Ismail Kadare: parte seconda e ultima

di CATERINA VALCHERA ♦

Exegi monumentum…

Che le mani non possono costruire. Con un inizio che intreccia l’incipit di una famosa ode oraziana e la didascalia sul monumento a Puškin nell’omonima piazza moscovita, prende le mosse l’ultimo lavoro di Ismail Kadare che consiglio vivamente di leggere. Lo chiamo lavoro perché si tratta di uno scritto non riconducibile a un genere preciso, un testo sorprendente, che sarebbe molto piaciuto a Umberto Eco o a Italo Calvino: al primo perché vi riconoscerebbe nel falso epilogo la sua famosa definizione di opera aperta, al secondo per l’approccio relativizzante e multi-prospettico nel raccontare lo stesso fatto, per la scelta frastica del titolo “Quando un dittatore chiama” e per le venature ironiche che lo attraversano. Un lavoro sospeso tra saggio e romanzo, cioè tra realtà storica e immaginario, anche onirico. Kadare non rinuncia mai a raccontare almeno un sogno nei suoi romanzi, e lo fa anche qui, nella prima parte, quella in cui si intrecciano narrazione e meta-narrazione per poi interrompersi e tradirsi entrambe. Durante un sogno, dopo aver attraversato strisciando la piazza Puškin, trovai la maggior parte degli studenti radunati. In fondo me l’aspettavo, tuttavia fui assai sorpreso vedendo il mio nome su uno dei cartelli. E subito dopo sentii sempre più distintamente urlare contro di me. […]“Il grande capo t’ha telefonato laggiù a Tirana, gridava un bielorusso furibondo. Lui, il vostro Stalin che non ricordo più come si chiama. Enver Hoxha si chiama-mi viene da dire ad alta voce mentre leggo- il despota albanese così pesantemente presente nell’opera di Kadare, anche se quasi sempre attraverso il filtro della scrittura letteraria, della favola “mobile” – come ne Il Mostro – o della maestosa allegoria, come nel suo capolavoro “Il Palazzo dei Sogni” di cui ho già parlato sul nostro blog. Senza mai rinnegare il comunismo in quanto tale, cioè sul piano della dottrina, il Nobel albanese offre una “rappresentazione” grottesca della macchina infernale del Potere, del suo dogmatismo inflessibile e ottuso, delle strategie fintamente rassicuranti nel rapporto con i sudditi e con gli intellettuali. E lo fa anche qui, scegliendo di “raccontare” piuttosto che “descrivere” – per citare Lukάcs- pur essendosi formato alla scuola del realismo socialista. Il racconto non pretende di valere come verità, visto che accoglie elementi dell’immaginario anche onirico e dunque squisitamente soggettivo, e usa le strategie del romanzo per introdurre un evento di grande risonanza storica: la telefonata di tre minuti che nel giugno del 1934 Stalin in persona avrebbe fatto a Pasternak, sollecitando una sua presa di posizione nei confronti di Osip Mandel’štam, il celebre poeta dissidente e vittima l’anno prima delle Grandi Purghe staliniane. Nello stesso tempo, l’io narrante avvia un costante parallelismo tra il regime stalinista della “mite” (!) Mosca e la terribile variante albanese, focalizzandolo sul conflitto secolare tra Arte e Potere che caratterizza la dittatura comunista. Scontro tra titani “poiché la parola poetica può annientare la tirannia o equipararla”. Facendo della telefonata il focus del racconto, Kadare sposta l’attenzione del lettore sulle 13 versioni della stessa, una per ogni capitolo: stratagemma che consegna quel probabile minimo accaduto alla vastità della letteratura del racconto come forma di resistenza alla retorica stalinista. Nell’immaginare le diverse varianti dello stesso evento, lo scrittore apre una prateria di riflessioni, si concede spazi di manovra sul piano dei contenuti, aperture a temi universali come l’amore, la morte, il mistero, il conflitto di ragione, la stupidità del conformismo sociale. Su tutto, anzi sotto tutto questo materiale incandescente, alleggerito però da venature ironiche, dall’umorismo dell’incredibilità del possibile, giganteggia la figura- forse inconsciamente invidiata- dell’artista coraggioso, del vero dissidente, che non fu certo Pasternak, ma il poeta acmeista e saggista Mandel’štam. Anzi, il “collega” Pasternak in questo scontro tra poeta e Stato non solo è moralmente svalorizzato ma risulta addirittura accusato dal tiranno Stalin di essere piuttosto tiepido nel difendere il compagno Osip. La sua risposta nella prima versione- quella “vulgata” – sarebbe stata infatti a dir poco interlocutoria, anzi tiepida: “Siamo diversi, compagno Stalin!” Un tradimento nei confronti del compagno perseguitato e dell’”intera famiglia degli scrittori”. Tra i due protagonisti russi si situa l’io narrante: rievoca un suo momento, le difficoltà incontrate nel suo paese a livello burocratico-editoriale per i suoi scritti e insieme lo scandalo, ancora vivo a Mosca nel ’60, per il Nobel assegnato a Pasternak chiarendo che : “non somigliavo né a Pasternak né a nessuno”. Si delinea così il deep theme del testo, che oltre ad essere il lascito di Kadare, sembra riguardare soprattutto lui. Come insegnò la Woolf, infatti, non esiste scrittura letteraria che non sia autobiografica. Anche a Ismail- come a Boris- venne rimproverata una certa reticenza nei confronti del potere, di cui non fece vedere gli orrori, la paura della gente, il volto violento e disumano; egli era piuttosto interessato a ripristinare il valore della comunicazione letteraria, a trovare ogni volta la sua cifra espressiva. In questo caso lo fa anche tramite la compresenza di più livelli di lettura, compresi quelli simbolici e le inebrianti interpretazioni del testo. Siamo dunque di fronte non solo ad alta letteratura, ma anche ad escursioni nella meta-letteratura. Un denso e vasto materiale in cui irrompono figure mitiche e vere icone dell’immaginario di tutti i tempi (Elena di Grecia, divenuta per tutti Elena di Troia), Dulcinea e il mistero del silenzio di Beatrice Portinari e soprattutto la Margherita di Faust e del suo patto col diavolo, perché nell’universo comunista, ogni volta che si trattava di scrittori noti, non si poteva fare a meno di pensare a quel patto, sebbene fosse menzionato di rado. Se il Potere è ottusamente esplicito, velenoso e invidioso dell’Arte, la Poesia partecipa del grande mistero dell’Essere, è dotata di una grazia esclusiva e irriproducibile: la stessa che illumina le feminae cultae (come Anna Achmatova) che, come nella Roma tardo-repubblicana, affiancarono poeti e letterati, filosofi e intellettuali. Exegi monumentum aere perennius…La colonna del poeta si eleva più alta della colonna dello zar (Puškin). E anche di quella sollevata dal lancio di un missile nello spazio…

CATERINA VALCHERA