Scripta volant

di MARCELLO LUBERTI ♦

Non importa ciò che scrivi, ma come lo scrivi: “… comunque non è interessante la vicenda, ma la forma …”. È questo il primo luogo comune che proprio non mi va giù. Come si fa a mettere in secondo piano il contenuto, la storia, mi domando, forse perché non vale granché? Sarà che ho improntato la mia vita e la mia professione, non letteraria, a un comandamento semplice: parla se hai qualcosa da dire. Sottintendendo: qualcosa di utile, di veramente bello, di unico se possibile, qualcosa di fondato, urgente, che altri non sanno o non possono dire. Che se non dici sfuggirà per sempre. Scrivere è un’opportunità, non certo un obbligo. La pagina bianca può rimanere tale, non c’è alcun problema. Se non c’è granché da dire meglio il silenzio.

“Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”, disse Wittgenstein. Io direi “Su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere”.

Mi sono rotto le scatole di leggere racconti che cercano uno stile, un’originalità all’interno di una storia appiccicaticcia, di fantastico a tavolino, di irrealtà o forzature: racconti che echeggiano il vuoto di chi li scrive. Il vuoto di vita. Scrivere per mestiere è duro: essere obbligati a riempire la pagina bianca ad ogni costo, anche quando manca il carburante della vita, delle idee, finendo per rimestare il letterario. Quanti sono i casi di scrittori, scrittrici autori di un bel libro e di dozzine di pubblicazioni insignificanti?

Un altro luogo comune. “… il lettore deve essere accompagnato con tutti i cinque sensi …”, deve sentire un profumo, cogliere un’immagine, vedere il personaggio in tutte le sue movenze, i tic, toccare la rugosità di una pietra. Deve sentire la scena. Che palle. Questa deviazione risente molto dello sviluppo della cinematografia, della realtà visuale, anche dei videogame; insomma della civiltà dell’immagine. Se ne può anche fare a meno.

Un mio amico, anche lui appassionato di racconti, è rimasto folgorato da un imbonitore online che tiene corsi di scrittura. Ormai, per scrivere una storia impiega pagine e pagine con suoni, rumori, similitudini, digressioni olfattive, ossessioni dei personaggi, uno strazio: leggi e ti chiedi “la storia dov’è finita”. Non ha pubblicato finora, ma ha già messo in rete un suo manuale di scrittura intitolato “l’arte di emozionare”, appunto, il passe-partout per tanti equivoci che non sono letteratura. Descrizioni, dettagli minuziosi, feticistici, che vengono assorbiti, travolti dall’insignificanza della storia. Menti confuse inadatte a ogni vita concreta, che maledicono o ignorano la vita perché non corrisponde ai loro onanismi letterari.

Fateci caso, sovente scompaiono gli elementi basilari della realtà: il narratore è quasi sempre una persona senza moglie marito o legami di sorta, una monade che sta davanti alla pagina bianca in totale solitudine. Figli: scomparsi. Famiglia quasi mai presa inconsiderazione, se non per la sua soppressione, spesso violenta.

E poi tutti questi commissari, ispettori, i generi, il fantasy, young adults (molto bambini e poco adulti), romance, gender a raffica, l’etnico e chi ne ha più ne metta. E quindi gli ibridi, l’autofiction, la rievocazione storica, il distopico, il romanzo di formazione (spesso per nulla singolare o poco credibile), le biografie mascherate narrativamente, quanto di più ingannevole se si è veramente interessati al personaggio. Gli scontati piagnistei del climate change, dei femminicidi, i fuochi ancora accesi della seconda guerra mondiale con i suoi stermini di massa. La maledizione dell’antropocene. Le vagonate di dolore in presa diretta per avvinghiare il lettore nel senso di colpa e nel confortarlo con “non tocca a me, meno male” dei finalisti dello Strega 2023. Il sostegno di buone cause con esiti letterari trascurabili. La saggistica mascherata. Il realismo magico che sconvolge l’ordinario di punto in bianco. Il mistero insondabile. La nostalgia per qualche autore del passato giustamente dimenticato, ingigantita fino a una rivalutazione immeritata dello scrittore o della scrittrice. Scrittori mirabolanti che cavalcano le discipline scientifiche in maniera confusa, circense, ritenuti originalissimi, anzi fondatori di nuovi paradigmi. Le mancanze di punteggiatura. Lo famo strano ad ogni costo. La mancanza di modestia, la presunzione di scrivere chissà cosa. La paura della semplicità, della vita ordinaria.

Tanti libri, ma pochi scritti che arricchiscono il lettore, che viene spesso preso in giro, sequestrato dai solipsismi dell’autore. È suggestiva l’immagine del lettore che, per la disperazione, decide di mettersi in proprio.

“… tutte le storie procedono per conflitti, vengono alla luce attraverso i conflitti …”. È una legge universale? A sentire i divulgatori ripetitivi delle scuole di scrittura creativa sorte negli USA a partire dal secondo dopoguerra, sì. Non ne sono convinto, ci sono tanti esempi di belle storie senza conflitto. Soprattutto, stonano i racconti dove il pover’uomo che scrive deve fare i salti mortali per inserire un conflitto pretestuoso, irragionevole, che raggiunge solo il ridicolo. Le scuole di scrittura hanno fatto anche danni, il più grave quello di standardizzare, uniformare le modalità di scrittura. Quello più tangibile la diffusione di velleità di scrittura tra una popolazione che quasi sopravanza, ormai, quella dei lettori.

Questa uniformazione è avvertibile anche nei canoni di lettura consolidati. Le recensioni sui giornali e nei siti specializzati sono, nella generalità dei casi, fuorvianti, influenzate da questi equivoci, queste fissazioni sulla letteratura invalse nelle scuole di scrittura creativa. Sono caduto spesso nelle trappole costruite da questi sacerdoti e sacerdotesse di mezza tacca: alla lettura effettiva, ben poche opere rispondono alle magnificenze riportate in quella che dovrebbe essere una valutazione ponderata e affidabile. In molti casi, dopo appena 30-40 pagine del libro ho avvertito odor di tradimento delle aspettative suscitate dalla recensione. L’altra faccia di questa uniformazione è lo scambio di apprezzamenti reciproci tra quasi tutti gli scrittori italiani viventi, pur in presenza, all’apparenza, di notevoli differenze di generi, modalità di scrittura, tipologie di storie. La vellicazione cortigiana dell’altro è la merce più apprezzata, pur in presenza, talvolta, di prodotti mediocri. Cane non mangia cane è la regola aurea di questa comunità complice degli scrittori. Le stroncature sono scomparse.

L’equivoco più diffuso su “non importa cosa ma come” riguarda le modalità dell’intreccio di una storia rispetto alla storia, nel gergo la fabula. Lo sforzo di inseguire una struttura non convenzionale del romanzo o del racconto. Il povero lettore viene spesso chiamato a una vera e propria caccia al tesoro per cercare di distinguere la fabula dall’intreccio, per poi scoprire che la fabula risulta modesta e che l’autore vorrebbe stupire il lettore con un intreccio spesso cervellotico, senza nemmeno rispondere alle domande chi, cosa, dove, quando: braccia rubate all’agricoltura.

Sono troppe le indicazioni sullo stile di scrittura che portano in un modo o nell’altro alla svalutazione della cosa da raccontare, della storia in sé.

Per non parlare, poi, della pochezza dell’italiano messo in pagina, dello scarso pregio delle parole utilizzate. Mi domando: come può il degrado dell’istruzione scolastica non ripercuotersi sulla qualità della lingua usata dai giovani scrittori contemporanei? A forza di cercare immagini convincenti si scrivono cose di poco interesse. La fiction piegata al vuoto, all’assenza di fantasia tipica di chi non frequenta la realtà.

Si abusa della cosiddetta sospensione di incredulità per trascinare il lettore ad assecondare vere e proprie stupidaggini solo all’apparenza non banali. Troppe volte è una magia che non riesce, perché si richiederebbe non la sospensione, ma la soppressione dell’incredulità, e per questa ci sono solo i miracoli, toccati con mano. Verosimiglianza e credibilità sarebbero requisiti da riabilitare, penso.

“… è la sintassi, non il lessico che fa lo scrittore…”. Ahia! È questa frase la madre di testi scombiccherati, contorti e di problematica lettura. Ancor più urticanti, ovviamente, se sono conditi con un lessico lunare che non si è in grado di padroneggiare, portato a destar meraviglia in un lettore affaticato e desolato.

“… lasciare il non detto … show don’t tell … la letteratura allude, non spiega …”: queste tre sentenze sulla scrittura diventano spesso alibi per delle storie dove si capiscono ben poche cose, cose che a volte non ha capito nemmeno lo scrittore. Lasciare qualche dubbio al lettore va bene, congedarsi con troppo domande è il segno di un fallimento.

“… scrivere è mettere ordine nel pensiero …”, chi l’ha detto? Non ricordo. Devo constatare, però, che molti che scrivono non lo fanno o, se lo fanno, hanno di base un pensiero confuso e inconcludente.

La letteratura non è solo realismo, per carità, ma un’eco della vita dovrebbe almeno portarla. È il nesso con la vita, comunque la si intenda, che rende grande la narrativa. Scrivere perché si vive, non il contrario.

Oltre alla struttura non convenzionale, spesso gli scrittori vanno alla ricerca del senso di straniamento, del colpo di scena, il vero coniglio dal cilindro che sconvolge la percezione del lettore. Ad esempio, mi sono di recente imbattuto in un libro scritto da un famoso istruttore di scrittura, consigliato da un critico al cospetto dell’asserita non elevata qualità dei libri vincitori del Premio Strega 2022. Ebbene, mi sembrava per tre quarti dell’originale “romanzo” di aver trovato finalmente un libro che voleva dire qualcosa, anche sulle problematiche del narrare, che rispondesse alla sostanza della segnalazione. Di punto in bianco si scopre una seconda vita del protagonista che diventa schiavo di un mezzo matto che coltiva un vizio di efferata violenza e degrado. Ho avvertito una profonda ripugnanza, mi sono sentito offeso, preso per i fondelli. Perché, mi sono domandato. Non ho trovato risposte, se non quella della ricerca dello stupore a tutti i costi.

“… basta guardare … il proprio sguardo che si apre, genera il mondo …”. Diffido abbastanza di queste affermazioni enfatiche, soprattutto quando una minuscola azione quotidiana, un evento banale, un oggetto occupano decine e decine di pagine di un libro, spesso con poca magia e acutezza. Mi domando sempre: la storia, dove è la storia, dove sono i personaggi, che fanno? Il tempo, quanto tempo è passato, cosa succede nel frattempo? La parentesi dello sguardo fa per caso progredire la storia o il tema del libro? O sono solo sterili esercitazioni? Il lettore riesce a entrare in sintonia con la pagina scritta per così lungo tempo?

Indubbiamente, le mie critiche vengono dall’idea che ho della letteratura, dai miei gusti personali come lettore. Sono esistite, esistono e sempre esisteranno pagine molto belle, ma quanto rumore di fondo e quale sopravalutazione di tanti libri. E il tempo è il più feroce dei critici letterari (Jonathan Swift).

Il detto latino andrebbe opportunamente ribaltato: le parole rimangono (a nostra disposizione, per fortuna!), (mentre) le cose scritte (in gran parte) volano.

MARCELLO LUBERTI

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