido estremismo d’adolescenza, che spesso è proprio di quel passaggio umano: nel Seicento un medico riassumeva essere di quell’età “l’esaltamento della fantasia e le violente passioni”, e così accadeva a me: m’isolavo in cima alla torre d’avorio dei libri, rintanandomi in un mondo tutto mio, pieno di ubbie verso quegli esecrabili bestemmiatori e non-lettori.
Tagliar via l’altro, più che violenza, era logica di sopravvivenza di un timido dissimulato: in realtà ero piuttosto fifone e presuntuoso, come spesso si è da adolescenti. Non volevo capire, per comodità, cioè per pigrizia e istinto di difesa, che le passioni chiedono d’essere sprigionate, ossia tirate fuori di prigione, nel confronto con gli altri, perché di relazioni ha fame l’uomo. Del resto, non è “io” la prima parola che si impara a dire.
Quel periodo svaporò prestissimo, come tante cose delle più giovani età, però solo una dozzina d’anni dopo, ormai adulto, sarei rimasto definitivamente abbagliato da un’immagine che mi si impresse dagli occhi fino alla coscienza, e che mi disse con formidabile chiarezza quanto ero stato immaturo e fuori dalla realtà, nel passato, a voler rimanere garantito nel mio solitario recinto: fu quella volta che restare sull’isola volante dei libri mi pesò quanto mai era successo prima; fu la volta che vidi impressa nella carne degli altri la disuguaglianza fra me privilegiato e un’altra umanità esclusa da tutto, non solo dai libri.
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Come fu che mi misi a leggere molto in quel viaggio, in cui a trent’anni mi avventurai?
Bisogna risalire a quanta poca autostrada ci sia in India: dopo pochi giorni a Delhi e dintorni, partimmo io e l’altra decina di viaggiatori su di un pulmino, per un lunghissimo tragitto che doveva finire a Mumbai, dopo tre settimane e innumerabili miserie e meraviglie, scatti di foto, mercati e altipiani.
Dunque, subito fuori da Delhi, la strada andava via bella diritta e liscissima, e noi non avevamo ancora dei posti fissi perché fin lì col pulmino ci si era spostati poco; così andai nell’ultima fila in fondo e me la presi. Non avrei mai pensato di poter avere una sistemazione tanto comoda, considerando che la traversata sarebbe stata di tragitti infiniti, di parecchie ore al giorno e per più giorni di seguito. I posti sul nostro mezzo comunque abbondavano, e il mio era di ampiezza sultanesca: mi ci potevo anche sdraiare, infatti in quella prima tappa dormii molto.
Ma il viaggio si rivelò presto, e crudelmente, il più logorante che avrei dovuto vivere, poiché un centinaio di chilometri fuori dalla capitale tutto cambiò: iniziavano le vere strade indiane, dense di buche e rattoppi, fitte di bestie d’ogni razza. Da lì in poi si procedette al massimo a quaranta all’ora per le profonde scrostature dell’asfalto, che pure c’era quasi sempre ma malandatissimo, e le tante interruzioni, e il fango. L’India è, quasi ovunque, folle di uomini e folle di animali, non solo nelle strade; soltanto che gli animali non distinguono le strade (che siano urbane, suburbane o rurali) dalle aie, foreste, campi, parchi pubblici, così che a ogni scantonata si era costretti a rallentamenti e serpentine tra bufali, cammelli e greggi di vario genere, più che altro, e vacche sparse imprevedibilmente. C’erano pure, alle volte, pavoni o scimmie.
Ogni tanto qualche processione.
Ma per me il problema decisivo fu l’assenza di ammortizzatori di quel malcerto pulmino: agli ultimi posti era impossibile stare durante la marcia, perché si sobbalzava insopportabilmente, mentre a sdraiarmi venivo lanciato dovunque, e mi sarei certamente ferito. Così dovetti avanzare qualche posto e stare seduto; la mia schiena si sarebbe lagnata a lungo, ma non potevo scegliere altro.
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Anche se non era simpatica, dovetti essere grato a una compagna di viaggio che si era portata appresso molti libri i quali, terminate le intensissime tappe della valle del Gange, cominciarono a moltiplicarsi dal suo borsone, e di cui anch’io approfittai. Non riuscii a immaginare quanti se n’era portati, libri che scaturivano dal suo posto lì davanti come da una cornucopia cartacea, tanto più ferace e provvidenziale quanto più le tappe si allungavano: infatti, gli acquazzoni preistorici del luglio indiano facevano strazio dei nostri programmi, e facevano dilazionare orari e tappe allungando i tragitti fino alle dodici, quattordici ore al giorno…
Talmente immersivo diveniva il nostro viaggio che a malapena mi ricordavo da dove venivo, né era facile pensare che ci sarebbe stata una fine, tanto quel verde intenso e quei paesaggi a capanne e fango non finivano mai. Quel pulmino che ambulava era un non-luogo sperso in un luogo infinito… al punto che addirittura iniziai a rimpiangere le pause, lì per lì estenuanti, a cui il monsone ci aveva obbligati qualche volta nei primi giorni di viaggio: anche per due volte in uno stesso giorno ci eravamo dovuti fermare perché s’erano ingrossati e tracimati dei fiumi che si era dovuto poi pazientare che tornassero nel loro letto. In quegli imprevisti io indugiavo ad ammirare, mai stanco, lo sbalorditivo spettacolo delle strade indiane (veicoli, venditori, famiglie, colori, animali…), e poi tornavo nel mio, di letto, cioè in fondo al pulmino, e leggevo e dormivo.
Ma successivamente, appunto, non potetti più farlo: lunghe soste da un certo parallelo in giù non ve ne furono, mentre vi furono solo quelle lunghissime ore di viaggio: io seduto pochi posti più avanti del previsto, a tratti dormitavo, spesso leggevo e leggevo, senza accorgermi che quelle letture non erano un ripiego, erano davvero ben di più…
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È da sapere che i ragazzini indiani non sempre ci chiedevano monete, come vuole l’esperienza comune di viaggiatori benestanti in terre povere: lasciataci dietro, dopo la prima settimana, la valle dell’Hindustan, che in uno spazio come l’Italia aggruma tanta gente quanto sette Italie pressate insieme, trovammo poi in molti villaggi, e vicino a rovine e palazzi isolati, nugoli di bimbi che ci ronzavano intorno silenziosi ma densi e pertinaci e invincibili come mosche; a essi il pulmino di ricconi piovuto presso la loro catapecchia sembrava un salvadanaio dalle cui crepe si doveva pure far piovere una mezza rupia, o comunque qualcosa; una sorta di carretto d’un gelataio indulgente da cui farsi donare dei minimi pezzetti di cialdina.
Ebbene, in tantissimi villaggi rurali accadeva invece che i bambini ci chiedevano ben altro che soldi: noi, prosciugati dalla dissenteria o con le reni scricchiolanti per il viaggio, scendevamo per una sosta o per la visita, i nostri polpastrelli scendevano in tasca per rinnovare il facile appello delle rupie disponibili da poter regalare, ed ecco che senza chiasso quei bimbi alzavano le braccine facendo il gesto di scriversi con una mano nel palmo dell’altra.
Sai che gliene fregava dell’elemosina: essi chiedevano penne per scrivere.
Ma noi non ne avevamo! A saperlo, ci dicevamo, quante ne avremmo impacchettate, le penne lassù onnipresenti, in quella galassia remota che era casa nostra…
Fu lì che coi compagni di viaggio fummo uniti: la nostra era una comitiva posticcia, che tollera sé stessa senza problemi per alcune settimane e poi via, ciascuno a casa propria dopo la spedizione, come gli eroi dopo Troia, a far vedere le diapositive ai veri amici che si riabbracciano. Ma lì, a contemplare i bimbi del Madhya Pradesh che s’incidevano le palme, avemmo un unico rimorso, un’unica impotenza, ancor più triste per la possibilità che avremmo potuto avere, a saperlo, di fare qualcosa.
Già, a saperlo.
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Scrivere è incidere, e in greco graphìa è anche “incisione”, e questa non è solo etimologia perché non sto pensando a un passato di parole polverose: scrittura è sempre incisione, anche adesso.
L’obbligatorietà dell’istruzione elementare che lo Stato indiano garantisce, aveva lasciato loro il desiderio di incidersi linee diverse dai solchi delle risaie che li aspettavano. Le righe sui quadernetti rosei che erano le loro piccole mani, linee che di certo da grandi si sarebbero incallite sulle zappe che lì ancora si usano, che si sarebbero colorate di letame di bufali e non di pastelli, essi volevano incidersele di qualcosa di diverso, fosse pure qualche ora in più coi compagni a ridere, nella scuola di fango e frasche invece che nei campi.
Io leggevo perché il viaggio nel loro paese era più lungo del previsto, mentre loro non avevano neppure di che scrivere, in quegli anni di scuola comunque troppo brevi.
Un’isola volante realmente era il pulmino, ma a me, con i miei pensieri su cosa leggere e cosa no, quel silente gestino di bimbi urlava tutta la distanza che c’era: io avrei scelto un altro libro da leggere, loro si sarebbero scordati come si scriveva.
Io ero predestinato al ritorno a occidente, la loro condanna era l’analfabetismo di ritorno.
Con quel gesto di graphiarsi sul palmo, i bimbi mimavano stimmate, segni di chi è bollato a star fuori dal mondo, a restare in un mondo in cui non si può alzare la testa dall’aratro per riposarla sui libri, né si può pensare che in alternativa all’aratro ci possa essere un’altra strada, se si sa maneggiare una penna.
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Lo cerco ma non lo trovo, un inverosimile sacco in cui si possano tenere insieme quel mio leggere laggiù in viaggio, e il loro desiderio di scrivere.
Non lo trovo.
Mi frugo nelle pieghe del cervello, vado ricordando altre mirabilia d’India viste là, per aprire altre variazioni a questo discorso, ma mi siedo arreso: quando penso a quei bimbi, scopro che rispetto al cervello il mio cuore di pieghe ne ha ancora di più, e frugar lì è troppo doloroso.
E poi diventerei prolisso.
Per quanto continuino a sembrarmi parte della stessa sfera, quella del leggere e scrivere e del bisogno di imparare, eppure vedo me sempre troppo distante dalle manine e dagli sguardi dritti e silenziosi di quei bambini.
MICHELE CAPITANI
