CORPO CONTRO di Daniela Pericone

a cura di PAOLA ANGELONI ♦

La poesia di Daniela Pericone, Corpo contro, non pone dubbi sulla concettualità filosofica che regna nel suo contesto poetico: è la Magna Grecia. Mi richiama la mimesis e la metessi di Platone e il rapporto delle cose con le idee: le cose sono partecipazione/imitazione delle idee.

Con una fenomenale figura di scambio, la sua alternativa poetica insinua punte critiche nell’immagine-antitesi-paradosso del gatto di Schrödinger, esperimento tutto mentale con implicazioni paradossali della quantistica:

ORA QUI CI SONO” – pag. 63

Ora qui ci sono

E non ci sono…

Sono io l’esperimento

O tu che osservi eppure

Non esisti.

Certo, permane il sostrato “materiale” che è sempre radice in corpo contro, il sostrato che è la radice della poesia, perché il poetare è codificare ogni ricorso al significante anche con la netta personificazione della poetessa Daniela:

… qui ora respiro, la polpa dentro il torace si arrossa si espande e si contrae. Accado, nessuno lo sa.

Apprezzo le figure retoriche di questi versi, il passaggio dal corpo alla parola, questa sua replica dallo stato di fatto ad un livello profondo e pur sempre corporeo.

“gli occhi fissi su un punto

Troppo vasto, le ossa ripiegate

L’una sull’altra…

Ti ostini a spargere semi in aria

Come una gioia inutile.”   – pag. 23.

Istinto, esistenza/corpo contro si risolvono nella compresenza e lotta di materia ed energia del profondo nelle quali si trova la tragedia classica, non vi sono esperimenti di fuga, né le retoriche dei mass media, né ideologie, né maschilismo, ma rimane solo l’antico significato della parola “tragedia”: Con Aristotele, l’arte – imitazione di ciò che può essere (verosimile), con la funzione purificatrice delle passioni che rimangono “sotto il gioco prediletto degli atomi” e la capacità di affrontarlo senza illusione.

“Qualcuno ascolta o nessuno –

C’è una forza impareggiabile nella solitudine”.

La poetessa ama il climax, con una variabile di intensità dei versi che ascende verso una “musica” che tutti noi abbiamo in comune, la sinfonia cosmica.

Lo schema triadico è riassumibile così:

  • La gioia inutile di fronte all’universo, il senso “greco”.
  • Il corpo contro e la ricerca della parola,
  • L’antico e il fuoco placano il materialismo degli atomi, con la solitudine o è la poesia, la musica, che spezza il materialismo cosmico.

Nelle rime vi sono figure della ricorrenza quali anafore, ripetizioni e riprese con una poetica che conosce la concezione strategica del linguaggio, che investiga se stesso con la sua doppiezza, la sua contraddizione.

Torniamo al tema paradossale dell’ambi-valenza tra gioia e solitudine, che lascia vivere un rapporto tensionale: vedo e non-vedo, conosco e non-conosco ai quali il corpo, come significante ambivalente e polisemico si presta nel canto; nella poesia il corpo può riciclare simboli o addirittura abolirli con una razionalità che elimina ogni finzione. Ci accomuna in lei un fenomeno emotivo grande quando la coscienza si imbatte nella precarietà dell’essere:

“quanto lavorio… controvento… per vedere le radici… voltarsi verso la morte con leggerezza… farsi concavi e smisurati per il vuoto…”

Se c’è una forma di temperanza nei versi la ritroviamo nelle meditate espressioni, in equilibri tra il nascondimento e l’allusione, come se il fondamento del testo fosse un senso tragico. Del resto, Daniela Pericone ha vagabondato dai “millenni” della Magna Grecia alle luci della città di Torino, in cui vive ed emergono dubbi, sospensioni che si fermano su soglie rivelatrici. È sua la condizione umana prigioniera del suo destino, è sua la ricerca della parola che definisca il corpo che rema contro, all’opposto del suo istinto all’esistenza. “Passano i venti, le polveri astrali, gli anni luce” – pag. 27.

È la tragedia che si rinnova con un pathos controllato ed una superiore accettazione:

“Per una sorta di onnipotenza

Rinunciare a chiedere…

Ogni cosa diviene sottile

Elementare – somiglia

Appena a una fede

La tua migliore illusione” – pag. 21.

Da una parte la nostra debolezza, la finitudine, dall’altra l’istinto, la natura:

“Ma noi che senza motivo

Scambiamo natura e ragione…

Un istinto che forse non ci appartiene

Ancora apre fuochi, accoglie” –  pag. 22.

Rimane un ordine del linguaggio che sembra non risentire degli urti del mondo contemporaneo, dei mutamenti della tecnica, dato che il suo materialismo-atomistico rimane in un mondo arcaico, “astrale”.

La sua parola mediatrice è un fermarsi sulla soglia dello svelamento, come se non si potesse dire oltre il “contro”. In tutta la raccolta permane la personalizzazione dei versi, non vi sono parole vuote di senso, non si esce dall’orizzonte predisposto, dall’equilibrio e dal ritmo espressivo. È a mio giudizio una forte occasione poetica.

Nella quinta sezione: ”Il Turbamento” i versi di Daniela Pericone si confrontano con l’opera caravaggesca e pongono il proprio focus sul rapporto/antitesi tra luce e ombra: “Non si può vedere la luce senza l’ombra, non si può percepire il silenzio senza il rumore, non si può raggiungere la saggezza senza la follia” (C. G. Jung).

La luce si apprezza, perché c’è la sua assenza: il buio e viceversa, l’ombra è qualcosa che esiste solo in presenza della luce, un corpo immerso nel buio non ha parti oscure, non ha “ombra”. Luce e ombra sono, quindi, considerate metafora del Bene e del Male,  del Positivo e del Negativo. Le nostre mancanze sono la nostra ombra, dobbiamo affrontare il nostro negativo, accettare che il male può essere in noi, accettare la nostra natura duale.

Nella poesia: “In guerra di lume e ombra” pag. 75, è chiaro il riferimento al dipinto caravaggesco San Giovanni Battista, dove la poetessa definisce la luce un inganno, determinato dall’obliquo raggio di luce che “illumina” la figura del Battista, anch’essa obliqua, che ha il suo doppio nel bastone che il santo sorregge. L’ombra nasconde le rovine, la parte oscura è negata allo sguardo. Come sempre, nell’opera di Caravaggio sono le mani che determinano la cesura tra luce e ombra. Nella firma stilistica la poetessa sottolinea il movimento delle mani che hanno la funzione di strutturare dinamicamente e comunicare emozioni, orrori e sentimenti. Le mani, dunque, rientrano nel disegno dell’azione rappresentata per farsi strumento visivo o poetico della narrazione dell’opera.

Nella poesia: “La grandezza del dubbio” pag. 86, il riferimento è al dipinto La Conversione di San Matteo,  dove il dialogo fra Cristo e Matteo e la sua chiamata sono mediati dalla luce divina che colpisce l’ignaro Matteo che manifesta il proprio dubbio attraverso il tremore della mano rivolta verso di sé. Nell’ombra “la materia refrattaria alla luce”, le mani sono di coloro che non sono disposti ad accogliere la chiamata e rimangono refrattari alla stessa.

Come la luce, di derivazione divina, riesce a dissipare le tenebre e le ombre, consentendoci la visione della realtà, così la “parola”, chiaro riferimento al Logos e al Verbo, riesce a penetrare al fondo dell’essere, mettendo a nudo la sua inconsistenza e precarietà.

PAOLA ANGELONI

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