ANNINA, PROFUMO DI CAFFÈ

di CLAUDIA SFILLI

La trovai una mattina, all’ora del caffè, dietro al banco: un raggio di sole nel grigiore dei miei giorni tutti uguali.

-Buongiorno, desidera? – mi disse.

In quel periodo ero stanco già alle otto e mezzo del mattino e a tutto pensavo fuorché all’amore.

Amore: lo vedevo nei film, lo trovavo nei romanzi, lo scoprivo come causa di molti problemi intorno a me per la sua assenza o per la sua prepotente presenza.  Ma io non lo vivevo come gli altri. Io amavo a modo mio, senza l’esigenza di essere contraccambiato: amavo il caffè, amavo guardare la televisione di sera, mangiando noccioline, amavo guardare il mare per ore e ore con qualsiasi tempo, amavo la farmacista sotto casa, sempre perfetta nel consigliarmi i rimedi ai miei piccoli disturbi, e qualche attrice cinematografica. Era amore vero quello, sì, perché mi  dava piacere e mi appagava, senza però impormi la sofferenza della condivisione.

Ero sempre stato solo.

Oggi si usa la parola single che dà alla solitudine l’aspetto di una condizione privilegiata, ma non lo è affatto. Vivere soli è difficile perché malinconia e depressione sono in costante agguato. Un rimedio per salvarsi, però, c’è: sfruttare le peculiarità della solitudine. Questo bisogna fare. Mi spiego: chi è single, a fine giornata, oltre che della giacca, della borsa e delle scarpe, si libera anche della maschera di persona soddisfatta che si era imposta nel mostrarsi agli altri. Chi vive solo apre la porta, la sera, e trova la casa buia, silenziosa, che odora di chiuso e non si rianima nemmeno dopo il suo arrivo. Accende tutte le luci e poi la radio o la televisione, parla un po’ da solo, magari canta per fare confusione, ma la sensazione di silenzio non se ne va. Il malessere inizia a crescere e può soffocare, certo che può soffocare. Ma… ci sono i vantaggi della singletudine che devono assolutamente essere sfruttai. E ce ne  sono! Eccome. Se sei solo puoi fare sempre quello che vuoi. Chi ti obbliga a parlare, se non ne hai voglia? Nessuno ti innervosisce, nessuno ti mette in discussione, nessuno ti giudica, né ti chiede niente. Pace! E se hai bisogno di evadere un poco per tirarti su, nessuno te lo impedisce, né si intromette nei tuoi programmi. Per questo il single non è molto disponibile a inviti di amici e conoscenti. Preferisce sempre vedersela solo con sé stesso.

Per rendere la singletudine piacevole, dunque, è importante saperne sfruttare i vantaggi per annullare gli svantaggi. Lo sapevo bene, io, come lo sanno tutti coloro che vivono soli; passare dalla teoria alla pratica, però…

Ma torno a quel giorno. Entrando come ogni mattina nel bar “La bottega del caffè”,  accolto dal solito profumo, provai qualcosa di simile a una scossa elettrica. Dietro al banco, fresca, sorridente, gentile, al posto di Egidio, vecchio insolente, brutto come la fame, c’era lei. Gli era venuto un malore, dicevano, e aveva preso una dipendente, così ora noi clienti potevamo bere il nostro caffè, senza il fastidio della sua presenza. Certo, si sta parlando del più buon caffè della città, eh? Altrimenti, perché mai tanta clientela in quel posto?

La giovane, dietro il sontuoso banco del vecchio locale ricco di storia, mi sembrò inizialmente un po’ smarrita. Piccola, con i suoi bei capelli neri tagliati dritti sopra le spalle e gli occhi scuri, pungenti, si illuminò di colpo di un sorriso scintillante, straordinario, come non ne avevo mai visti in vita mia. Ero appena uscito dal mio triste appartamento, ne avevo ancora la pesante atmosfera appiccicata addosso e stavo pensando al lavoro d’ufficio che mi aspettava.

-Buongiorno, desidera?

Le sue prime parole mi giunsero mescolate al rumore del macinacaffè: un attimo tanto bello da stordirmi. La mia vita stava per avere una svolta decisiva.

-Buongiorno, signorina. Piacere di conoscerla. Vorrei un buon caffè.

Per un momento temetti che la mancanza di Egidio potesse comportare una perdita in qualità del nettare versato nella tazzina. Non fu così. O forse, da quel momento in poi, non fui più in grado di cogliere l’eventuale differenza. E poi, che importanza avrebbe avuto, ormai?

-Le farò un ottimo caffè, signor…?

-Santo…

-Un ottimo caffè, signor Santo.

-Niente signor, la prego…

-Bene, Santo.

-E lei, come si chiama?

-Io sono Annina.

-Piacere.

-Piacere.

Il profumo si fece più forte, riempì l’aria e la mia mente si liberò di ogni nube.

Quella giovane donna aveva già preso dimestichezza con il lavoro e cominciò a muoversi sicura. Sorseggiando il caffè, la guardavo sorridere e rispondere alle battute dei clienti. Lo faceva dolcemente, ma anche con fermezza, quando era necessario: sempre in maniera opportuna. Sempre nella giusta misura.

Iniziai a immaginarmela fuori dal bar. Sì, la vedevo nella mia casa da una stanza all’altra a cancellare la solitudine… e governare su tutto. Anche su di me, ma sì, perché no? Un angelo del genere poteva fare di me quel che voleva. I miei amici si lamentavano della presenza delle loro mogli? Io sognavo di essere dominato da Annina. Che meravigliosa condizione!

Ormai passavo il mio tempo  al bar. “La bottega del caffè” diventò il mio luogo fisso. Non  volevo frequentare più nessuno, non volevo che altri incontri mi allontanassero

dalla sola cosa importante: Annina. Era come se il distrarmi da quell’unico vero interesse significasse perderla, per ripiombare nel nulla di prima.

-Buon lavoro, Santo.

-Spero che non si affatichi troppo, oggi.

-Mi auguro che non soffra troppo il caldo.

E io rispondevo con entusiasmo, cercando frasi sempre nuove.

-Oh, Annina, le auguro una giornata… scoppiettante di gioia.

-Spero che il film che vedrà stasera sia degno dei suoi begli occhi.

-Il suo caffè mi manda in visibilio.

Sì, facevo la figura dello sciocco, è vero. Le persone intorno ridacchiavano, ma Annina sorrideva felice e io non desideravo altro.

L’amore dà forza e spinge a dare il meglio di sé, non è vero? E così piano piano ho incominciato a vestirmi in maniera più – come dire? – moderna: magliette colorate e anche calzoni più stretti, che valorizzassero un po’ il mio fisico non ancora “da buttare”. Avevo pure cambiato taglio di capelli. La mia maledetta timidezza non veniva superata con quei miei cambiamenti, no, ma mi sentivo un po’ più adatto agli incontri con Annina e ai nostri dolci scambi di battute.

Lei era sempre la stessa, invece, giorno dopo giorno, con la giacchetta ora rossa, ora blu. Notavo, però, che mi sorrideva con sempre maggior calore e mi lanciava dei piccolissimi gesti di intesa, come a voler dire “Santo, io e te ci capiamo… c’è un futuro per noi…

Come entravo nel bar lei lasciava ogni altra cosa e preparava il mio caffè, così quell’aroma era diventato parte di noi, della nostra storia. Perché anche lei, certamente, viveva quell’incantesimo. Anche lei, certamente, non vedeva altro che me, nella sua vita.

Le mie notti insonni non erano più un supplizio, no, perché i pensieri, prima di addormentarmi, ora erano belli e si trasformavano in sogni colorati e leggeri dove Annina mi correva incontro, mi abbracciava, mi baciava, mi accarezzava… Di giorno, poi, sognavo a occhi aperti e la vedevo pulire la cucina, lucidare i vetri delle finestre e stirare, sempre con il suo bel sorriso, felice di non essere più la dipendente di quel bestione di Egidio, bensì mia moglie. La vedevo preparare il caffè la mattina e portarmelo a letto. Lo sentivo, quel profumo, nella mia stanza, quando indugiavo fra le lenzuola con l’animo sospeso di chi sente imminente l’avvento di qualcosa di importante.

Dopo tutto quel mio fantasticare, quando entravo nel bar e vedevo la mia Annina, mi pareva di aver vissuto davvero quei momenti e di avere mille cose in comune con lei, anche se le frasi fra noi erano sempre le stesse.

-Come va?

-Benissimo, Santo, e lei.

-Una meraviglia!

Un giorno, finalmente, si realizzò nella nostra storia il passo avanti che tanto desideravo.

Ero andato al cimitero a portare i fiori alla mia povera mamma; nonostante il mio cambiamento di vita, quell’impegno era rimasto. Vedova dopo tre anni di matrimonio, mia madre mi aveva allevato da sola, con forza e amore. Un amore, a dire il vero, ben nascosto dietro il suo fare austero, i suoi continui rimproveri, le sue bacchettate ad ogni mio minimo sgarro. Non vali niente, figlio mio, mi diceva. Un amore che avevo cercato tanto da piccolo e da ragazzo e poi da adulto e trovato, forse, nei suoi ultimi tempi, dentro le sue lacrime di gratitudine per la dedizione con cui la accudivo.

Prima di incontrare Annina, in ogni donna vedevo qualcosa di mia madre: il modo di ridere o di rivolgere le domande o di trattare tutto e tutti con un velato disprezzo.

Grazie ad Annina quella specie di maleficio si era fortunatamente dissolto e anche andare al cimitero era diventato un’altra cosa: non lo facevo più nel timore di essere in qualche modo punito per aver mancato ai miei doveri di figlio, bensì per consuetudine, come la gran parte delle persone. Una voce dentro mi spronava, ogni giorno: Fai come gli altri! Via, via… bisogna cambiare, mi diceva. Cerca la felicità, niente altro! E quel giorno mi ero detto anche di più: Basta con questo ossequio verso chi mi ha fatto solo soffrire!

Proprio quel giorno incontrai Annina fuori dal cimitero, finalmente senza la divisa imposta da Egidio e dolcemente fasciata da un abitino azzurro pieno di fiorellini gialli. Fui pervaso da una meravigliosa euforia, a me assolutamente sconosciuta e non esitai a chiamarla.

Lei sorrise e cominciò la nostra storia. Un primo appuntamento davanti ai giardini per una passeggiata, poi un altro per un aperitivo, poi un altro e un altro… sempre più frequenti: cinema, ristoranti… e poi noi. Noi insieme, ovunque. Noi sull’altare e nella casa che da sempre la stava aspettando per animarsi di luce e di felicità.

***

Annina stava preparando il caffè e il suo profumo aveva già riempito la cucina. Rispondeva alle mie domande con altre domande. Ma perché mi chiedi questo? Cosa c’è che non va? diceva. Sospirava, insofferente. Sentivo nell’aria la sua tensione. Ma continuavo.

– Dove sei stata questa mattina?

– A fare la spesa, ti ho detto.

– Non è vero, Vincenzo non ti ha vista.

– Vincenzo deve tagliare il prosciutto, non ha tempo di vedere chi c’è e chi non c’è nel negozio.

-No, non hai fatto la spesa. Dov’eri?

-Santo, sono stanca. Smettila.

Era stanca di me.

Qualcosa, allora, è successo nella mia mente. Il passato, come una valanga, mi è piombato addosso. Mia madre, la solitudine, il silenzio, la frustrazione di non saper essere felice… tutto mi ha travolto. Annina lo aveva cancellato, ma ora stava tornando. Non potevo accettarlo.

Avevo visto la sua valigia: era sotto il letto. Perché era sotto il letto e non sopra l’armadio, come sempre?

Forse c’era un altro uomo nella sua vita. Forse voleva scappare con lui.

Mi stava scoppiando la testa. La vista era offuscata. Sicuramente avevo la febbre.

Non potevo permettere che il passato tornasse.

Annina ha versato il caffè nelle tazzine e ha posato la zuccheriera fra lei e me, senza alzare lo sguardo.

Nella mia testa un unico pensiero: Annina, Annina… non puoi tradirmi. Annina sei solo mia. Sono difficile, lo so, ma devi capirmi. Ti ho dato la mia casa, Annina. Ti ho dato tutto.

Era seduta davanti a me e non alzava gli occhi. Non voleva guardarmi. Perché non voleva guardarmi? Girava il cucchiaino nella tazzina e soffiava delicatamente, per raffreddare il caffè fumante. Forse piangeva. Quanto l’ho fatta piangere! Povera Annina: non mi aveva mai chiesto nulla. Io invece volevo volevo volevo… non so nemmeno io cosa. Nella mia testa discorsi e discorsi, sempre quelli:

Annina, devi essere felice: non fare quella faccia triste. Non uscire con le amiche, stai bene qui, no? Annina non sorridere agli altri: non voglio sentirti lontana. Ti ho dato una bella vita, Annina, perché piangi tanto? Sono un uomo, non posso essere diverso da così.

– Non ce la faccio più, Santo…

Nella mente, come flash, le immagini del bar “Caffè”. Annina dietro al banco che sorride felice, con quella specie di divisa addosso e i suoi gesti gentili. La sua bocca: un invito all’amore! Non è andata come volevo, Annina.

Ora sorseggiava il caffè davanti a me, seria, fissando la zuccheriera. Quanto eri bella Annina e quanto bella sei ancora. Forse ancor di più. Ma perché non mi guardi, Annina? Annina, Annina… mia malattia!

Mi bruciavano le tempie, avevo l’affanno.

Annina ha detto qualcosa. Parole che non sono riuscito a capire bene: non ti amo più… forse. Me ne vado… e ha appoggiato la tazzina sul piattino, delicatamente, come sempre, perché sapeva quanto fastidio mi danno i rumori. Le cose intorno a me hanno incominciato a confondersi: a perdersi l’una nell’altra e Annina con loro.

Non vali niente, figlio mio.

Mi sono alzato e mi sono messo davanti a lei. Il cuore batteva all’impazzata.

Finalmente mi ha guardato. C’era paura nei suoi occhi, ma ormai non potevo più fermarmi.

Com’è stato facile, Annina. Eri così piccola. Non hai smesso di guardarmi mentre il mio amore ti stringeva, ti stringeva, fino a non farti respirare. Anch’io non respiravo, sai?

Nella testa una voce lontana: Non vali niente, figlio mio.

CLAUDIA SFILLI

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