“I RACCONTI DEI SOPRAVVISSUTI” DI MICHELE CAPITANI –  IL REGNO DEL SILENZIO

di MICHELE CAPITANI ♦

 

«Cesare, come va?»

«Eh, insomma…»

  Con la mimica del volto gli chiedo cosa è successo.

«Due che stanno in cella con me hanno litigato»

«E tu c’entri qualcosa?»

«No»

  Enigmatico e flemmatico come sempre, Cesare è in vena di parlare (forse anche perché in classe gli altri non sono ancora arrivati), perciò devo approfittarne, e lo ascolto:

«Quando abbiamo fatto dei lavori di manutenzione erano arrivate delle spugne per le pareti, e uno di quei due se n’era nascosta una, allora l’altro è andato a dirlo a una guardia, e hanno litigato, per fortuna solo a parole. Ma se le sono promesse…»

«Insomma, ‘na cazzata» commento io.

«Eh…»  e mi fa una faccia poco convinta, poi capirò il perché.

  Guarda nel vuoto, e continua:

«Adesso hanno il divieto di incontro»

«E ci credo!»

«Anzi uno l’hanno già trasferito, e l’altro ora devono decidere dove lo mandano»

«Vabbe’, ma se tu sei estraneo ai fatti, che ti importa?»

«Sì, il problema è che non sai chi ti arriva dopo. È un cambio nelle abitudini, ed è pesante»

«C’è anche chi si abitua» gli dico.

«Sì, io li vedo, certi, che ridono e scherzano» e gli viene una mezza smorfia, traducibile sia come “Beati loro”, sia come “Non so come facciano”.

«Ma guarda che se tu non ti abitui, io lo vedo come una cosa che ti fa anche onore: vuol dire che non riesci a vederti come detenuto»

  Lui sguardo sempre fisso, forse pensieroso… ma so che capisce. Anche se sa che sarebbe meglio abituarsi.

  Uno dei tanti paradossi del carcere.

 

***

 

  Arriviamo a dicembre, Cesare inizia ad accumulare alcune assenze, e a non fare i compiti, e oggi, dopo una settimana che l’ho notato, glielo dico; cerco di trovare il modo giusto, sono pur sempre di fronte a un adulto che tra l’altro ha un’assidua frequenza e un ottimo pregresso scolastico (oltre che trovarsi dove si trova), quindi reprimo agevolmente l’istinto di inquietarmi, e ammorbidisco ma lancio egualmente il richiamo, mettendola prima sul piano globale: dico alla classe di non mollare, e se c’è qualche difficoltà a conciliare la scuola con cambiamenti di orari o mansioni, ce lo dicessero e la soluzione la troveremo: anche Rashid, il compagno, è intelligente, e ad aver di fronte persone intelligenti è meglio, perché si può parlare a suocera affinché nuora intenda, perciò sono certo che capiranno. Difatti alla fine, uscendo, Cesare mi dice:

«Professore, io adesso non faccio i compiti, ma è perché non ci riesco», e si indica la testa: «Qui dentro il cervello è come se non ci fosse»

  Io resto colpito dalla sua franchezza ma ancor di più dalla sua iniziativa a parlare (oltre che dal congiuntivo); mi dispiace se si è mortificato ma sono contento che abbia recepito il messaggio, e che voglia spiegarmi il perché (restare sullo stesso piano è garanzia di comprensione reciproca, e promessa di franchezza anche per i mesi a venire; fra le prerogative dell’insegnamento agli adulti, è forse quella che più mi piace).

  Lo sguardo ora gli si fissa su un punto indefinito, e aggiunge: «Ogni volta che rientro in quella cella…» e fa una faccia che le parole non servono.

  Per lui sarebbero compiti agevoli, a parte qualche normale e prevedibile errore ortografico, lo studio non gli presenta alcun intralcio, ma cosa conta? Già ce n’è abbastanza per riconoscergli il cammino percorso fin qui, i suoi studi tecnici e i lavori svolti (tra cui barista, personal trainer…) per i quali ha anche una preparazione certificata.

  La scuola per gli adulti esiste anche per questo.

 

***

 

  Quando gli studenti detenuti li incoraggio, e ne apprezzo i risultati raggiunti, talvolta mi viene anche da pensare alla gente che hanno fatto soffrire, alla paura che hanno generato in altre persone incolpevoli, al male che hanno sparso nel mondo, alle scie di dolore, risentimento e violenza che si sono lasciati alle spalle, e alle sorgenti di ulteriore violenza e dolore che hanno aperto e lasciato sgorgare (e in taluni casi scaveranno ancor di più, una volta fuori).

  Penso alla gente che ha pianto per la carta di credito prosciugata dalla “associazione” di cui Cesare faceva parte, immagino la buona gente che ha lavorato e si è guadagnata e costruita una vita, vedendo poi crollare o ridimensionarsi i sogni perché uno sconosciuto l’ha derubata. Penso: magari io adesso sto facendo dei complimenti (motivati, peraltro) a un pezzo di merda che ha puntato il coltello alla gola di un malcapitato, o che è penetrato a portare terrore dentro l’intimità di una casa, o ha fottuto agli altri il frutto del lavoro. E mi chiedo se è giusto che qui dentro abbiano anche delle gioie, e un sorriso, e sia proprio io a dargliele, ma subito mi sovviene che anche questa domanda contiene in sé la risposta: stanno già “dentro”, la loro punizione la ricevono eccome, cioè la privazione della libertà, che non è solo non fare quel che vuoi, ma si declina per anni e anni in innumerevoli tristi versanti, tanti quante sono le facce della libertà: stare separati dai propri affetti e non vedere i propri cari, provando quell’atroce miscuglio di impotenza, frustrazione e senso di colpa allorché sai che là fuori hanno un problema. E non abbracciare una donna, né poter scegliere con chi dormire, cosa mangiare, che farmaci assumere; non potersi scegliere gli amici; non lavorare; non telefonare. E innumerabili altri “non”.

  Perciò, perché dovrei arrogarmi il diritto di accentuare loro la pena? Siamo pagati non per alleviare la condanna, ma per spingerli a pensare sé stessi in prospettiva, e a pensarsi differenti da com’erano prima. A stimolarli affinché tempo della pena non sia sinonimo di tempo sprecato.

  Il che, si capisce, è un ricavo anche per tutti quelli che “aspettano” là fuori.

  Dopodiché si potrebbe certamente discutere se a star reclusi si paghi qualcosa. Intendo dire: io, se venissi danneggiato, non otterrei nulla a sapere che il colpevole è stato messo in galera, ma di sicuro ci perderei se sapessi che vive fuori, libero e bello, nonostante le sofferenze che mi ha procurato.

  Ma comprendo che rischiamo di esulare…

 

***

 

  E sarebbe comunque impossibile considerarlo semplicemente un delinquente, soprattutto adesso che evidentemente sa vivendo delle difficoltà maggiori.

  Le prime settimane mi sembrava un uomo intelligente, per quanto taciturno ed essenziale. Poi, alle prese con la sua presenza sempre più rarefatta, comprendo che egli non è un uomo silenzioso, no.

  Egli è silenzio.

  Tutto è silenzio in lui, a partire dalla voce, che pare emessa da un ventriloquo, vista la maschera inespressiva che è il suo volto. Ma che dico?, nemmeno un ventriloquo: il pupazzo triste del ventriloquo.

  Solo il suo passo è più silenzioso della voce: non lo si sente, è come se fluttuasse su un tappeto d’aria. Un gatto in agguato farebbe più chiasso.

  Il vuoto dei corridoi e delle ore dietro le sbarre, il vuoto delle frasi che qui dentro spesso si scarnificano riducendosi a poche parole basilari, fino al quasi nulla di Cesare, si riflettono appunto in lui: egli sta dentro quei vuoti ma al contempo è come una cassa di risonanza dell’immenso silenzio del carcere. Un silenzio che per qualcuno ha anche una durata precisa, cioè gli anni di permanenza quaggiù.

  Niente di strano che anche la sua testa gli si svuoti mano mano durante l’anno, e la classe si svuoti sempre più della sua presenza…

 

***

 

  Ma infine, all’esame è arrivato anche Cesare.

  Nell’ala del carcere adibita a scuola, in questo grande stanzone che è stata la loro aula, eccolo entrare: l’educato Cesare, uomo intelligente e silenzioso, dalle movenze lente, certamente sedato e attutito dagli antidepressivi. Anche stamane.

  E anche stamani mi pare un miracolo che egli ci sia: non che sia venuto in classe, ma proprio che esista ancora, che non abbia ceduto a fare un cappio e lasciarsi finalmente piombar giù. Ancora dopo un anno scolastico non mi abituo alla sorpresa di vederlo aggrappato alla vita.

  O a ciò che gliene resta.

  Dopo i primi tre mesi di lezione regolare, cominciò infatti ad essere assente, talvolta per un giorno, a volte per una settimana intera.

  E iniziarono ad arrivarci notizie, dai compagni e dai corridoi: “Sono due giorni che non lo vedo”… “Ieri si è alzato dal letto nel pomeriggio”… “Gli è arrivata una brutta notizia”…

  Poi Cesare stesso, col suo parlare schietto ed essenziale, a volume bassissimo, si scusava delle assenze, e di non avere testa per pensare, accennandomi a volte che sì, gli erano arrivate notizie terribili, e aveva pensieri brutti, dopo che gli era giunta, per di più, un’ulteriore condanna che gli avrebbe prolungato la pena. E perciò ero sempre più in pena io stesso, sentendomi io stesso più vuoto rispetto a quello stanzone, più freddo delle sbarre stesse, ogni volta che entravo in classe e lui non c’era, però arrivava Robert, poi Ahmed, Poi Paolo, ma Cesare no.

  E nessuno ne sapeva nulla.

  Neppure sapevo le notizie che gli arrivavano (problemi a un figlio, senza potergli stare vicino? Voci dolorose sui comportamenti della moglie? I propri cari che ti rinfacciano qualcosa? Una minaccia che ti aspetta una volta che uscirai da qui?).

  Temevo insomma “la” notizia: temevo che ci avrebbero comunicato che Cesare aveva deciso anzitempo di archiviare pensieri e ferite, decidendo di uscire dal carcere e dall’esistenza.

  Non più di fare assenze, ma di diventare un assente.

  Salvo poi scoprire che era ancora salvo, quando il giorno appresso si ripresentava, a passo curvo e lento, scusandosi col suo sguardo basso, ma comprendendo al volo e prima degli altri ogni argomento di cui si parlava, in ogni materia.

  La depressione non intacca l’intelligenza. Purtroppo.

  O forse per fortuna, perché venire a scuola l’ha salvato. Cioè: anche venire a scuola, ma certo noi insegnanti possiamo avere la fierezza di aver dato a quest’uomo una ragione per alzarsi dal letto e rimandare, speriamo per sempre, la tentazione di restare sdraiato in eterno.

 

***

 

  Ed eccoci, finalmente, ad ascoltare il suo esame orale, ove Cesare senza esitazione e con orgogliosa sicurezza si esprime in una loquela che non gli conoscevamo, con una continuità di pensiero e parola che erompe dopo una sedazione durata un intero anno. Come argomento della tesina porta l’attività fisica, da buon sportivo, e ne converserà talmente tanto che alla fine, ridendo, scherzerà dicendo che gli ci è voluto più fiato per sostenere quest’esame che per correre la maratona!

  Infine ci salutiamo, Cesare mi tende la mano, con vigore inedito, e si apre in un sorriso che lo trasfigura.

  E trasfigura anche questo luogo.

  Scherzando, gli dico che è un reato mandare il gemello a sostenere l’esame!

  E mentre coi colleghi infine esco, ripenso a quel sorriso, che nelle infinite desolazioni di questi corridoi e della sua voce e del suo cuore, mi è sembrato un germoglio, che forse preannuncia il desiderio di continuare a vivere. Di lasciar nascere qualcosa da tante macerie, una nuova voce da tanto silenzio.

  Qualcuno un giorno disse che “Chi apre una scuola, chiude una prigione”.

  E schiude sorrisi come quello di Cristian.

MICHELE CAPITANI

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