“I RACCONTI DEI SOPRAVVISSUTI” DI MICHELE CAPITANI – RECAPITO DOVE CÀPITA
di MICHELE CAPITANI ♦
Che fine ha fatto Fabietto?
Da troppo tempo nessuno l’ha più visto e nessuno ne sa nulla. Vale a dire: nessuno tra le pochissime persone che avevano contatto con lui, che sapevano più o meno chi fosse.
Ce l’aveva segnalato un professore in pensione che trent’anni prima era stato vicino di casa della famiglia, e un giorno l’aveva rincontrato in giro, riuscendo a riconoscerlo e a scambiarci qualche parola, e comprendendo che adesso si trovava in una situazione delicatissima.
Noi lo conoscemmo in una sera nera e ventosa, quando andammo a trovarlo nell’irragionevole luogo ove abitava: io e altri due volontari del servizio ai barboni ci spingemmo molto oltre i confini della città, ben oltre gli estremi lampioni, su una stradaccia che scende verso un fosso, per giungere infine a una sorta di cittadella fortificata, assemblata con lamiere di zinco e recinzioni. Dentro potrebbe esserci una rimessa, o anche più di una, o uno sfascio, ma nulla si comprende dal di fuori: non una luce, né una finestra né una scritta, nessun citofono.
Battiamo semplicemente sul cancello in bandoni di ferro, e ci apre il tizio che avevamo chiamato al numero datoci dal professore (Fabietto non ha telefono). Senza preamboli, costui ci fa da taciturno virgilio attraverso un percorso oscuro che dallo spiazzo iniziale penetra e gira per un aggregato di casupole, garage, prefabbricati, passaggi… finché non ci indica una roulotte.
Lì troviamo il nostro uomo. Ossia, quel che ne rimane.
La roulotte è spoglia, nemmeno un televisore; lui è macilento, scuro di carnagione, ha piaghe alle gambe per il diabete. Ha il viso scavato per la magrezza e per la mancanza di denti, lo sguardo acquoso e un po’ spaurito. Risponde tramite monosillabi e poche frasi rachitiche: ci dice di alcuni guai di salute che vanno sempre più accentuandosi, mentre il sospetto che non abbia più la residenza non è fugato né confermato: questa creatura mite e inconsapevole non lo sa, né ricorda di essere andata all’anagrafe. E molte altre cose non ricorda, o non ne vuole parlare, d’altronde siamo pur sempre degli sconosciuti, per quanto ben intenzionati.
Poco dopo, uscendo, cominciamo a pensare a cosa gli occorrerà, ma soprattutto ci auguriamo che riusciremo a farlo aprire un poco di più. Speriamo che per ora sia stato anche intimidito da questa visita, annunciata sì, ma pure senza precedenti forse da decenni a questa parte. Faremo poi con calma il punto, non adesso: per questa sera anche a noi sono rimasti poco più che dei monosillabi, il resto delle parole che normalmente abbiamo in dotazione sono state portate via dal vento che ci riaccoglie una volta fuori, e dall’angoscia che ci stringe il cuore.
***
Iniziamo a tessere una rete per aiutarlo, per capire come farlo e fino a quale punto si possa. Il professore che l’ha ritrovato ci racconta:
«Ai tempi dei tempi, quando vivevo vicino a loro, Fabietto abitava con madre e sorella. Era un ragazzo molto semplice. Be’, successe che, dopo la morte della madre, la sorella (che si sapeva che era un po’ matta) lo cacciò di casa. Da quel momento non se ne seppe molto, se non che aveva iniziato una vita da sbandato in questa stessa città, cioè la sua. Si rintanava spesso in spazi abbandonati e appartamenti sfitti, ma ne veniva periodicamente sgomberato (perché puoi anche vivere nella tua città, ma non appena diventi senza-dimora ti si svela il volto della città che fa guerra ai poveri). Però accadeva che i poliziotti magari poi ce lo facevano rientrare, tanto era chiaro che non avrebbe mai potuto nuocere a nessuno. Ve lo immaginate Fabietto che disturba?»
No, infatti, il Fabietto che stiamo un po’ conoscendo non sembra proprio aver mai potuto essere di peso a chicchessia, figuriamoci fare danni.
«Forse da trent’anni non fa un pasto decente, o regolare. Adesso lavora al mercato, fa lavori di fatica, ma chissà se è stato mai in regola, o da quanto tempo non lo è più, se è vero che non è più residente».
E chissà da quanto non viene visto da un medico.
Si concerta innanzitutto di farlo visitare, ci vorranno almeno una visita diabetologica, poi psichiatrica e altro. Questa è l’emergenza principale, unitamente alla casa, per ridargli una dignità, un’umanità che si può riscoprire tramite ciò che più contraddistingue l’essere umano: far parte di un gruppo, e avere una dimora vera, cioè non in fondo a un fosso e senza comunicazioni col mondo.
Per scoprire un altro po’ dell’uomo Fabietto che è nascosto dietro questa larva mancherebbe infine il sentirlo narrare, ma magari ci riusciremo più avanti…
Sant’Egidio propone un posto in una delle case-famiglia, e quando telefono al professore per dirgli che si sta iniziando a concretare questa soluzione, e per raccontargli chi sono coloro coi quali Fabietto per ora abiterà, lui mi anticipa:
«Michele, guarda che ai Servizi sociali abbiamo incontrato per caso il marito di una sua cugina: anch’egli in difficoltà economiche ma impietosito, ha offerto a Fabietto di stare da lui, “E mi dài quel che riesci a darmi, se puoi; non c’è problema”, così gli ha detto»
«Tu pensa… Una bella notizia, no?»
Ma il prof continua, con un sospiro di disappunto:
«Lui però non vuole. Incredibile. Dice che la sua idea è di mettersi da parte qualcosa per mettere, al posto della roulotte, un container. Ma ci vuole denaro; come gli viene quest’idea, coi lavoretti di fortuna che gli fanno fare?!»
Conclude, tradendo un certo scoraggiamento:
«È un modo per dire di no, l’ho capito. Non vuole stare con gli altri: sai che mentre eravamo in fila all’assessorato ho notato che si vergognava di sé, non voleva farsi vedere? Lo capisce, di essere in uno stato misero».
Dico al professore di non arrendersi ai primi no: ai caduti sul fondo càpita di far emergere il misantropo, il lupo solitario che è in ognuno di noi, e anche oltre i limiti dell’autolesionismo, poiché, più della povertà e della solitudine, il mostro peggiore per chi scende tanto in basso è proprio la rassegnazione. E a Fabietto dicesse pure che nella casa-famiglia non avrebbe più problemi con i farmaci e le visite; inoltre si troverebbe in città: per quanto tempo, realisticamente, potrà ancora scaricare cassette di frutta per ore, e accollarsi chilometri ogni giorno in bicicletta, tra il mercato e il suo covo desolante?
Eppure no: per molti altri un tetto vero sulla testa, una sicurezza contro il freddo e l’isolamento equivarrebbe a una promessa di rialzamento, a un puntello contro una precoce consunzione, ma Fabietto evidentemente lo considera un moltiplicatore di grattacapi e disagi. Come molti meschini precipitati e non più rialzati, si è talmente abituato all’invisibilità che gli risulta impensabile adesso il condividere spazi e orari, cibo e incombenze, parole e silenzi, con altri esseri. Fabietto è troppo periferico e da troppo tempo.
Passa qualche altra settimana, ma non si riesce a ottenere il suo assenso per concretare l’idea della casa-famiglia.
Quante volte l’uomo dimostra la mirabile capacità di sopravvivere ritagliandosi una nicchia, secernendo un guscio! Purtroppo, alle volte, esso si tramuta poi in un loculo entro cui restare rintanati a marcire.
D’altronde, se la famiglia per prima appare congegnata per essere sgherra d’un destino malvagio, come si può piantare nuovamente, in uno come Fabietto, il pensiero vivo che di qualcuno ci si può anche fidare, e che a stare con gli altri si potrebbe vivere meglio?
***
Tramite l’accordo fra Comune e S.Egidio viene concessa a Fabietto la residenza anagrafica per i senza-dimora, ossia la sua città di sempre lo riprende tra i suoi iscritti, però solo un paio di volte passerà al centro per i poveri, per mettere una firma o perché portato dal professore, poiché tornerà presto a essere quel che è sempre stato: un invisibile, che alle volte vedi materializzarsi da qualche parte di una strada periferica che porta alla sua astrusa tana, o nella zona del mercato. Cioè, Fabietto si materializza per quel pochissimo che ha di materiale, lui talmente magro da suscitarmi lo stupore di non vedergli un numero tatuato sul braccio.
Sotto spruzzaglie di pioggia autunnale, o contro il libeccio più muscoloso, o nella paradisiaca primavera del Tirreno, Fabietto infine è semplicemente una bicicletta che porta su di sé un uomo ancor più magro di lei.
Un’apparizione scura. Un fantasma al negativo.
Eppure, le poche volte che ancora lo incrocerò, mi ostinerò a trattenerlo un poco, provando a scambiarci qualche battuta, senza riuscire a riproporgli concretamente la convivenza in casa-famiglia, che tanto pertinacemente ha eluso.
Ma del resto questa creatura grinzosa e triste sembra non avere nulla, nemmeno memorie, nemmeno qualche parola, non ha una mimica, né desideri, se non quello di continuare a essere un cuore nascosto al mondo.
Chissà se è un po’ minus, o molto minus, non è che si capisca bene. Chissà. Perché in fondo, nessuno ne sa nulla, questa ombra d’uomo sembrerebbe essersi materializzata ieri in questa non grande città, e che pure sarebbe da sempre anche la sua città!
Se Fabietto risponde, lo fa con poche frasi asfittiche, anche quando si prova a buttarla sul più e il meno. L’ultima volta che riesco a parlarci mi liquiderà con:
«È ‘na vitaccia, stamo sempre a tribbola’…» guardando altrove, e io non so più che altro proporre per provare a piantare un germoglio di conversazione, dopo quest’asserzione tanto fatale e definitiva.
Me ne vado, infine, lasciandolo richiuso nel suo solito silenzio, quasi vegetale.
Me ne vado con l’impressione di aver sentito la sua mano che scivola dalla mia, dopo che abbiamo tentato di trarlo su dalla sua esangue esistenza. La sensazione d’averlo veduto finire di nuovo sdraiato sul fondo del fiume, dove il tempo ti scorre sopra e tu neanche ci provi più a nuotare.
E la vita, che forse una volta ti sfiorò sulla bicicletta verso casa, ma che infine sempre arriva e se ne va, inafferrabile, continua a viaggiare lontanissima da te.
***
Poi l’oblio.
Per qualche tempo mi chiedo dove sia finito, ma nessuno ne sa nulla, né il professore, né alla Caritas, né a S.Egidio, né i venditori del mercato, né nessun altro, per la disarmante ragione che non c’è nessun altro, cioè non si è mai capito chi altro avesse qualche notizia della sua esistenza. Ovviamente nessun numero di telefono.
Difficile pensare qualcosa di concreto, anche perché ci sono svariati precedenti di marginali che un giorno diventano proprio invisibili anche ad andarli a cercare, solo che si trattava sempre di persone che abitavano davvero sulla strada: Piotr venne inghiottito nel nulla malgrado le tantissime persone che lo conoscevano (compresa una donna con cui era stato poco prima); Ovidio lo scoprimmo, per caso, ormai morente in un letto d’ospedale; Antonio dopo settimane si ripresentò al servizio docce per i senza-dimora, più arzillo e chiacchierone di prima.
Cosa pensare dunque di Fabietto? Resterebbe da andare a chiedere al misterioso sito dove (sopra)viveva. Mi viene da parlarne già al passato, chissà se è un brutto segno. Per molto tempo, peraltro, sarà impossibile, sia perché in quel luogo è disagevole arrivare, sia perché lo trovo sempre chiuso.
Un giorno faccio una deviazione e ci vado in orario mattutino; mi apre un tizio, non saprei dire se è lo stesso che ci ammise nell’antro, quella notte di alcuni anni fa.
«Se lo sono portato in Sardegna, quelli del formaggio».
«Ah. Perciò sta bene, diciamo?»
«Sì, so che sta meglio, qui stava sempre male».
Non so chiedere altro, il tizio non aggiunge altro né invoglia a interloquire oltre, e dunque lo saluto e me ne vado.
Poi penso che se Fabietto è andato via da tanto tempo ma qui gli è rimasta la residenza, allora anche là deve trattarsi di una sistemazione di fortuna, però è rinfrancante sapere che è vivo e sta meglio, visto che peggio di allora, peggio degli ultimi tempi in cui lo si avvistava, forse c’era solo la Nera Signora. Lodo perciò, fra me e me, chi Fabietto “se l’è portato”, pur se mi risuona un poco triste quest’espressione, che mi ricorda la passività dell’uomo Fabietto.
E questo è tutto ciò che avevo da dire su quella lieve creatura, forse più di quanto lui stesso avrebbe potuto dire su di sé, nella sua semplicità.
Mi piacerebbe saperne narrare di più, mi piacerebbe sapere se veramente ora sta meglio, ma come seguirne le tracce? Forse un giorno sapremo che è morto, ma sarà difficile anche questo, poiché Fabietto è uno di quegli uomini che non lasciano tracce neppure da vivi, talmente leggero è il loro peso: il peso del suo magro ciarpame, il peso delle sue scarne parole, il peso del suo corpo prosciugato.
MICHELE CAPITANI

Leggero il suo corpo sofferente, ma quanto peso sull’anima lascia in chi anche soltanto legge la storia…
Grazie, Michele, per questa tua storia, per questo richiamo alle nostre coscienze spesso intorpidite dall’abitudine al dantesco :” Non ti curar di lor ma guarda e passa”. Solo che qui e altrove gli ignavi siamo noi “gente comune”.
Maria Zeno
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