“I RACCONTI DEI SOPRAVVISSUTI” DI MICHELE CAPITANI – LA TERRA

di MICHELE CAPITANI

  Aprile, il verde scintilla sulle colline del Pesarese. Percorriamo una stradina di fondovalle diretti a una frazione, all’inizio del Montefeltro.  

  Mi sono aggregato a un amico di Sant’Egidio che doveva venire quassù per recuperare e riportare a casa Cornelia, una donna nigeriana che ha terminato il percorso di recupero dall’alcol in una comunità qui vicino: dopo tante vicissitudini (che già narrai) si era ridotta a fare la barbona alcolista, ma adesso è di nuovo bella e in salute, tutti l’hanno salutata con calore mentre se ne andava, e ha la mente lucida almeno quanto il suo sguardo.

  Ora stiamo facendo una deviazione: già che ci sono, voglio andare a trovare la famiglia del mio vecchio amico Celestine, nigeriani anch’essi (ma è un caso). Io e la mia famiglia li conosciamo da almeno quindici anni; alcuni anni fa si sono trasferiti quassù perché lui ha trovato lavoro in una fabbrica.

  Nel corso del tempo ci sono sempre venuti a trovare loro, a casa dei miei, deviando ogni volta che sono dovuti calare a Roma per faccende burocratiche, ma stavolta non posso non approfittarne io e ricambiare: si tratta di una digressione di venti minuti, e non potremo stare comunque molto: sono già le quattro e stasera dobbiamo tornare giù.

  Arriviamo a casa loro, saliamo, entriamo: esultante e affettuosa accoglienza di Celestine e della moglie Melanie e delle figlie: ogni volta che ci vediamo è come se non ci credessero!

  Ma quando dopo di noi entra Cornelia… Sorpresa: si conoscono anche loro, incredibile!

  Si conoscono dall’epoca in cui abitavano a Ladispoli, col resto della comunità nigeriana. Chissà se c’era anche Cornelia quel giorno che io e mia madre facemmo da padrini di battesimo ad Anita, la terza figlia di Celestine.

  Anche da queste parti di nigeriani ce ne sono tanti, con il loro alimentari, la messa domenicale di ritrovo, e la riunione periodica; ormai dovremo considerare anche loro, assieme ai napoletani e i cinesi, come i popoli che puoi trovare in ogni angolo del globo!

  Mi viene una strana riflessione: abbiamo percorso centinaia di chilometri, e visto scorrere infinite case ai lati delle strade, e proprio in questa, uguale a tutte, vive qualcuno che conosciamo sia io sia la nostra ospite. Non so, è come una piccola vertigine.

  Melanie si mette a preparare l’inyame con un ottimo sugo di carne; certo è un orario illogico per mangiare, e ci vorrà almeno mezz’ora per mettersi in tavola, ma chi se ne frega: l’importante è festeggiare, l’importante è offrire qualcosa, l’importante è sancire la gioia. Sarà che anch’io spesso non porto l’orologio, ma a volte credo che gli africani siano europei evoluti!

  Manca Carl, il maschio, quasi maggiorenne, che è a Pesaro con gli amici. Vallo a fermare! Sappiamo che è un adolescente ribelle (quale adolescente non lo è?), che ama solo giocare a calcio, almeno quanto odia la scuola. Ci sono invece Amaka, quindici anni (che nessuno chiama più Sandra, vivaddio), Anita undici, Debora otto: tutte e tre sono alte e snelle, silenziose e sorridenti, e dagli enormi occhi nerissimi e curiosi.

  Chiedo ad Amaka della scuola: lei è al primo linguistico, nessun problema con inglese, francese e italiano, un po’ di più per latino, mentre il tedesco non le piace per niente. Ma si parla di tante cose: del lavoro, di come si vive qui, di cosa ci facciamo noi qui, oggi, e della comunità nigeriana e dei diversi gruppi etnici che si riuniscono anche separatamente, e ridiamo di certi loro connazionali che si atteggiano: uno che si dichiara avvocato, un altro che si mette un copricapo da ras come al Paese non gli verrebbe permesso di fare, eccetera.

  Celestine poi mi dice che il retro dà su un piccolo lotto: il padrone di casa, che è «una brava persona», gli ha detto che può pure coltivarselo, tanto qui non si riesce ad affittare nulla, anche lo spazio per negozi al piano terra di questa palazzina è sfitto da almeno due anni.

  Mi accompagna, andiamo dietro, e la scena mi impressiona e mi emoziona: vedere Celestine in mezzo a un orto, a una terra, qualcosa che per sua natura richiede stabilità e tempo, e si deve lavorare con pazienza e attendere poi che frutti…

***

  Mi emoziono perché io Celestine lo conobbi quando abitavo ancora coi miei, e lui girava perennemente fra Roma, Ladispoli e Civitavecchia, facendo il vucumprà porta a porta con un borsone pachidermico. Un giorno lo facemmo entrare per preparargli un panino, parlava un italiano molto faticoso e approssimativo, e col tempo ne nacque un’amicizia interfamiliare. Ogni volta che veniva nella nostra città, sostava sempre da noi e da una signora di un quartiere vicino, mentre il suo italiano migliorava pochino, e cercava sempre un lavoro stabile.

  C’era sempre qualcosa di nomadico nella sua vita, suo malgrado: quando cambiò un paio di lavori a Roma, quando fece venire dall’Africa moglie e due figli (che in Italia sarebbero diventati quattro) facendoli però passare da Israele, Dio solo sa per quali convenienze burocratiche, e poi nel periodo che anche la moglie si mise a vendere biancheria in giro poiché soldi non ne entravano. E quando vennero infine quassù perché il fratello gli aveva rimediato un lavoro, che poi dovette lasciare e trovarsi quello attuale, che sembra più sicuro.

  Per anni Celestine ha lavorato, camminato, spostato borsoni, pesi e famiglia, e piantato figli in tre continenti. Ora, al vedermelo di spalle mentre mi indica le cipolle e le patate nell’orto, assisto a un momento storico, un’immagine epocale: se la rapportiamo a scala familiare è una scena di portata pari all’orma sulla Luna, alla prima incisione su una tavoletta d’argilla: se, in un luogo, un uomo pianta, vuol dire che vede sé stesso proprio lì, finalmente.

  È una scena che mi sbigottisce, che mi rovescia l’anima al di fuori: finalmente vedo Celestine piantato in un luogo invece che errare indefinitamente in un ciclo di inafferrabili altrove.

  Dall’accontentarsi di ogni tetto al custodire il proprio tetto per i propri cari; dall’accettare un panino a offrire una pietanza agli ospiti; dal trascinarsi il borsone di Sisifo a fare progetti sulla parte ancora da seminare e su quanto tempo ci vorrà: è la rivoluzione copernicana di un sistema al centro del quale si è finalmente piantato lui.

  Significa che si sa infisso egli stesso su quella terra, e i suoi piedi si muoveranno pure, ma è un particolare: in realtà non li avverte differenti dalle radici delle piante.

  E io vado orgoglioso di avere amici come lui.

MICHELE CAPITANI

CLICK PER HOMEPAGE