L’ULTIMA DELLE GRANDI NARRAZIONI Lo sport italiano dopo Parigi (II)
di NICOLA R. PORRO ♦
In un precedente articolo (Spaziolibero del 26 agosto us) ho proposto una lettura d’insieme delle Olimpiadi di Parigi cercando in particolare di evidenziare elementi di continuità e aspetti di discontinuità nelle più che onorevoli prestazioni degli atleti italiani. Una riflessione sul tema quanto mai convincente e documentata è stata proposta da una valente statistica come Linda Laura Sabbadini. [1] Sabbadini si è concentrata su alcuni aspetti peculiari e particolarmente significativi della prestazione italiana ai Giochi olimpici e in primis sulla performance delle atlete azzurre, vincitrici di sette delle dodici medaglie d’oro italiane (una di queste è stata conquistata dalla coppia mista composta da Caterina Banti e Ruggero Tita nella specialità velica denominata Nacra 17). Nell’insieme, come si è già ricordato in un precedente articolo, i nostri atleti conquistano il nono posto nel medagliere per nazioni e si aggiudicano il 4,1% del totale delle medaglie. Quest’ultimo costituisce un dato di grande prestigio, secondo soltanto a quello conseguito nel lontano 1960, quando fu Roma a ospitare le Olimpiadi. Sfruttando, al meglio il fattore campo gli azzurri si classificarono al terzo posto nel medagliere per nazioni (preceduti da Usa e Urss). Conquistarono trentasei medaglie (tredici d’oro, dieci d’argento e tredici di bronzo), pari al 7.8% di quelle allora in palio. Si trattò però di un successo quasi interamente al maschile: le donne non vinsero che due medaglie di bronzo. Questi dati sono utili a cogliere un aspetto cruciale della riflessione. Roma 1960 sancì infatti il ritorno dell’Italia nella élite agonistica mondiale con un risultato che però esaltava quasi esclusivamente campioni maschi e premiava discipline in cui vantavamo già una tradizione competitiva di tutto rispetto. Il risultato rappresentò perciò un mix composto dagli exploit di autentici talenti, di competenze specialistiche coltivate nel tempo e del fattore campo. Assai meno esaltante fu però il panorama offerto dal sistema sportivo nazionale nel suo insieme. Un giornalista straniero definì l’Italia dello sport “una superpotenza sottosviluppata”: capace di valorizzare i propri talenti e di portarli al successo ma priva di una base di praticanti comparabile a quella dei nostri rivali continentali. Il divario con i livelli di pratica di Paesi come la Gran Bretagna e una Germania ancora divisa (che però partecipò eccezionalmente ai Giochi romani con una sola squadra) era all’epoca abissale. La stessa Francia, che a Roma subì la più cocente sconfitta della sua storia agonistica – nessuna medaglia d’oro e soltanto due d’argento e tre di bronzo –, poteva vantare una quota di praticanti superiore.

I praticanti sport censiti dall’Istat nel 1959, infatti, erano appena un milione e 309 mila: un misero 2,6% della popolazione. La distanza dai nostri principali rivali era abissale e lo squilibrio di genere quanto mai accentuato. Basti pensare che le praticanti censite erano appena 121 mila, pari a un nono dei maschi rilevati dall’indagine. Questa minuscola avanguardia costituiva una ristretta élite che si concentrava quasi esclusivamente su tre specialità: gli sport invernali e l’alpinismo (indicati dal 33,9% delle intervistate), il nuoto (27%) e il tennis (25,4%). I maschi rappresentavano il 90% dei praticanti, accreditando però la caccia come attività propriamente “sportiva” (da sola rappresentava ben il 36.3% del totale). Seguivano il calcio (indicato dal 24,2% degli intervistati) e un ibrido statistico che associava nella categoria “nuoto e pesca” il 17,9% dei praticanti. Solo nel 1982 l’Istat avrebbe replicato quella rilevazione. I risultati avrebbero segnalato un progresso non trascurabile: dal misero 2.6% di popolazione attiva registrato nel 1959 si passava a un ancora modesto, ma meno deprimente, 15.4%. L’Italia stava lasciandosi alle spalle gli anni di piombo e il cupo pessimismo che li aveva accompagnati. La persistente fragilità del sistema politico, insomma, non aveva pregiudicato processi di modernizzazione che trovavano espressione anche nello sport. Lo sport agiva anzi da sensore del mutamento sociale, ma eravamo ancora distanti dai valori medi di pratica sportiva segnalati dall’Europa centro-settentrionale e da gran parte dei Paesi socialisti. Il dato più eloquente riguardava la pratica femminile che risultava in crescita ma riguardava ancora meno della metà della componente maschile. Incoraggiante era invece la crescita dei praticanti nelle fasce di popolazione più giovani. Il 45% dei ragazzi di età compresa fra gli undici e i quattordici anni e il 26% di quelli compresi fra i sei e i dieci, risultavano dediti a qualche attività sportiva. Permaneva tuttavia una inedita questione meridionale. Il Sud denunciava infatti una percentuale di praticanti di sei punti inferiore a quella del Nord sebbene già alla fine degli anni ottanta l’Italia avesse finalmente raggiunto i valori medi di attività dell’Europa occidentale. I praticanti sport rappresentavano ormai nel loro insieme il 23% della popolazione totale e la crescita della partecipazione – vistosa fra i più giovani – interessava ormai anche la popolazione adulta e persino anziana. La sensibile crescita della pratica femminile, inoltre, aveva finalmente colmato quasi per intero il gap di genere allineandoci anche in questo caso agli standard europei.

TOPSHOT – Ukrain’s athletes train at the Stade de France in Saint-Denis, north of Paris, on August 1, 2024 a day before the start of the athletics event at the Paris 2024 Olympic Games. (Photo by MARTIN BERNETTI / AFP)
Nella seconda metà dei novanta si affaccerà invece una trasformazione qualitativa del fenomeno, peraltro anch’essa in linea con le tendenze internazionali. Sarà la stagione del boom delle attività meno strutturate, della fortuna delle pratiche “fai da te”, del diffondersi di attività orientate al benessere psicofisico, dell’emergente fenomeno dello sport open air (competitivo e non) in ambiente naturale. Solo dopo il 2013, tuttavia, si assisterà a una crescita significativa della pratica continuativa che si attesterà al 28,3% (valore ormai del tutto in linea con la media europea). La pratica saltuaria raggiugeva l’8,6% mentre crescevano sensibilmente le cosiddette “attività non strutturate” (27,9%). Anche sotto questi profili si manifestava una crescente omologazione ai valori medi europei e nemmeno la pandemia avrebbe causato un’impennata della sedentarietà. L’Istat documenterà infatti come gli italiani non avessero rinunciano all’attività adattando allo scopo cortili, giardini e spazi domestici in qualche modo utilizzabili. La vera questione insoluta rimarrà però quella della disparità territoriale meridionale. Ancora nel 2023 il Sud denunciava nel suo insieme un indice di sedentarietà del 49%, quasi doppio rispetto al Nord (26.3%) con Campania, Basilicata e Sicilia che facevano registrare più del 50% di popolazione inattiva. Il divario territoriale rimane ancora quanto mai consistente con un Nord competitivo con i Paesi di più solida tradizione sportiva e un Sud attestato al livello di quelli meno sviluppati. La partecipazione femminile riproduce più o meno le tendenze complessive, ma nell’insieme le donne – con l’eccezione delle bambine di età compresa fra i 3 e i 5 anni – presentano un valore di sedentarietà superiore di otto punti rispetto a quello maschile. Questa sommaria panoramica ci consente di affermare che lo sport è diventato stabilmente in Italia un fenomeno di massa e che i risultati dell’alto livello riflettono – seppure non meccanicamente – un sostanziale allineamento ai valori medi di pratica europei. Il retroterra dello sport di vertice è sempre più popolato da una varietà discretamente ampia di pratiche con positivi effetti di ritorno nella sfera agonistica. Non sono invece venute meno discrasie e criticità di lungo periodo che, come nel caso del Sud, riflettono forse processi socioculturali a più vasto raggio.

Di grande significato è stato però il fatto che nel 2023 sia stato inserito in Costituzione il richiamo al valore educativo e ai benefici per la salute della pratica sportiva. Si tratta adesso di dare concretamente seguito agli impegni che ne discendono in materia di sostegno finanziario alle attività amatoriali, di potenziamento dell’offerta didattica e di investimenti per la diffusione della pratica nelle regioni meridionali. Parigi 2024, va ripetuto, ha evidenziato ancora una volta un’evidente disparità territoriale di strutture, di risorse finanziarie e organizzative e di possibilità di accesso alla pratica tra nord, centro e sud. Gli atleti lombardi contribuiscono con ben quattordici medaglie al risultato complessivo (in provincia di Brescia Roncadelle, con i suoi novemila abitanti, guadagna tre medaglie d’oro!). Undici medaglie vanno a campioni toscani, otto ai veneti e sette ai piemontesi. La Sicilia, capofila del Sud, conquista quattro medaglie. Ancora una volta, inoltre, è la provincia, e non le aree metropolitane come in altri Paesi europei, a rimpinguare il medagliere azzurro. Ci sono poi sei campioni nati all’estero e molti sono italiani di seconda o terza generazione: un grande e importante valore aggiunto che in questo caso avvicina l’Italia al profilo dell’alta competizione internazionale. Parigi racconta un Paese e un sistema sportivo capaci di accogliere e di valorizzare risorse umane e competenze tecniche all’altezza di sfide sempre più ambiziose. “Lo sport – ha scritto giustamente in proposito Linda Laura Sabbadini – è un potente veicolo di inclusione e contribuisce a un’elevata qualità della vita. E la squadra olimpica azzurra, non più composta da soli italiani dalla pelle bianca, ce lo ha mostrato, e ce lo dimostrerà ancor più nel futuro, se saremo capaci di aumentare le opportunità di tutti nello sport. Ne avremo un ritorno certo in benessere psicofisico, e anche nelle prestazioni dei nostri atleti e delle nostre atlete nelle competizioni sportive mondiali”. Non si potrebbe dir meglio e attendiamo conferme anche dalle Paralimpiadi, evento emblematico di eguaglianza e opportunità, che è iniziato il 28 agosto a Parigi.
NICOLA R. PORRO
