NER TEMPO

di CARLO ALBERTO FALZETTI ♦

Ancora una volta il labirinto.

Ma ora è il labirinto della memoria, il libro della scrittura interiore che Andrea tenta di scrutare. Quando nel corso della vita ci si pone la domanda più elevata la risposta deve farsi autobiografia, scavare nel remoto passato per capire la presenza nel mondo.  

Tuttavia, varcare la soglia ed entrare nei meandri può significare smarrire il filo che fa storia e trovarsi nel groviglio che è difficile dipanare.

Er tempo nun sta fermo, se move, torna indietro, zompa avanti, aritorna pe rimischià le carte c’ha dato prima  (Li ricordi).

Ma a volte il filo di Arianna che il logos ci offre a nulla può servire in un mondo assurdo. Giordano Bruno trascina il suo corpo verso il fuoco annientatore. Il suo rifiuto di cercare una via di salvezza dal labirinto è un atto di ribellione contro il potere . Sarebbe bastato nascere qualche secolo più in là per essere osannato. Ora c’è solo il boia ad attendere.  

Voy a entrar en el laberinto pero sin el hilo de Ariadna, introibo labyrinthum sine filo.

Se ci fussi un Arianna a offrirmmelo, cor mejo  de li sorrisi mii respingerei l’offerta, e nun me dite che sarebbe difficile per me sorride…. Però bastava nasce solo un po’ più tardi,solo un centanni  doppo…..  ..L’ommini d’oggi, chiusi  drent’ ar guscio de un monno stretto e angusto,governato da un dio senza fantasia,  più gretto d’un contabile gretto, nun avrebbero avuto più er potere d’aspettamme ner centro de la piazza pe dà  foco a la legna su cui abbruciamme vivo (Campo de Fiori, er 17 de Febbraro der 1600).

La guerra!

 Immagini confuse, lampi di scene non comprese del tutto da occhi infantili come l’incontro di un padre addobbato da soldato.

……quanno s’oscur ò la porta del locale indove stavo e dovetti arzà l’occhi pe capì quer ch’adera successo, e c’era un omo un sordato in divisa su la porta che me stava a guardà  e me sorrideva co un sorriso che poi nun me sarei mai più scordato pe tutta la vita, e io rimasi imbambolato e come si me svejassi riuscii a dì: papà (Er ritorno der sordato).

La morte che viene dal cielo. Una morte che è data da qualcuno che non vede la vittima e che la vittima a sua volta non vede. Qualcosa che giunge dal cielo simboleggia il destino fatale al pari del terremoto, della lava vulcanica, del maremoto. Come un evento naturale non governabile il colpevole non è visto. Il nemico diviene anonimo a differenza del colpo di mitraglia dell’occupante tedesco. La violenza dei rastrellamenti, i massacri , le fucilazioni pongono immediatamente in evidenza il rapporto causa-effetto. E’ per questo che nonostante le tonnellate di bombe sganciate sulla città il rancore verso gli americani appare ben più modesto rispetto al nemico di terra dove la causa è chiaramente individuabile. La separazione della vittima dal gesto che sgancia la bomba è un fatto essenziale che incide sul risentimento . Il cielo che fino ad allora aveva diffuso luce, sole, pioggia, vento e tepore di stelle si fa fonte di lutto, in quer maggio mille nove cento quattro tre, quanno distrussero il ghetto, e distrussero la città mia, tre giorni prima der mi’ quinto compreanno (Li du’ bambini).

Civitavecchia è una città di sfollati. Il contado diviene meta dell’esodo. La casa distrutta significa la perdita della identità,la frantumazione della storia passata. Perdita materiale e perdita simbolica. L’ospitalità in casa altrui è atto di generosità ma non sempre avviene in modo umano:  indove er pane po’ sapè de sale e l’esijo po esse duro e penoso come salì e scenne pe le scale di chi te po aiutà ma te lo fa pesà ( La rosa de li beati).

 Vedere l’orrore con gli occhi di un bambino è ben diverso rispetto alla sofferenza dell’adulto consapevole. Tuttavia lo sconvolgimento incide pesantemente.

A cinquanni ciavevo l’ingenuità d’una creatura de tre, si è proprio vero che tajai pe metà quella liretta che mi’ madre me diede pe spartimmela cor mi fratellino quanno ce mannò a comprà er pane ar forno de la piazza ner paese doverimio sfollati.  Cor cresce nun so tanto mijorato. M’è restato qua drento quer rifiuto per monno de li granni, conosciuto quanno li grandi aderino impegnati a massacrasse e massacracce a noi, li regazzini che nun potemio capì quello che succedeva…..  Magara si a cinquanni parevo na cratura de tre anni era solo perché me arifiutavo de accettallo, ar monno, come adera.(La lira tajata).

Il terrore. La vita è appesa ad un filo. Ogni giorno può essere il giorno fatale. I ricordi dell’infanzia scemano, solo pochi si fissano per sempre. La guerra è il momento dove l’attimo può imprimersi con una forza penetrante e permanere come un marchio di fuoco sulla pelle.

Quanno li tedeschi sfonnarono la porta che noi stamio tutt’e quattro in der letto e se portorno via a mi padre co le pistolmascine puntate….e l’avevino messo in faccia ar muro insieme a artri ommini e stavino lì pronti pe sparaje e mi madre, con me pe mano e mì fratello in braccio, era come ammattita era come na statua de dolore lì in mezzo a la piazza, senza dì una sola parola, ma gridanno co l’ occhi…….( Doppo l’attentato a Tojatti).

La guerra è finita.

 Si balla la raspa in piazza. I più grandi commerciano sigarette con gli americani. Le ruspe lavorano spazzando via tutte le macerie. I bar si riaprono zeppi di gente. Dovunque cumuli di calcinacci sopra i quali i ragazzi giocano alla guerra.

 Noi, li regazzini, tornati dallo sfollamento, quanno era finita la guerra e non c’era in tutta la città sinnò macerie e manco l’acqua pe lavasse (Il cobra).

 Era il tempo  che oggi si invidia. Il tempo del poco che rende felice. Il tempo delle passioni non-tristi. Il tempo del futuro promessa e non minaccia. Il tempo dove il possibile doveva essere conquistato con sforzo e spesso immaginato solo con la fantasia.

Il labirinto della memoria permette di entrare nel corridoio dell’adolescenza calata in un dopoguerra angoscioso per molti derelitti ma spettacolare per l’età dell’inconsapevolezza. Che rimaneva di una città in rovina, senza più identità, dove il “libro di pietra” si era tramutato in cumuli di calcinacci, ferri contorti e polvere? Il mare, solo il nostro mare.

Il mare!

 I cavalloni del mare e l’antimurale che li genera. Prima che gli uomini in divisa sbarrassero la strada orde di ragazzi sfidavano quelle onde che raggiunta la loro sommità cadevano rotoloni spumeggiando in ogni dove.

Che ingiustizia facce cresce ad un passo dar porto , pe teneccelo poi chiuso co na bariera sorvejata  da finanzieri in divisa, sospettosi…( Er porto).

Gettarsi quando il flutto si è infranto sui cassoni di cemento nuotando con lena prima che nuove ondate  rimontino. Impensabile ai nostri giorni ma non in quei momenti  di riacquisita libertà.

Ce tuffamio  in mezzo all’onde grosse come case, arte come palazzi, toccavamio la roccia der fonnale  quanno er mare s’aritirava e lo lasciava a secco….  Adera quello er momento che er monno era nostro ( La citta ch’era la mia).

Ed il tuono, l’urlo sordo della furia del mare che poteva scoraggiare chiunque. Ma non l’impeto di una gioventù colma di vita.

Nun c’è artro che quer rumore quanno cade giù e s’abbatte, la cresta, come un corpo vivo e squizzante, come un pesce enorme che preme a lungo pe arripija fiato (Il cavallone)

Ma il mare conduce anche allo strazio di ciò che rimane solo memoria. Nulla è più come prima. Lembi di costa irti di scogli, di quella pietra forte che un giorno permise l’approdo alle antiche marinerie proto-etrusche e poi etrusche sono stato colmati di cemento. E’ il progresso, si dirà. Certo, ma la senilità ha le sue ragioni del cuore. Che ne è della “buca di Nerone” oggi circondata, dove si trova “la Mattonara”e la spiaggia di “Torre Vandalica”? Lo scoglio che non c’è. Lo scoglio che era isola dove la fantasia si liberava.

Adera un promontorio de arenaria lanciato in mare come una balena incrostata de arghe e de molluschi ruvido a camminacce a piedi nudi….. Adera er Moby Dicke mio domestico… Ho affrontato le più mejo avventure montato su la groppa der cetaceo….    Ma un giorno sò arrivate de le squadre  de sterratori e l’hanno fatto a pezzi, l’hanno sbancato e polverizzato ricuperto de terra e de cemento, e cianno messo su de le cisterne de ferro pè immagazzinà petrojo (Il promontorio).

  E l’amore aveva il suo luogo , una sorta di hortus conclusus circondato dal mare.

C’ero annato pur’io su quello scojo  in mezzo ar mare aperto, non so più quante vorte. Ce s’arrivava a nòto o in canotto, da solo o in compagnia de quarche regazzetta che ciaveva più o meno l’età tua e che se fidava a vienì lì con te….(Lo scoglio).

Ed arriva l’epopea dei veglioni dove se tiravino li coriandoli che se mettevino drento ar colletto e te se appiccicavino cor sudore a la pelle. La festa era la liberazione dalla tristezza del passato. Eppure nonostante l’euforia la regola imperava come un incubo imposto dal perbenismo del momento. Lontani erano ancora i tempi del non limite.

 Bevè, cantà, ballà stretti li maschi co le femmine, divertisse, magara mascherasse pe fa cose che nun dovevi fa senza che se sapesse che eri tu. Questo era quello che tutti volevino ma nun potevi fallo……e mannà pure a fa in culo chi je stava sur cazzo e pomicià omini e donne senza stà ingessati e beve un bicchierino di fernet, co un po’ d’acqua minerale (Er vejone de carnovale).

La fatica del vivere.

L’adolescenza è un guizzo, un trasalimento, un sussulto della nostra memoria. Ecco le lunghe stagioni della vita , gli amori, le gioie, le illusioni, la fatica del vivere, il dolore. L’assurda pena del divenire.   

 Prende , così, corpo  una delle più profonde poesie di Andrea.

Insino a quanno te potrò tenè

La mano pe scallattela?Fra un po’ me manneranno via, quanno già tutto

sarà finito attorno

ar tu letto: li pianti li singhiozzi

de le persone care….

Nun ce sarà oramai più un momento

che te potrò prenne la mano…

E’ finita. E’ l’addio pe sempre, quello

che noi sì lo sapemio, ma parea

impossibile. ( Fine della storia).

Tuttavia, la morte non distrugge tutto ma riesce ad eternare. Lo spirito dei defunti è qualcosa (Sunt aliquid Manes). Per il poeta Properzio la morte dell’amata Cinzia non può che affermare una sopravvivenza oltre la vita. Non tutto con la morte finisce (Letum non omnia finit).

Che importa quello che potrà succede?, te dico in sogno. Mò manco pe sbajo te po arrivà na notizia de me là indove stae……  Eppure te dico in sogno che margrado er freddo odio e er silenzio arzato come un muro pe tenemme distante, io t’ho amata e ricordata pe tutta la mi vita e doppo morta te amo come si ciavessi  stretto la morte a sé a noi due in un solo abbraccio (Sunt aliquid Manes).

Ma chi può esser certo dell’oltre vita? La senescenza , incidendo nel profondo del corpo, riduce a sentirsi sazio del vivere. Un antico concetto orfico consolava la mestizia attraverso la  reincarnazione sì che l’anima passava di corpo in corpo. Ma, a volte, l’esperienza di vita è tale da rifiutare anche questa possibilità e gridare accoratamente un cambiamento estremo: proseguire non in un altro corpo, non in un altre forme ma rivivere solo attraverso altri.

Ma me po’ attirà la promessa de potè vive eternamente? Direbbe de no: si ciavessi  un anema drento de me n’importa si piccola o granne, nun vorrebbe proprio che quarcuno me la strapazzasse più der tempo necessario pe tenemme in vita…….Si proprio dovesse vive pe sempre, vorrebbe armeno cammià d’anima ogni tanto nun ésse sempre l’istesso ma come quelli che credino ne la metempsicosi, vorrebbe arinasce na pianta, un animale, un uccello un filo d’erba che dura, un gnente oppuro un arbero…… ma nun vojo esse me stesso pe tutta l’eternità, attaccato a sta mi anima…. Vojo potè sfruttà ar massimo sta possibilità de vive vivenno tutte le vite cadè possibile vive….(Animula vagula blandula).

La senescenza  rende più amaro il mondo. Tutto da disgusto: lo stomachor omnia di Cicerone del De senectute. La decrepitezza con i suoi più sgradevoli decadimenti fisici fa parte della continua trasformazione. Le foglie cadono perché l’albero fiorisca di nuovo, le stagioni si alternano e dallo scarto rifiutato nasce sempre nuova vita. Eppure…. Il nostro ego si oppone. I primi capelli bianchi, le rughe, i movimenti impediti o rallentati. Si rifiuta di accettare la verità che si apre dinnanzi al nostro sguardo quotidiano. Pur osservando la continua trasformazione che si svolge intorno a noi l’accettazione ha difficoltà. Ogni trucco è escogitato per rifiutare l’evidenza. Ma, poi, lo specchio diviene lo spietato rivelatore. Ed ecco la rassegnazione.

Me sento stanco de me, de sta faccia con la quale me trovo drento allo specchio, gni giorno quanno me sbarbo .Nun posso più sopportalla sta faccia, la forma che cianno er naso, la bocca le guance, pe nun parlà poi dell’occhi…… (Na storia che me piace riccontamme).

Il dialogo con il nostro corpo prende avvio nel corso del dolore fisico e nel decadimento dell’età. L’esser nel mondo si rattrappisce coagulandosi  sul corpo. Il corpo diviene il mondo. E’ il momento in cui la coscienza vede nel corpo un alterità con cui confrontarsi dopo decenni di indifferenza. L’altro mi si pone innanzi proprio perché il suo malfunzionamento mi ha rivelato la sua presenza. Nasce così un dialogo incalzante fra due entità che hanno dovuto convivere sopportandosi perché nessuna delle due ha scelto l’altra.

Me sto bene attaccato a sta mi’ vecchia carcassa, come un lattante che ciuccia la zinna de su madre….Sta vecchia carcassa mia m’è fedele da na vita, nun m’ha mai tradito, puro se io spesso l’ho tradita pensanno a quanto sarebbe stato bello avenne un artra , più mejo fatta de lei, si potevo, nun l’avrei scerta com’è. Quinni ce resto attaccato nun fussi che pe gratitudine e puro perché nun posso fà a meno de lei, pe davero…….Lei puro se sta a guardà, sta carcassa ormai vecchia, e se osserva in de lo specchio. Se farà de le domanne, chi sa quali,  su de se e su de me, come io me le faccio su de lei, che a lei e ar su’ distino so unito insino a la morte senza artra possibilità de divorzio e secessione (La vecchia carcassa).

Che cosa ci sta offrendo Andrea?

Potremmo parlare di Meditazioni, meglio Pensieri ? Ma certo, il far memoria di una vita. Una sintesi disincantata, velata dalla amarezza propria di ogni degna senescenza ma  nella quale affiora costantemente una humanitas raffinata da una cultura profonda che aveva attratto già chi s’era avvicinato alle sue opere letterarie.

Ma c’è qualcosa in più.

Tutto questo avviene nella forma del nostro idioma. Sono molte le poesie redatte nel dialetto della nostra città da parte di poeti  nel tempo. In questo caso disponiamo non di rime sparse ma di un opera unitaria, una meditazione di vita. Far emergere i ricordi dell’infanzia e trarre bilanci sull’esperienza maturata non possono che esser declinati con quell’idioma che per primo ci ha condotti ad esser nel mondo:  ce so cose che nun te posso dì in itajano, me venghino su dar core nella lingua ch’o imparato succhianno er latte de mi madre.

Ma che cosa è il “civitavecchiese”?

Di certo appartiene alla famiglia del romanesco incluso a sua volta nella famiglia dei dialetti dell’area mediana. Ma sono evidenti le differenze. Il romanesco appare co quer tono sfottitore e bbonario come cianno li romani de Roma, ch’è diverso un po’ dar nostro, perché noi nun semo de città granne, ma d’un paesotto qui sur mare, e puro si ce damo arie da cittadini, in reartà  stamo ancora rinchiusi in quelle mura che oramai da tempo so sparite..(Er dialetto).

Come accadde per il romanesco un tempo l’influenza del napoletano ebbe, anche qui, il sopravvento. Nella Capitale  la “smeridionalizzazione”fu l’effetto di vari fattori legati alla corte pontificia e alla veloce espansione demografica. Nel caso di Civitavecchia  l’immigrazione di pescatori di Pozzuoli, Ischia, Torre del Greco influenzò la lingua creando il “ghettarolo”. Ma l’incomprensibilità dell’idioma presto condusse ad una sorta di  “diglossia” tra centro storico e Ghetto fino a che il ghettarolo scomparve del tutto. Il problema che si pone oggi è quello di evitare la banalizzazione del dialetto appiattendolo sul romanesco o la sua lenta scomparsa attraverso quel “pancivitavecchiese” (definizione di Carlo De Paolis) appena velato di inflessione dialettale. Il compito della poesia è proprio quello di far sopravvivere il vero idioma.

Sogno di un ombra è l’uomo .

Il grande dono che Prometeo ha fatto all’uomo non è il dotarlo della prodigiosa tecnica ma semplicemente di distrarlo dal guardare fissa la morte, di far dimenticare l’esito finale, il suo vero e totale destino. Il ribelle Titano scrolla di dosso all’uomo le catene del guardar la morte sostituendo altre catene attraverso l’inganno  di una vita libera dalla prospettiva della morte!

Ma l’inganno è svelato nello sguardo del vecchio.  Er panorama de la vita ha perso la ricchezza de li colori de l’autunno. Ar di là de la finestra quarche ombra se move ne la nebbia. Fa freddo….So io er vecchio impunito e litiggioso che spacca in quattro er capello e discute co la morte che lo fissa da l’occhiaje vòte e risponne frasi incomprensibili…(Da indov’era vienuto?).

Le “cieche speranze”(Eschilo) non sono più l’effimero pharmakon . Necessita incamminarsi senza essere distratti. Incamminarsi per incontrare il volto della Gorgone. Il vecchio non ha dubbi, non deve averne. “Ti prego- egli dice sommessamente- “Non darmi alcuna sollecitazione, io so dove devo arrivare. Forse sarà questo il giusto momento (Kairòs) per osservare ciò che avevo trascurato”. Lo sguardo finale può assumere, difatti, una intensità inusitata.

Vojo camminà piano; te ne prego nun m’hai da mette fretta; vojo annà, là indove ho da annà, senza da a vede che me ne moro pe arrivacce. E’ mejo anzi rallentà er passo ancora un po’ de più, fermasse pe guardasse attorno che ce so tante cose belle qui che nun ciavevo fatto caso prima che ce passavo sempre senza manco arzà la testa…..

Distogliere lo sguardo dalla morte per vivere? Vivere le nostre rovinose abitudini?  Vivere per sopravvivi= vere? Vivere per acquisire risultati effimeri?   C’è quarcosa che nun va , cè quarcosa che proprio nun funziona e che pare proprio na gran presa per culo ner vénne tutto er tempo de la vita pè guadammià quer che serve pe vive….(L’urtimo viaggio).

 Dove sono tutti gli altri? Dove sono i loro corpi, le loro gioie, i dolori, le loro risa? In quale terra essi abitano, quale la loro dimora?

Forse per darci una risposta disponiamo solo della musica. E sono le note di una melodia di Brahms  a squarciare il cielo così che da quella lacerazione ecco apparire il sogno di innumerevoli ombre. …come la musica me porta, pe così dì, còrpo e anima, verso una dimensione antica ma presente, ma vorrebbe dì eterna,indove stanno li ricordi, l’aspirazzioni, l’esperienze de le mijara de mijoni de ommini e donne che semo passati e passeremo come sogni sulla terra( L’amore. La musica).

Il sogno finale.

 Una restaurazione senza pene, assolutoria (apocatastasi) ma….per  tutto il creato. Ogni ente apparso nell’essere e da esso scomparso si ritrova. Dal filo d’erba, dall’animale mite e feroce, da ogni uomo nel corso dell’intera evoluzione. Questo pe davero oltrepassava ogni speculazione , ogni idea più pazzesca, eppure io ero tistimone oculare de l’evento inaudito che, devo dì, me parse puro giusto e, a pensacce un po’ più mejo, me parse che potevo anche accettallo senza fa tante storie, senza arzà er sopraccìo pe criticà sta presa de posizione der Creatore verso un idea de uguajanza e parità de le specie viventi c’hanno preso le strade più diverse ne la storia cusì imbroiata de l’evoluzzione….(Sogno de la fine der monno).

.   .   .

Ecco, dunque, il grande affresco sulla vita che Andrea ci consegna. Ci ha offerto un passato perché è solo recuperando questo che possiamo dare un senso al nostro presente. Ci ha offerto un presente adombrato dalle pene della senescenza perché è solo accettando questo che possiamo mantenere dignità nell’ora del tramonto.

Il fluire della mente lungo tutto l’arco della vita è stato espresso nel nostro idioma, in quel modo immediato con il quale ci relazioniamo. Nonostante le sue vicissitudini  la lontananza non gli ha impedito di mantenere  salda la ricordanza perché “la lingua tiene luogo di patria”quando sei disperso pel mondo.

Tutto questo è avvenuto rifuggendo da quell’irreale dialetto involgarito e banale che Carlo De Paolis condanna in Còre citavecchiese.  Esiste, pertanto un filo che ha sostenuto il cammino nel labirinto della espressività, nella scelta dei termini , nei troncamenti, nello spostamento degli accenti tonici, nelle desinenze lessicali. E questo filo conduttore può essere rintracciato con evidente facilità: C’era un prato de cefole e Giggetto che stava a prua der vuzzo de zì’Ntogno, appena li smicciò….accese er miccio….je scoppiò in mano…..Lo coprissimo co’ ‘na tela, e poi vogassimo diretti verso er porto.(Un prato de cefole, Fernando Barbaranelli, padre di Andrea e Fabrizio).

Nei limiti entro i quali posso parlare a nome degli amici del blog vorrei ringraziare Andrea facendo nostri questi ultimi suoi versi:

L’aria de sta città ch’era la mia,

 piccola sciatta, povera.  Nun c’era,

 fora der mare,  gnente che poteva piacè. Eppuro c’era

tutto. Tutti li sogni. L’avventure.

Ce stava tutto er monno, tutt’intero…..( La città ch’era la mia).

A Citavecchia, degna dei suoi destini.

CARLO ALBERTO FALZETTI

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