Morta l’Utopia rinasce l’Ucronia

di CATERINA VALCHERA ♦

In mezzo a tanta letteratura distopica– un genere molto in voga che è stato e continua ad essere fonte di ispirazione anche cinematografica- di recente Adelphi ha ridato alle stampe Ucronia, il testo-saggio di Emmanuelle Carrère, pubblicato la prima volta nel 1986. Un titolo che immediatamente evoca il consimile Utopia con cui condivide il prefisso privativo: Non-tempo come l’altro è Non-luogo. Di utopie oggi è impossibile parlare nel terreno più praticato in passato, che è quello etico-politico: siamo stati colpiti da una sorta di afasia nei confronti del sogno che disegna idealmente ciò che ancora non è, ma che potrebbe essere perché affonda le radici nella verisimiglianza. Anche sul piano fisico e materiale non c’è luogo della terra ancora abbastanza misterioso o lontano da poter porsi come modello e affascinare, tant’è che l’eson è ormai interplanetario. Tutto è raggiungibile realmente o virtualmente e lo sarà sempre di più grazie all’AI. La posta in gioco è sempre però l’ancestrale bisogno umano di andare oltre, andare avanti, sapere prima, immaginare il futuro, fantasticare sul possibile: un bisogno di fingere per sé altre realtà. Tutta la letteratura fa leva su questo bisogno e tutta la letteratura è finzione: intere macchine narrative, a partire dall’Ottocento, sono state costruite su strategie di sospensione, attese di fatti anche improbabili, modulati su quella particolare struttura degli esseri viventi individuata da Jacques Monod come un determinismo rigoroso implicante libertà quasi totale verso l’esterno: il romanzo classico infatti imita questa struttura dove tutto idealmente si tiene. Ma il racconto ucronico? Anche questo è finzione, una finzione che però necessita del supporto della storia proprio perché lo start alla macchina narrativa è dato dalla domanda What if?, da una prospettiva che non è interrogante e dialogante nei confronti della storia, ma implica l’inaccettabilità degli avvenimenti e l’ammissibilità di versioni altre, modificate o rovesciate. Carrère ci invita a entrare in questo territorio letterario citando Giovanni Papini, il quale” raccomandava l’istituzione di cattedre universitarie di Ignotica, ovvero la Scienza di tutto ciò che non sappiamo”. Un incipit provocatorio ma premonitore, una guida all’intero testo, che si snoda come un gioco altamente intellettuale condotto secondo la strategia del domino: basta far cadere il primo pezzo e tutti gli altri verranno dietro, basta cioè assumere un fatto, un evento (più è significativo e più l’ucronia avrà valore e consistenza ), da cui far partire una linea divergente in modo totale o parziale di avvenimenti fittizi, immaginati però sempre secondo un principio deterministico: il racconto ucronico avrà cioè la sua causalità ferrea anche se paradossale. L’autore, oltre a fornirci un elenco di opere e autori appartenenti a questo filone- tra cui Mc Ewan e Philip Roth-, si concentra su due testi-archetipi, quello del filosofo tardo ottocentesco anticattolico e volterriano Charles Renouvier(1876) e l’altro di Geoffroy-Chateau (1836).Protagonisti nel primo un Ponzio Pilato che ovviamente non lascia processare Cristo, nel secondo Napoleone. Le loro vicende sono rilette alla luce del E se? Il romanzo di Chateau, pubblicato con il titolo Napoleon à la conquête du monde, 1812-1832, riedito poi con quello più noto di Napoleone apocrifo…è mosso – sostiene Carrère- dal desiderio di “sopperire alla storia” troppo dolorosa della sconfitta di Napoleone e del suo sogno di conquista. Chateau immagina per lui au contraire successi strepitosi fino alla presa di Pietroburgo, con il corollario letterario ( stupendo!) di una Mme de Stael , sua storica acerrima nemica, che ne fa l’apologia nel trattato Dell’Inghilterra e di un Walter Scott che scrive su Richelieu, in un’Europa interamente sottomessa al grande còrso con connessa distruzione di Ajaccio, perché “ Napoleone non era uomo disposto a venire dopo chicchessia e perché nessun altro vi possa nascere”. A proposito dell’impianto ucronico, Carrère maliziosamente commenta: “un’Ucronia oleografica […]talora noiosa quanto un manuale di storia”. Detto così potrebbe sembrare che si tratti di parodia della storiografia accademica, ma così non è: non c’è rovesciamento parodistico, i ricchi restano tali e i poveri anche, così i potenti e i sudditi. Di certo è una riscrittura fantasmatica, non fantascientifica perché la fantascienza guarda al futuro e l’ucronia al passato, ma una riscrittura che esige una conoscenza ferrea della storia vera perché il lettore non si perda nelle sue distorsioni e stravolgimenti e possa apprezzarli in pieno. Senza il continuo riferimento all’accaduto storico, con tutte le sue implicazioni ed effetti collaterali, la lettura di un romanzo ucronico classico non sarebbe possibile. Si tratta di entrare contemporaneamente in due universi paralleli e con una concentrazione più intellettuale che emotiva. Mi chiedo come mai Adelphi, in un momento di monomania culturale del romanzo abbia fatto questa scelta editoriale, riproponendo un testo critico datato e su una narrativa poco nota, che era stata anticipata dal famoso pensiero ( non a caso in forma anacolutica) di Pascal “Il naso di Cleopatra, se fosse stato più corto, tutta la faccia della terra sarebbe cambiata”. La risposta forse è in un passaggio del testo in cui Carrère indica la chiave di volta della narrativa ucronica nella “disperazione”, nella coscienza dell’irrevocabilità della Storia; una sofferenza però- si badi bene- non di origine esistenzialistica, ma originata dall’interrogativo “Davvero non era possibile altra scelta? In un tempo terribile come quello che stiamo vivendo, visto che la storia non si può cambiare, la si potrebbe almeno screditare attraverso una mistificazione  che ne ripudi tutto il negativo, spargendo dubbi anche sulle fonti cosiddette verificate. Se è vero che neppure Dio può far sì che non sia stato ciò che è stato, è altresì vero che può farlo il narratore demiurgo, nella fattispecie quello ucronico, dio dell’immaginario e del fittizio, eroe che sfida la realtà. D’altro canto – ci ricorda Carrère- anche la storia è un’arte del racconto e non una scienza esatta e basta poco perché certi avvenimenti non avvengano. Poi, esagerando fino al dubbio ontologico, “Chi ci assicura che la storia universale degli uomini sia quella conosciuta e non sia un’altra tutta segreta? ” In fondo anche la storia ha rivelato i suoi trompe l’oeil, le sue disinformazioni audaci, come il taglio della foto di Trockij accanto a Lenin. L’Ucronia allora si può in sintesi definire come arte narrativa della biforcazione storica scelta tra le tante storie compossibili, tra la moltitudine infinita di storie che, secondo Veyne, lo storico stesso avverte attorno a sé mentre racconta la sua storia. A questo punto sento odor di Pirandello, e poi dei sentieri biforcuti di Umberto Eco, del poliromanzo di Italo Calvino, ma soprattutto mi viene il sospetto- confermato dalle date – che Carrère, quando scrisse il saggio nel 1986, sia stato almeno in parte suggestionato dallo sperimentalismo dell’OULIPO parigino degli anni anni Ottanta, dominato dalle avventure linguistico-culturali di Raymond Queneau e dal suo gusto per la scrittura estrosa e paradossale o dalla Patafisica come scienza semiseria delle soluzioni immaginarie e delle leggi che regolano la eccezioni. Erano tempi in cui ci si potevano permettere aberrazioni dalla realtà che si traducevano in divertissements e avventure intellettuali prodigiose. Ora le aberrazioni- irrevocabilmente tragiche- sono nella realtà, disperatamente sotto i nostri occhi.

CATERINA VALCHERA

CLICK PER HOMEPAGE