Il fattore K in terra d’Albania
di CATERINA VALCHERA ♦
Il 1 Luglio scorso si è spenta un’altra grande voce della letteratura internazionale, quella di Ismai’l Kadare, indubbiamente la più prestigiosa dell’Albani, ma anche del panorama internazionale, più volte in odore di Premio Nobel e titolare di tanti altri prestigiosi riconoscimenti. L’incipit della motivazione del più recente di questi, il Premio Nonino 2018, consegnato allo scrittore da Claudio Magris, recitava così: Poeta, romanziere, saggista e sceneggiatore, aedo innamorato e critico del suo popolo, [..] ha creato grandi narrazioni[…]. Premesso che non è facile parlare di scrittori la cui vicenda personale si intreccia fortemente e spesso in modi non chiari con quella nazionale, toccando aspetti sensibili e problematici come la libertà dell’intellettuale e i suoi rapporti col potere, l’autonomia o meno dell’arte dalla politica, l’impegno espresso attraverso l’arduo dissenso, vorrei preventivamente riconoscere la mia difficoltà a scrivere in veste di semplice lettrice di un romanziere di questo calibro. Sento però di volerlo fare. Della sua biografia ricorderò il momento più bruciante, cioè la scelta volontaria dell’esilio in Francia, dove ottenne anche il prestigiosissimo titolo di Grande Ufficiale della Legion d’Onore e dove visse a lungo, soprattutto a Parigi, tanto che il suo cognome viene solitamente pronunciato alla francese Kadaré. Una decisione indubbiamente sofferta da chi in patria durante il regime comunista dal ’70 all’’82 era stato Membro dell’Assemblea del Popolo e vicepresidente del Fronte Democratico dell’Albania; e una condizione, quella dell’esule, che spiega il facile accostamento al nostro Dante, Dante l’inevitabile come titola un suo saggio del 2008 sul nostro poeta, riconosciuto come preponderante modello di riferimento umano, politico e letterario. Alla stregua di Dante, anche Kadare utilizza forme narrative da grande aedo, strutture epiche intrise di allegorie: rappresentando la realtà umana attraverso modi e mondi fantastici, dà voce alla sua terra attraversata da sangue secolare e tormentata dallo scontro tra libertà e potere. Ma, è stato detto, Kadare non è Solgenitsin. Non è neppure Foscolo che preferì l’esilio alla scelta di sottomettersi al traditore Napoleone (meglio un tozzo di pane che essere un cane al guinzaglio) e poi la povertà inglese piuttosto che la collaborazione con il governo austriaco. La posizione del grande scrittore albanese ha in sé qualcosa di più ambiguo, qualcosa che egli stesso non nasconde quando, ritirando il premio Nonino, afferma di essere considerato da molti un nemico del comunismo e da altri un nemico dell’occidente. In effetti è un autore divisivo sul piano politico: c’è chi lo considera un fiero oppositore del comunismo e chi invece lo giudica, impietosamente, un opportunista che ha vissuto un prima come complice e un dopo come spirito critico del regime di Enver Hoxha. Lo scrittore stesso ha cercato in più occasioni di chiarire, tra l’altro senza dare l’idea di volersi difendere dalle accuse di funambolismo, di non essere uno scrittore politico, aggiungendo che esiste la vera letteratura, mentre non esistono scrittori politici. Anche il destino delle sue opere risentì di questa ambivalenza: sottoposte a censura in patria nell’immediatezza dell’uscita e poi, a fama internazionale acquisita, riabilitate o addirittura esaltate dallo stesso Hoxha, che la fatalità aveva fatto nascere nella stessa città di Kadare, Argicastro. Del libro Il mostro, scritto nel 1965 come violento attacco sferrato al regime comunista sotto il travestimento del mitico cavallo di Troia e immediatamente colpito da censura, in un secondo momento il tiranno ebbe a dire che si trattava di uno dei libri più importanti di storia politica pubblicato nel paese durante il socialismo! Rinuncio ad addentrarmi negli aspetti irrisolti ed enigmatici di questa vicenda umana, ma una cosa è innegabile: Kadare ha saputo rappresentare magistralmente la dittatura, raccontarne il volto micidiale, l’automatismo disumanizzante e le forze inquietanti che si muovono nell’ombra del potere, apparentandosi così all’enigmaticità di Kafka, le cui allegorie, a differenza di quelle dantesche, sono “vuote”, sospese nell’indecifrabilità, oscure come oscuro e cupo è il reale. Kafkiani mi sembrano i suoi funzionari, i protagonisti privilegiati delle storie narrate, gli individui-massa persi nell’anonimato del regime o addomesticati come quelli di Orwell. Nello splendido romanzo “Il palazzo dei sogni”, il Tabir Sarraj s’innalza subito come uno spazio inquietante e algido, con connotazioni mitico- fantastiche, con le cupole di un colore sfumato, che un tempo poteva essere stato azzurro o almeno azzurrognolo, semidisperso in una nebbia minacciosa come i castelli delle fiabe. In questo spazio entra il giovane Mark- Alem rampollo di una famiglia potente e vi incontra alti, medi, bassi funzionari, fino agli uscieri, uniformati nel modo di parlare “come se avessero trovato …un vecchio discorso e se ne fossero spartiti i pezzi come sciacalli”. Costoro lavorano per un’istituzione misteriosa e potente che, per ordine del Sultano, deve assolvere a un compito fondamentale per la sopravvivenza del regime. I settori lavorativi fondamentali sono tre, in ordine crescente di valore: Raccolta, Selezione, Interpretazione. Di cosa? Dei sogni dei sudditi. Di tutti i sudditi, di ogni ceto e livello sociale. Funzionari preziosi, rotelle di un ingranaggio (macina) micidiale, essi sono incaricati di setacciare come il grano viene separato dalle erbacce, un materiale così significativo e intimamente connesso alla vita dell’uomo, quale sono i sogni, per controllarne le fantasie notturne, i desideri reconditi, le ansie, i timori, i bisogni repressi e i pensieri più pericolosi per la vita dello stato. Solo questi sogni vanno selezionati, insieme ai “falsi sogni”, cioè fabbricati a bella posta, a scopo provocatorio da affabulatori incalliti. Un setaccio psichico del sottomondo, quello infero e preventiva eliminazione di tutti i sogni senza valore, cioè quelli legati ai bisogni della carne che non interessano allo Stato. Lo scopo della sinergica operazione di controllo svolta da questo grandioso meccanismo è trovare l’Arcisogno, il Sogno- guida: la carta parlante di una chiromanzia di stato, il costrutto centrale e la profezia assoluta asservita al potere. Ogni venerdì il sogno scelto a partire dalla Sala delle Lenticchie viene presentato con una semplice cerimonia di antica tradizione al Sultano, un sultano invidioso dei Qyprillinj, la famiglia del giovane protagonista, dedicataria di un epos pari a quello dei Nibelunghi, cantato dagli aedi slavi della Bosnia, mentre il sultano poteva contare solo su canzoni e poesie di cantori ufficiali. Poesia, tradizione e mito entrano nel racconto con la forza dell’immaginario, evocando i valori metastorici del grande canto epico. Canto riservato agli aristoi di tutte le civiltà, al ghenos meritevole com’è quello della famiglia di Mark-Alem. Il re non è nudo, ma invidioso sì! L’intreccio di fantasia e storia -che non arriva mai alla distopia fantascientifica- e le frequenti velature ironiche sono una peculiarità molto suggestiva e potente della scrittura di Ismail Kadaré, come pure di quella di Milan Kundera. Preferisco però, tutto sommato, pensare allo scrittore albanese non come a un dissidente attivo, ma piuttosto come a un grandissimo letterato, dandy elegante e raffinato filologo. Lo dimostrano le scelte della sua penna, comprese quelle grammaticali e sintattiche, la chiarezza dell’espressione, la bellezza delle descrizioni mai esornative, la delicatezza di certi passaggi. E lo dimostrano anche le sue poesie, roventi e appassionate come il breve poemetto in distici La madre, una sorta di Lauda contemporanea, o come la struggente lirica Anche quando la mia memoria
Anche quando la mia memoria fosse stanca/come quei tram dopo mezzanotte/ che fermano solo nelle stazioni principali/ Io non ti dimenticherò./ Ricorderò/la silenziosa serata, infinita nei tuoi occhi,/ il singhiozzo soffocato, caduto sulla mia spalla/come la perpetua neve./L’addio è arrivato/ me ne vado lontano da te…/ Nulla di eccezionale,/ solo qualche sera / le dita di qualcun altro, s’intrecceranno tra i tuoi capelli/ con le mie dita, chilometri lontane…..
Basta quel nodo di dita e di capelli per ricordare Kadare anche come lirico di elevatissimo valore. Basta quell’immagine per non dimenticarlo. Ma, per onorarlo, andiamo a leggerlo e rileggerlo, cerchiamo nelle sue pagine le risposte che solo i grandi letterati sanno dare, porgiamo le orecchie al canto di questo aedo di una terra tanto vicina ma poco conosciuta e apriamoci alla sola vera bivalenza: quella della sua scrittura, insieme gioiosa e malinconica, radicata nella storia e sospesa nell’immaginario mitico, trasparente e misteriosa, reale e fantastica.
CATERINA VALCHERA

Caterina, grazie di avermi fatto conoscere questo autore. Mi sono informato per curiosità. Ho appreso quanto i suoi lavori, come tu stessa dici, siano intrisi della storia albanese. L’influsso ottomano è forte. Mi viene in mente la grande statua di Scanderbeg (Castriota) e le varie isole demografiche albanesi (una di queste è a pochi chilometri da me: Pianano). E poi il dramma comunista. A questo proposito ho letto come il Nostro sia di certo apprezzato per la letteratura dai suoi connazionali ma sono sollevate critiche per il suo esilio volontario in Francia. Della tradizione balcanica (in senso vasto) non conoscevo le saghe albanesi (mi riferisco a Doruntina e Costantino). Conosco quelle legate alla Romania per via della passione antica che ho per Mircea Eliade.
Sono lieto che non cessi di scrivere E’ il nostro aggancio verso l’invisibile ( che non rimanda all’iperuranio. salvifico).
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Di Kadarè ho letto solo “ I tamburi della pioggia” , un libro trovato per caso in un mercatino e che mi incuriosì. Un grande romanzo storico , un lungo e sanguinoso assedio. Grazie Caterina per aver ricordato questo grande autore europeo.
Anna Luisa Contu
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