Paola de noantri…..

di CATERINA VALCHERA ♦

Di recente ho postato in bacheca la mia reazione “a caldo” (premetto non  benevola) dopo la visione del film che corre sulle bocche degli italici ingegni da circa due mesi, quello che possiamo tranquillamente citare come il colpo grosso messo a segno da Paola Cortellesi. Il suo primo film da regista. Un film multimilionario e che, a mio avviso senza esserne degno, pare ai più meritevole di ulteriori riconoscimenti e premi. Ma davvero il cinema italiano si è ridotto a compiacersi di un simile prodotto da cassetta, spacciandolo per un’opera prima sorprendente e di valore? Per ammissione della stessa protagonista-regista, il feed back di pubblico e di critica, parimenti entusiastico fin dagli esordi, ha sorpreso per prima lei stessa. Lo credo bene. Cercherò di spiegare perché il film non solo non mi ha convinto, ma spesso irritato, senza provocare altro moto in me, né a livello intellettuale né sul piano emotivo. Un prodotto freddo, didascalico, con un finale imprevedibile ma “a tesi” anche quello, come tutto il resto. Una confezione ideata forse per riportare la gente al cinema, strumentalizzando però una questione purtroppo attualissima e tragicamente seria come quella della violenza esercitata sulla donna. E infatti è stato anticipato da un grande battage pubblicitario, cui è seguito il consenso di un pubblico finalmente infervorato da un’opera degna della nostra tradizione cinematografica. Un ballon d’essai, mi verrebbe da pensare. Ma andiamo per ordine. Come per ogni opera che pretenda di ottenere una qualche risonanza nello spettatore, alla fine della visione dovrebbe risultare chiara l’intentio auctoris. A meno che non si tratti -come in questo caso- di un “testo” pasticciato, pieno di citazioni e pretenziosamente pedissequo nei confronti di una stagione culturale, non solo cinematografica: quella del realismo sociale. Senza scomodare Lukaćs, non ci siamo proprio, ma neppure si può parlare di post-neorealismo; la rappresentazione della miseria del popolo romano nel periodo postbellico è di maniera, retorica: gli interni bui e malconci della casa a livello cortile (dove vivono il nonno allettato, ovviamente paterno, i genitori, due ragazzini sboccati e sfrenati e un’adolescente ai  suoi primi spasimi amorosi) sono la brutta copia dell’umile abitazione in cui si muoveva Sofia Loren in Una giornata particolare di Scola, con una ”spolveratina” da Brutti sporchi e cattivi. Nel vero senso della parola, perché il film si apre proprio con l’apertura di queste finestrelle al suono di Aprite le finestre al nuovo sole facendo entrare una nuvola di polvere sollevata dal piancito del vasto cortile condominiale. Un incipit che fa ridere il pubblico e mi fa ipotizzare che la scelta  registica sia “della leggerezza memoriale”, come anche i trailer lasciavano intendere. Classiche palazzine fasciste che si affacciano sulla vita di una delle tante microcomunità sociali fatte di chiacchiere donnesche, lavori a mano e giochi infantili nella Roma del 1946. Spazio chiuso silenzioso cupo e buio vs cortile assolato e chiassoso: un contrasto marcato dalla fotografia in bianco e nero. Già visto tante volte -penso ricordando Pasolini- ma sulla leggerezza mi sbagliavo: mano pesante nella rappresentazione ripetitiva e ritualistica dei comportamenti del marito in canottiera, sbracato  e tipologicamente romanesco : tronfio burino e OVVIAMENTE manesco. Un cammeo? No, una maschera. E la moglie vittima destinataria del quotidiano fracco de botte? Un’altra maschera: un volto senza espressione, salvo quella della bocca semi-aperta della donna che nun deve parlà e che tace anche sotto le percosse. Penso al suo ascendente letterario nobilitato da Boccaccio, la Ghismunda che patisce e soffre senza mai lamentarsi, un’allegoria mariana, secondo la critica. Ma questa figura femminile è senza spessore né verità: e per contrasto penso alla forza drammatica di Nannarella … Il taglio stilistico del film allora qual è? Dramma, tragedia, tragicommedia? Il racconto stesso sembra una sfilza di frames cuciti a filo grosso, anzi grossolano, come le battute inframezzate per strappare la facile risata del pubblico. Il tema centrale, quello della violenza sulla donna fin troppo evidenziato, tanto da risultare artificioso; marcato a pennarello nero con intenti espressionistici? No, comicizzato da movenze di ballo e dalla musica leggera. Un fenomeno così inquietante e di scottante attualità affidato alla danza in maschera di due attori poco credibili tanto sono prevedibili? Lei un bue parlante (come Aristotele definiva lo schiavo) e lui un cattivo impomatato, un Mastrandrea da Commedia dell’Arte che dà l’impressione di non credere neppure lui a quel che recita. Questo è il punctum dolens vero: la vicenda scontata e ripetitiva (salvo la trovata finale) non ha il sapore della verità, nessuna scelta di stile che innalzi il racconto sopra la prevedibilità, nessuna forza ideale che riscatti la povertà del discorso sul piano politico-sociale. Allora cosa ha inteso fare la regista, quale il suo “messaggio”, si sarebbe detto una volta? L’esagerazione di certo non provoca emozione né ribellione critica, ma solo irritazione per il cattivo gusto. Sul piano storico e documentario non aggiunge nulla alla vulgata, cui contribuisce con immagini e macchiette scontatissime quali l’incomunicabilità tra la donna popolana e il soldato americano che regala barrette di cioccolata. Insomma il film tanto osannato mi ha sostanzialmente irritata per la superficialità d’intenti, per la scaltra banalizzazione di un tema così sensibile e delicato: quel marito brutale e sempre pronto alle mani non può rappresentare altro che la sua maschera, tantomeno la forma degradata di una cultura patriarcale. Soprattutto non parla alla coscienza femminile d’oggi: la violenza attuale e i femminicidi sono ben altro, vestono come minimo panni borghesi e nascondono stratificazioni psicosociali ad alta complessità attinenti ai rapporti di genere.  Una “furbata” aver messo in circolazione -ritardandola- il film in questo particolare momento e averlo accompagnato con un passaparola mediatico che ha prodotto il solo risultato di rimpinguare casse da troppo tempo vuote. Mi ha sorpreso soprattutto una cosa: che questa scialba oleografia sia piaciuta alle donne.

CATERINA VALCHERA

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