“I RACCONTI DEI SOPRAVVISSUTI” DI MICHELE CAPITANI – LE RAGIONI DELLO STOMACO

di MICHELE CAPITANI

Preliminarmente, ciascuno consideri nel debole chi preferisce: il pazzo, il disabile, il morente, il povero, il carcerato, il malato, l’esule, il vecchio, il bullizzato, il barbone, l’abbandonato, il depresso… Ebbene, cos’hanno in comune questi tipi di persone? Hanno questo: che ciascuno di loro ti è d’imbarazzo perché con la sua sola vita ti dice che la vita non va sempre come tu pensi. Spazza via in un soffio ogni delirio di onnipotenza, anzi nemmeno in un soffio: in uno sguardo, e anche se non ti guarda, basta che lo veda tu, e lui ti farà sentire impotente. Il povero ti mette sotto il muso che al di là del tuo pianerottolo c’è una disabilità, o che al di là del telefono ci sarebbe uno sventurato a cui fare una chiamata, oppure che al di là del mare ci sono devastazioni che credevi sparite nei libri di storia.

E ti mette in crisi, il povero, tirando fuori il peggio di te: l’istinto di difesa, la capacità di voltarti di là, ma soprattutto la paura, se vedi nell’altro solo un portatore sano di pericolosità, e scopri che dentro di te vige ancora l’impulsivo e difensivo antenato delle caverne.

La povertà fa paura, questa è la realtà: ti fa sentire indifeso; ma se saltiamo questo passaggio, non si comprende quasi nulla.

***

Parlando di povertà materiale, possiamo affermare che lo stomaco ha delle ragioni che la ragione non conosce. Ciò per gli affamati è desolatamente ovvio; condannabile, viceversa, è quando sono i non-poveri ad ascoltare le ragioni del proprio stomaco. Purtroppo è più comodo ascoltare la logica della pancia, anche per difendersi da quest’altro modo che ha la povertà di mettere in crisi: siccome essa richiede ed esige, ecco che ti pone nella sgradevole condizione di rifiutare, trasformandoti in un abile improvvisatore di scuse per non abbassarsi, non mettere la mano al portafogli, non trovare tempo per aiutare. Mette in crisi dicendoti che potresti coinvolgerti nella sua debolezza, perché non basta una moneta per rialzare un uomo, né cinque minuti di sorrisi per integrare un disabile.

Forse anche per questo la pancia fa dar credito agli scriteriati slogan di chi condanna e invoca sempre sgomberi e ghigliottine, che però, guarda un po’, non risolvono mai un problema che sia uno.

Un efficace inizio sarebbe pensare che il povero ricorda quel che ciascuno di noi potrebbe diventare: c’è un mio amico, bancario addetto agli investimenti, che si autodefiniscebarbone travestito da strozzino”:

«Se un giorno vorrai fare un’intervista a un barbone nell’anima, eccomi».

«Ah ah! Da dove ti viene questa definizione?»

«Eh, Miche’, quant’è complicata la vita normale! Ci penso sempre alla nostra precarietà, alla crisi, al posto di lavoro che il prossimo anno non so dove mi sbatteranno, e alla famiglia da tirare avanti…»

Mi fa venire in mente di quando alcuni commercianti di un’isola pedonale si sono lamentati perché alcuni barboni, che di giorno fanno spesso comitiva sulle panchine davanti a loro, lasciano a volte della sporcizia. Nessuno di quei negozianti sapeva che anche Luis, uno di quei senza-dimora, era un commerciante, un ex collega, sbattuto a vegetare sul marciapiede dalla crisi del suo Paese, un paese solo più sfortunato del nostro, non peggiore né migliore. Qualcuno ha malamente commentato che per un giorno quei commercianti dovrebbero ridursi ad ubriacarsi su una panchina, perché forse così capirebbero, ma del resto sarebbe sufficiente che considerassero la disarmante banalità che anche una qualsiasi comitiva di giovani al posto di quei barboni lascerebbe della sporcizia ogni tanto (o ogni spesso, visti certi giovinastri). O anche di non giovani.

Ma quindi, perché cacciarli in quanto barboni?

Perché ancora più banale sarebbe ammettere che la strada ci cammina accanto, è sempre minacciosamente pronta ad accoglierci, è un’antimadre con immense e spaventose braccia.

Una mia amica, affetta da un’angosciante malattia, mi confessò un giorno i suoi due incubi peggiori:

«Il primo è che mia madre mi faceva ricoverare come psichiatrica, perché convinta che la mia è una malattia mentale. Il secondo è di finire per strada: lascio il lavoro perché impossibilitata ad alzarmi anche per settimane di seguito… e se finisco per strada in queste condizioni che faccio? Mi suicido? Sì, Miche’: tra noi che abbiamo questa malattia il tasso di suicidi è altissimo».

Anche noi potremmo scoprirci deboli: i siriani che vengono masticati dalle fauci del freddo sui Balcani, erano impiegati o studenti come te, padri e madri di famiglia come te. Implorano una vita a migliaia di chilometri dalla propria infanzia, ma pochi anni fa uscivano a passeggio per città che ora non sono più.

Pochi anni fa, mica al tempo dei sultani.

***

Ma quel che è davvero troppo, è che il povero, come forse qualsiasi “altro” da noi, in verità sconvolge perché ci ricorda quello che ognuno, in fondo, già è: debole e bisognoso. Tu non sei forse bisognoso di rassicurazioni? Che tua moglie o tuo marito ti ama, che il mutuo continuerai a pagarlo, che le analisi andranno bene? E non hai bisogno di non essere invisibile agli altri? Di non venire a sapere per caso delle cose importanti che gli altri già conoscono, e di essere invitato dagli amici? O che chi ti sta intorno si accorga se hai un problema? E non hai forse bisogno di sentirti utile? Ad esempio, che i tuoi figli si accorgano qualche volta che fatichi per portare loro il pane?

Tanto, per quanto non ci vada a genio, e se pure non sei tanto credente da pensare che siamo a immagine di Dio, sicuramente i barboni sono a immagine e somiglianza di noi. Già: anche qualora non valesse quanto esposto fin qui, un fatto almeno ci unisce, noi che abbiamo una casa e una qualche normalità di vita e un minimo di sicurezze, a loro che una casa non ce l’hanno, che restano esposti a furti e aggressioni e al gelo e alla pioggia: questa cosa è la paura.

Si capisce, paure diverse: loro temono il ripresentarsi dell’inverno, il ripresentarsi delle ferite dei ricordi, le zanne devastanti dei sensi di colpa; temono la recrudescenza di una malattia a cui non saprebbero fare fronte; temono di dover necessitare d’un farmaco. E noi? Noi abbiamo paura di loro, il nostro specchio in cui ci visualizziamo: quel che potremmo diventare perché le fortune sono alterne per tutti, e perché ognuno di noi è fragile.

Abbiamo paura della nostra immagine potenziale.

Se sei uno che va in chiesa, e ascolti di quando Giovanni e Pietro guariscono lo storpio, sarebbe meglio vedere te nello storpio.

Dunque, scavando scavando, e spogliandoci di fronte alla nudità, la loro e la nostra, polverizzando e spazzando via banalità e frasi fatte, ecco la ragione per cui li temiamo: perché per diventare senza-dimora, come già raccontai in precedenza, bastano poche mosse, è facile anche per i principianti.

Concludendo: consideriamo la loro pancia, ma lasciamo inascoltata la nostra, se da loro ci allontana: la carità passa anche dalla testa.

MICHELE CAPITANI

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