La rivincita dei dilettanti: benvenuti nell’era dei contenuti

di PATRIZIO PAOLINELLI

Mai più si dica: dilettanti allo sbaraglio. E perché? Perché l’era della comunicazione volge al tramonto e nasce l’era dei contenuti. Almeno è così per Kate Eichhorn, massmediologa statunitense di cui è stato tradotto in Italia un suo libro: Content. L’industria culturale nell’era digitale, (Einaudi, Torino, 2023, pagg. 134).

La Eichhorn sostiene che i contenuti, di cui tanto si parla quando si affronta la produzione di testi sul Web, non necessariamente corrispondono al concetto di informazione perché non prevedono alcun aumento di conoscenza del destinatario. Il che, come si può facilmente intuire, è una benedizione per chi ha poco o nulla da dire. E allora che cosa è importante per un contenuto? La sua circolazione in Rete indipendentemente dal fatto che trasmetta un messaggio o meno. Ecco come si realizza il passaggio dall’era della comunicazione a quella dei contenuti.

La tesi può sembrare un po’ estrema, ma bisogna riconoscere che Eichhorn è convincente e il suo libro dà davvero da pensare. Proviamo a chiederci: perché “l’uovo di Instagram”, una semplice fotografia di un uovo postata nel 2019, ha raggiunto 50 milioni di like? Eppure in sé e per sé era priva di significato. Il suo successo è stato decretato dall’essere visto e scambiato in Rete in grande misura.

Giungiamo così alla più importante osservazione della Eichhorn: la quantità di like, visualizzazioni e follower ha la meglio sulla qualità del prodotto culturale. Il problema è che l’erosione della qualità sta investendo anche vecchi media come il libro. Un caso esemplare è lo straordinario successo della canadese Rupi Kaur, autrice di stringate e mediocri poesie istantanee pubblicate su Instagram (e poi su carta). Un successo ottenuto scavalcando la critica, le grandi case editrici e i circoli culturali. Anzi, sostiene la Eichhorn: ieri le recensioni favorevoli e i premi erano indispensabili per entrare a far parte della comunità letteraria, oggi sono “rendimenti decrescenti”. È così che cade la barriera tra professionisti e dilettanti. Basta frequentare un po’ i social network per rendersene conto.

Per la Eichhorn il trionfo della quantità sulla qualità è dovuto essenzialmente alla completa mercificazione di Internet. Ai padroni delle grandi piattaforme non interessa la bontà del prodotto ma il fatturato estratto dai dati forniti dagli utenti della Rete. Per questo motivo i poeti istantanei di Instagram devono essere per prima cosa imprenditori di sé stessi e fare di tutto per attrarre visitatori. Perciò bisogna essere facilmente comprendibili, non richiedere al lettore di spremersi le meningi, fare massa critica.

Lo stesso triste destino investe il giornalismo. La Rete pullula di articoli acchiappaclick. Ossia pezzi di bassa fattura pubblicati al solo scopo di far visualizzare la pubblicità e i cui autori sono per lo più pagati pochissimo. La conclusione politica della Eichhorn è che l’industria dei contenuti rappresenta “la massima espressione del neoliberismo.” Di conseguenza a fianco di un portentoso progresso tecnologico assistiamo a un altrettanto portentoso regresso culturale.

A dire il vero non siamo dinanzi a una novità, ma a una tradizione. La tradizione della civiltà capitalistica. Per rendersene conto basta riprendere in mano classici della sociologia critica statunitense come Conoscere per che fare? di Robert S. Lynd (prima edizione 1939). Il quale già ai suoi tempi notava che ai mutamenti introdotti dall’avanzamento della scienza e della tecnologia non necessariamente corrispondevano avanzamenti nella società. Anzi, si potevano osservare irrigidimenti conservatori e persino regressi nella vita di relazione tra individui e nei rapporti tra gruppi. In poche parole, se le tecnologie sono al servizio del profitto l’impoverimento della cultura è un destino segnato. E certo non fanno eccezione le tecnologie della comunicazione e dell’informazione. Anzi.

PATRIZIO PAOLINELLI

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