“I RACCONTI DEI SOPRAVVISSUTI” DI MICHELE CAPITANI – IL PRESTITO IN SALDO

di MICHELE CAPITANI

  Già alcuni mesi fa narrai del signor Adil, l’ex camionista marocchino, ora signorile custode d’un chiosco sulla spiaggia, e in attesa della pensione. E veggente e chiromante in grazia d’un suo spirito…

  Oggi torno a trovarlo.

  Il cielo è lievemente velato in questa mattina di un morbido autunno. È fine ottobre; guardo i teli chiari montati intorno al chiosco bianco: tra pochi passanti silenziosi, in questa luce diffusa, sembriamo dentro le fotografie d’una mostra.

  La sorella, amatissima, deve farsi un’operazione perché ammalata di tumore. Gli dico che mi dispiace vederlo giù e non sorridere quasi mai.

«Noi siamo fatti di estremi» mi dice «e la disgazia vera è che quando siamo nell’estremo in basso non ricordiamo che ci sarà anche l’altro estremo, un giorno; così come, quando siamo nella gioia, evitiamo l’idea della possibilità di soffrire…»

  Adil rimarrà qui ancora almeno dieci giorni, in quanto da domani smontano il chiosco, ma ci impiegheranno del tempo. Se non torna subito in Marocco (deve prima trovare i soldi per l’operazione della sorella) andrà o a Pescara o a Pisa, dove alcuni amici lo possono ospitare. Poi mi fa:

«L’altra volta ho parlato con Toni e un’altra signora, mentre altre due sono rimaste più lontane, e su una di loro ho visto una cosa brutta»

«Se vuoi, non ti chiedo niente»

«No, tanto io lo dico solo se si può rimediare»

  Gli faccio un paio di nomi cercando di capire chi possa essere: quella più magra? La più giovane? Ma lui non dà segno di volere individuare.

«Cioè, tu avverti qualcuno solo se è per un fatto che si può evitare?»

«Sì»

  E continua raccontando storie fantastiche:

«Una volta, avevo un amico, Franco. La moglie stava male; si sarebbe potuto fare un intervento, solo che i medici avevano avvertito che era rischioso, la possibilità che riusciva era del 10%. Naturalmente erano tutti contrari: lei, lui, figli, parenti, amici. A me però lo spirito aveva detto che tutto sarebbe andato bene, così l’ho riferito a Franco, lui mi ha guardato, e si è fidato. Allora ha fatto fare l’intervento, in gran segreto, ed è andato bene. Quando si è saputo, tutti gli altri familiari erano arrabbiati davanti al fatto compiuto, ma che c’era da dire davanti all’evidenza che la donna era guarita? Anche i medici glielo chiesero: “Perché per mesi siete stati contrari, poi avete cambiato idea all’improvviso?!”

  La moglie di Franco poi, un giorno mi disse (solo a me) che quando aveva 18 anni aveva subìto una violenza, e questo le aveva causato, molti anni dopo, quel problema di salute. E questa cosa non la sapeva nemmeno il marito»

  Oggi parliamo piano, con lunghi intervalli ove l’aria tra me e lui scorre tiepida e lenta.

  Adil si volta verso il mare e riflette:

«Certo, la vita mi ha dato tante gioie e tante sofferenze…»

  Poi lo vedo scherzare affabilmente con le due ragazze del chiosco, la sua tristezza ha momenti di attenuazione!

  Chiamo Sara, nostra comune amica, per rassicurarla che Adil resterà alcuni altri giorni; infine, andandomene verso casa comprendo quanto ci mancherà questo signore, la sua garbatezza e le sue storie sulla sabbia, ascoltate nelle sere d’estate o in quest’aria dell’autunno civitavecchiese, tanto deserta e luminosa.

  Tra l’autunno e l’inverno va in Marocco dove la sorella morirà sotto Natale. Resterà varie settimane per il lutto e altre beghe burocratiche da sbrigare dopo questo dramma. Quando torna qui, si presenta da me e Sara con doni esotici: scatole di datteri, dolci al sesamo e altro; eppure qualcosa è cambiato: è febbraio, il chiosco è dismesso, e le furenti mareggiate invernali non permettono una vita decente a uno come lui che non è tipo da raccattare semplicemente una coperta e ficcarsi sotto una panchina al gelo e al vento.

  Trova quindi una stanza oltre il vecchio carcere, «dove mi hanno anche messo un televisorino. I padroni non ci sono mai, solo il sabato sera viene gente e fanno musica e casino fino alle 4, ma a parte questo è tranquillo, c’è solo un altro tizio, un tunisino».

  Non riesco a immaginare che sistemazione sia, e solo molto avanti nella conversazione capisco che parla del centro sociale; ti credo che fanno casino fino alle quattro!

  Il padrone del chiosco gli ha detto che da giugno riapriranno, pertanto anche quest’anno potrà abitarci come custode notturno. È però mutato qualcosa in lui: la morte della sorella unitamente a stenti, attese, e sistemazioni con estranei, lo hanno reso più cupo; anche la sua figura eretta sembra più smagrita che asciutta, e più scoraggiata che dignitosa.

  Un giorno mi dice:

«Devo chiederti dei soldi, perché non mi va di chiedere sempre alla stessa persona. Scusami…»

«Uhm, più che altro, mi fa effetto vederti che chiedi, tu che non lo fai mai»

«È per tirare avanti fino a metà marzo che compio 65 anni, poi chiedo la pensione. Però ci tengo a dirti che è un prestito: se me li dài, dopo devi riprenderli, quando te li posso restituire»

  Ultimamente aveva chiesto aiuto all’amico di Pescara, ma dice che «sarà un problema restituirgli quei 150 euro perché non li vorrà indietro. Penso di andare a sorpresa e infilarglieli in tasca, o meglio nella buca delle lettere, così deve accettarli per forza!»

*****

  Parentesi necessaria.

  È idea diffusa e fondata che le complicazioni dell’italiano per gli stranieri siano le consonanti intense (le “doppie”), le particelle pronominali, le flessioni dei verbi, la curva intonativa delle domande… Ma di certo in ogni lingua il difficile è questo: la parola più ispida è il verbo “chiedere”, che si coniuga in impressionante moltiplicazione di modi e persone. Soffermiamoci sull’imbarazzo di doverlo usare, di “bussare a soldi”, se si precipita in spietate condizioni di bisogno.

  Ancora mentre io e Adil chiacchieriamo, mi si profila nella mente il groviglio di rapporti che germina dal “chiedere”: è un ingenuo totale chi pensa che, se c’è uno che chiede, di fronte c’è uno che può semplicemente concedere o rifiutare. Ma proprio no! Questo verbo incredibile aggruma concetti che somigliano alle radici di un roveto, e da cui nasce, aggrovigliandoglisi intorno, un intrico di pensieri e ripensamenti, attese e delusioni e sorprese, pensieri proiettivi, dubbi e imbarazzi e ambiguità, doppi legami, e scambi di ruoli nelle relazioni. Non solo l’atto di tendere la mano è faticoso, bensì anche far capire all’interlocutore che poi ci tieni a restituire.

  Inoltre, il chiedere contiene in sé una ferita potenziale, cioè il timore di subire il rifiuto, e di mettere l’altro nelle condizioni di dirti di no, e questa è esperienza di tutti: la paura del rifiuto, una tensione interna tanto forte da non avere nome: questo genere di paura dovrebbe avere, nel vocabolario, la dignità di una parola tutta sua, perché è un sentimento troppo autonomo e profondo.

  Dare e avere, debito e credito, compongono un equilibrio sempre squilibrato, poiché troppo complesso: sapersi in debito provoca disagio, il debitore spesso si sente ricattato o sotto pressione anche se il creditore non gli chiede nulla e nemmeno ha la minima intenzione di farlo. Il debitore può giungere ad avere atteggiamenti aggressivi con chi ha esercitato verso di lui un gesto generoso.

  E dunque, come districare il caso di quest’uomo tanto accorto e dignitoso? Così: Adil lo considera un prestito, ma io so che è un saldo, da me verso di lui, essendogli io debitore di più di un capitolo dei miei libri. E se pure vorrà restituirmeli, saprò cosa dire poiché avrò fatto le ossa, per esempio, con il buon Tomasz, a cui a volte diamo qualcosa, e che spesso mi dice: «Guarda che i cinque euri poi te li torno». Io in genere non so di quali euri parli, se quelli di ieri o di tre mesi addietro, ma so per certo che va evitata ogni risposta dal ventaglio: non fa niente – non li voglio – sicuro che non ti servono? – lascia stare! – tieniteli – fanno più comodo a te eccetera, perché altrimenti si lascia l’altro sempre nel groviglio, nel disagio, nella sudditanza, e mantiene la relazione sempre dissimmetrica.

  Meglio dire “Grazie!” e accettare la restituzione, laddove essa si verifichi: essa ci unisce e ci rimette entrambi sullo stesso piano.

  E ripristina la relazione nell’imprescindibile libertà.

*****

  A marzo Adil sloggia dal centro sociale: ha scoperto che il tunisino spaccia, e se un giorno arrivasse la polizia non gli andrebbe di rovinare proprio all’ultimo la sua pluridecennale vita onesta in Italia. Finire per strada per uno come lui non c’è neppure da pensarci, e siccome fino alla riapertura del chiosco non ha collocazione, tornerà provvisoriamente in Marocco, anche perché le pratiche per la pensione non procedono spedite come gli era stato detto.

  Va a Montalto da amici a racimolare qualche altro soldo, e ci chiede se gli custodiamo un trolley e il televisorino, perché non può portarseli appresso.

  Il cielo sulla sua vita non è terso come la scorsa estate, ma lui riesce sempre a essere in sé, a cogliere ogni appiglio per non lasciarsi scivolare:

«Michele, neanche potevo farti lo squillo a vuoto, ero rimasto con 13 centesimi, ma mentre me ne accorgevo mi è arrivato un bonus per altri 50 minuti! Allahu akbar, Dio è grande: quando deve fare una cosa, la fa»

  Tornerà in città dopo qualche giorno, e purtroppo un alloggio non lo troverà più: si appoggerà ora qui ora là, torna anche a Pescara, finché un giorno lo vedo camminare lentissimo, con lo sguardo basso: è molto giù, non sorride, non raccoglie nessuna esortazione… dice che un cane mangia più di lui e anche meglio di lui. Se uno come Adil vaga senza spirito e senza lo Spirito, e si vede precipitato più giù d’un animale, vuol dire che c’è da preoccuparsi.

  Ma pochi giorni dopo si rialzerà, in tutti i sensi: piglierà gli ultimi spicci, gli ultimi bagagli, e le nostre ultime parole di saluto, e salirà sulla nave che lo riporterà definitivamente a casa.

*****

  Ps: sei mesi più tardi, passando davanti a un’edicola, vedrò la locandina di un quotidiano locale: “I Carabinieri chiudono il centro sociale per droga”.

  Adil aveva ragione.

  Come sempre.

MICHELE CAPITANI

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