L’APERTO.

di CARLO ALBERTO FALZETTI

 

Continuamente un foglio di carta si stacca dal rotolo del tempo, cade, vola via. Improvvisamente torna indietro rivolando sul grembo dell’uomo. Allora l’uomo dice: “mi ricordo” e invidia l’animale che subito dimentica e che vede morire, sprofondato nella nebbia e nella notte, spegnersi per sempre ogni istante (Nietzsche).

La memoria!

Ciò che un tempo è stato “esterno” diviene “interno”. Ciò che è andato, irrimediabilmente perduto del mondo esterno, viene reso non realmente perduto, non veramente trascorso.

Ma esiste un senso più profondo rispetto all’ovvietà del far memoria del passato (a parte Bergson e Proust)..

Ci fu un tempo in cui l’interiorità era esteriorità. Non esisteva un fuori ed un dentro. Nessuna frattura nello spazio. Lo spazio d’esistenza era del tutto omogeneo. Coscienza ed esser nel mondo era perfetta unità. In questa omogeneità il particolare, l’individualità, non aveva spazio (se il dentro è lo stesso che il fuori come può ritagliarsi l’individualità?).

Era questo il tempo del grembo.

Paradiso perduto, Età dell’oro, tutte metafore del grembo, di quel tempo antico, patria prima, che permane solo nelle profondità della coscienza come struggente sempiterna nostalgia.

Il passato è dunque soverchiante per il presente.

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Dietro la palizzata coperta di manifesti della “Sine morte” (Todloss); la birra amara, che dolce appare a chi beve, se insieme vi mastica divagazioni nuove (Rilke).

Alla sempiterna nostalgia del passato che non passa si unisce la sempiterna angoscia della morte intesa come cessione dell’esistenza.  

La morte così attanaglia l’esistenza. E l’attanaglia sempre di più quando la si fugge col pensiero e con il vivere ignorandola con il falso ottimismo e gli scongiuri apotropaici. Come in una fiera di paese gremita di gente “allegra” perché ingozzata di “birra” Todloss”(Senza morte) che dona a chi la beve l’illusione fasulla di una illusoria lontananza da essa.

 “ Fin che ci si vede, tutto bene!” ; “Ti prego basta col pessimismo, lascia in pace la morte!”.  

 Una volta o l’altra si morirà, ma per ora, si è ancora vivi”. In un discorso del genere la morte è intesa come qualcosa di indeterminato, che certo un giorno o l’altro finirà per accadere, ma che intanto non è ancora presente e quindi non ci minaccia. Il “si muore” diffonde la convinzione che la morte riguarda, per così dire, il Sì anonimo…ogni volta non-io! (Heidegger)

Nella Natura solo l’uomo è l’ente che ha “coscienza di morire”. Gli animali muoiono, certo, ma non hanno coscienza della morte. Dunque, “solo l’uomo veramente muore”, solo l’uomo esperisce la morte. Questa aver coscienza ha un effetto pesantissimo: perché più la si rifiuta e più la si ignora e più forti sono le azioni scaramantiche, più essa è presente. La difficoltà ad assumere su di sé la morte crea instabilità, angoscia per il nulla (Horror vacui).

La verità è che un animale (come il mondo vegetale e quello inanimato) è “nel mondo” mentre noi siamo “di fronte al mondo”(il mondo come oggetto della nostra rappresentazione). L’animale ha uno spazio di esistenza in sé risolto, immerso nella Natura. L’uomo, al contrario, avendo come destino l’esser di fronte alle cose del mondo e poi null’altro che di fronte sempre,. appare irrisolto e lacerato dal passato e dal futuro, cosciente della finitudine, cosciente di vedere la morte come qualcosa di estraneo e assurdo che interrompe senza alcun senso la vita: un evento del tutto innaturale.

Il futuro è dunque soverchiante per il presente.

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Passato e futuro e mai presente!

Eppure, secoli di saggezza greca e romana passata in eredità all’Occidente moderno hanno posto in rilievo che la morte non è qualcosa d’altro dalla vita. La cesura fra la vita e la morte è il “danno” che si arreca all’individuo. Danno teista, danno ateista.

 Tra la vita e la morte è solo quest’ultima da desiderare perché apre a qualche mondo iperuranico: questo il danno della religione!

Tra la vita e la morte è solo la prima da desiderare perché la morte è solo cessazione di vita: questo il danno dell’ateismo!

La via della saggezza (occidentale ed induista) dice: tra la vita e la morte esiste co-appartenenza. La morte non è altro dalla vita dunque, necessita assumere su di sé la morte intesa semplicemente come  “il lato della vita che da noi distoglie lo sguardo”……il lato della vita rivolto altrove da noi, non illuminato da noi…..non c’è un al di qua ed un al di là, ma la grande unità in cui dimorano gli esseri  che ci superano.  (Rilke).

E’ il distacco stoico (ataraxia). E’ il decidere anticipatamente per essa distaccandosi dalle rigide forme della volontà di possesso, dalle false necessità del petulante inautentico affaccendarsi quotidiano. (l’esser-per-la-morte di Heidegger).

Questo anche il significato rilkiano (VIII Elegia) che ha nome “apertura”(das Offene).

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Dopo l’articolo su “l’angelo” (II Elegia)”ecco l’aperto” (VIII Elegia). Terminerò conuna terza Elegia il richiamo ad uno dei veri grandi poeti del Novecento: Rainer Maria Rilke.

Nell’epoca della povertà del pensiero e dello smarrimento, nel tempo dell’indigenza dove si è arrivati al punto massimo che non si è più in grado di notare la mancanza di senso come mancanza, la lirica appare il solo linguaggio cui ricorrere per far germogliare un po’ di fiori di luce nella notte oscura grazie alla sua perfetta “inutilità” essendo disinteressata dall’impegno teoretico e dall’affanno pratico.

CARLO ALBERTO FALZETTI

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