“I RACCONTI DEI SOPRAVVISSUTI” DI MICHELE CAPITANI – FAVOLA CARCERARIA

di MICHELE CAPITANI

 Anche quel giorno d’ottobre era iniziato come tutti gli altri, da vent’anni. E a tutti i giorni precedenti rassomigliava, una semplice onda indistinta da tutte le altre onde dei giorni, di cui non si scorgeva l’orizzonte. E uguale il luogo e uguale la sequenza di gesti che lo conducevano, quasi involontari, come involontariamente si viene portati dal ritmo inavvertito del respiro.

  Eppure, in un sussulto, gli arrivò una voce nuova: quella voce di giovane donna.

  Da molti anni Pietro Buzzati stava in carcere, e da subito, fin da quel primo giorno ormai remoto, gli era apparso chiaro che non ci sarebbe stato da aspettarsi mai nulla di nuovo, settimana dopo settimana, anno dopo anno, né alcunché di diverso dalle solite voci maschili, dagli sguardi distaccati, dalle parole limitate, e dall’impegno a mantenersi lui per primo sempre guardingo.

  Ma quel giorno, da una delle celle adibite ad aula, udì quel suono sorprendente, che non c’entrava nulla in quel carcere d’uomini.

  Era vero che taluni detenuti attendevano l’arrivo delle insegnanti per avere davanti un volto femminile, per ascoltare una persona più facile al sorriso e magari meno distaccata rispetto a carcerati e secondini, insomma per stare, in qualche modo, con una donna; lui però nella cella-aula non entrava mai. Quella giovane insegnante, forse trentacinquenne, la vedeva arrivare gentile e un po’ assonnata ma già con desiderio di far lezione; la vedeva prendere libri e registri con la collega del giorno, ed entrare; poco dopo la raggiungevano gli alunni. E Buzzati restava a stupirsi di quanto di lei lo colpissero soprattutto il suo modo di camminare, dolce e composto, e il suo parlare: quella voce aveva una permanente nota di bordone sempre rassicurante, e il calore di una voce femminile sempre sorridente nel rivolgersi all’interlocutore. Avrebbe fantasticato in séguito che, se pure a quel suono non fosse corrisposto un corpo e una presenza, lui ne sarebbe stato comunque catturato.

  Addirittura, in certe  mattinate, gli si riaffacciava alla mente la parola “felicità”, seppur confusamente e timidamente, come facendo capolino da un orizzonte lontano. Buzzati infatti intuì che c’era dell’altro oltre al suo camminare al suono della sua voce, il giorno che la sentì chiedere a quei criminali, dopo aver letto alla classe un racconto, che cosa ciascuno di loro pensava che fosse la felicità. Ma cosa mai, riguardo alla felicità, potrebbero scrivere quegli sciagurati, si chiese lui… E solo nel pomeriggio, rincasando, avrebbe anche considerato che per la prima volta da quando lavorava lì, gli era venuto da chiedersi cosa potevano pensare quegli uomini, che pure da anni e anni si vedeva sfilare, dolenti e indolenti, davanti agli occhi.

  Lui rimaneva sempre a udire il suono di quella voce perché, dopo tanti anni di corridoi freddi e sbattere di sbarre, la ventura gliel’aveva inviata lì dentro, facendo corrispondere la sua postazione di controllo, nel corridoio, con la porta della classe di lei (che doveva restare sempre aperta). In verità, forse niente proibiva che anche un agente carcerario, come era Buzzati, stesse dentro la classe, ma agli altri suoi colleghi non fregava nulla, gli importava solo che nessuno desse problemi, mentre lui si sentiva troppo lontano da lei per poter fare l’originale ed entrare in classe: solo a pensarci si sentiva in un imbarazzo intollerabile, e dunque si accontentava del dono grandioso e immeritato di ascoltarla.

  Seppe che si chiamava Nicoletta.

  E anche il nome era per lui il più dolce che avesse mai udito; un respiro di luce, in quel mondo attappato.

*****

  Pietro Buzzati ricordava benissimo il primo giorno che aveva preso servizio come guardia carceraria, vent’anni prima: l’avevano impressionato specialmente quelle grandi pareti candide, d’un bianco uniforme e gelido, superfici desolate e terribili anche più del feroce clangore dei chiavistelli che gli venivano chiusi dietro le spalle, e a poco gli valeva il sapere che dopo qualche ora ne sarebbe uscito: avvertì da subito una comunanza con chi doveva vivere in quell’implacabile biancore e doveva sentire per anni quegli strepiti metallici; poco importava che si trovasse vicino a colleghi, a ladruncoli, a mafiosi: avvertiva sempre verso chiunque un ampio senso di uguaglianza, non soggetto ad alcuna eccezione. Ma ciò non poteva evitare che quegli anni si dimostrassero solo una lunga teoria di giornate lunghe, assopite, sempre uguali.

  Eccetto qualche incidente causato da detenuti, l’unico prodigio davvero da ricordare fu quando vennero rinvenuti dei gattini in un braccio che era rimasto abbandonato per anni; per il resto tutto somigliava sempre a quelle pareti nude e a quella luce fredda. Anche parlare coi colleghi era un aspro linguaggio, brusco e superficiale, il linguaggio scarno di chi si trova anch’egli a fare i conti col metro cubo d’aria che occupa in quelle ore, che poi diventano mesi, poi decenni.

  Ma infine l’arrivo di Nicoletta, il nome più allegro e musicale che una donna potesse avere.

  Solo quando montava in auto per rincasare si domandava che cosa di quella ragazza, oltre la voce, potesse colpire un uomo, o quantomeno lui, che le donne le notava sempre meno, col precipitare degli anni. Sospettava che, se l’avesse semplicemente veduta per strada, zitta, anziché sentirla fra quelle mura fredde, non si sarebbe soffermato ad ammirarla.

*****

  Un giorno un detenuto gli aveva confidato di attendere con crescente paura il giorno di fine pena, dato che, una volta scarcerato, si sarebbe ritrovato a dormire sotto i ponti; gli pareva insomma di dover lasciare casa sua, e Buzzati provò un sentimento di somiglianza ancor più profondo verso quello sconosciuto, poiché da tempo anche lui tornava a casa sua senza vederla molto diversa dalla reclusione: quella casa si era del tutto svuotata dopo l’addio della moglie, dopo la separazione, per una crepa che la lunga attesa di un figlio, che non arrivò mai, aveva allargato fino a spaccare tutto. Forse negli anni ci si era abituato, ma ormai non sentiva quasi differenze tra il rumore di catenacci del carcere, e la serratura del suo appartamento.

  Anche la moglie insegnava lettere, ma proprio non erano riusciti a comunicare, lo sapevano entrambi, e ormai da anni la separazione si era dilatata in un profondo e reciproco silenzio, e nella reciproca non-conoscenza di che fine avessero fatto l’uno e l’altra.

  Si vide infine più recluso dei reclusi, diversamente ergastolano, quando capì che alla domanda di Nicoletta sulla felicità i detenuti dovevano aver risposto con interesse, visto che lei aveva poi deciso di legger loro, brano dopo brano, un intero libro di racconti. Glielo leggeva proprio lei, e Buzzati non ricordava che a scuola si facesse così, poiché ai suoi tempi leggevano gli alunni, qualche riga per ciascuno, a turno, e guai a distrarsi. Lui ora, frammisto a quegli uomini tatuati e poco confidenti, costretti e promiscui, capì di essere il più isolato di tutti, non essendo membro del gruppo classe, e ammise che il cinguettìo di Nicoletta in realtà non faceva che acuire la sua solitudine.

  Nonostante ciò, la tenera voce di lei lo prendeva, ma talmente tanto che quelle volte in cui lui aveva un turno in un altro settore, o i giorni che lei non c’era, iniziò a viverli con un miscuglio di dolore e di sollievo nel vedersi lontano dalla sofferenza di avere a portata di ascolto una felicità, ma senza poter tentare una confidenza, un gesto, senza potersi esporre.

  E col passar dei mesi avvertiva anche un certo freddo alle viscere, che pareva crescere via via che si avvicinava la fine dell’anno scolastico, e il vuoto dei mesi successivi.

*****

  Uno degli ultimi racconti del libro che Nicoletta lesse alla classe parlava di una goccia. Buzzati ormai era abituato alle bizzarrie di quelle narrazioni, ma quel breve racconto maggiormente lo turbò: parlava d’una goccia che lenta lenta, notte dopo notte, risale le scale di un grande e anonimo caseggiato, e tutti stanno intimoriti dietro la porta ad ascoltare se per caso, nel suo inquietante ascendere, tic tic tic, si ferma al proprio pianerottolo…

  Gli alunni ne avevano tratto ed esternato idee che a lui parvero interessanti, e anche a Nicoletta, che però quel giorno non terminò la lettura e li salutò, lasciandoli (lui compreso) con una curiosità proporzionale all’ansia che il procedere della goccia aveva infuso nell’animo dei condòmini del racconto.

  Buzzati colse dunque l’occasione: quando Nicoletta uscì dalla classe, azzardò:

«Scusi, professoressa, ma… come finisce il racconto?»

  Lei gli si bloccò davanti, alzò un sopracciglio sorpresa che quel secondino, sempre sulle sue, le avesse posto quella richiesta, e gli sorrise, con stupore ed ammirazione; ci pensò un attimo, e infine disse, ma con una voce un po’ diversa, che aveva una coloritura che finora Pietro non conosceva:

«Be’… lo cerchi, avrà delle sorprese. Provi in biblioteca, altrimenti aspetti la prossima settimana, se riesce a reggere la curiosità!»

  Lui il giorno dopo andò alla biblioteca comunale (faticando un po’ per trovarla): voleva almeno sapere come andava a finire il racconto, per togliersi quell’assurdo turbamento, datogli dall’ascolto di una specie di favola scritta chissà quando da un autore sconosciuto. O forse era più il desiderio di avere una nota comune a lei, un oggetto di cui parlare, fosse anche per un minuto, un qualcosa che rinnovasse in lei quell’ammirazione che lui le aveva suscitato il giorno prima col suo interesse. Chissà se Nicoletta gli aveva sorriso più per quell’inattesa curiosità letteraria, o per una sua innocente vanità nello scoprire di essere stata ascoltata di nascosto.

  Mentre Pietro scartabellava fra gli scaffali gli venne da pensare a quel che avevano ipotizzato i detenuti, e dunque se la goccia d’acqua non potesse anche raffigurare lui, oppure rappresentava lei, e se c’era un séguito scritto da quello scrittore o da un suo epigono.

*****

  In biblioteca restò due ore, distratto spesso anche da libri che non c’entravano niente, per poi instradarsi di nuovo nella ricerca della formidabile goccia.

  Ma quella volta non la trovò.

  Né poté sapere il séguito chiedendolo a Nicoletta: le volte successive lei non venne in carcere, poi lui fu spostato per un periodo in un altro settore, infine l’anno scolastico terminò.

  Seppe per caso, alcuni altri giorni dopo, che lei proprio in quel momento era lì, per recuperare dei libri e dei registri. Allora Pietro partì per cercarla, corse perfino, sotto lo sguardo allarmato di alcuni colleghi, finché non la intravide da lontano, al fondo d’un corridoio lungo e bianco… stava per gridare, per chiamarla e per dare un’uscita a quell’improvvisa eruzione di sentimenti, quando un superiore lo agganciò per un braccio:

«Buzzati! Oh, e che cazzo facciamo? Lasciamo il posto? Rimane incustodita tutta un’ala. Proprio uno come te… Cristo santo, se lo rifai un’altra volta ti faccio il culo!».

  Ma non sarebbe comunque riuscito a raggiungerla: le pesanti chiavi di un collega che sgranavano la serratura chiudendo la prima porta a sbarre lì di fronte, avevano già divorato lo spazio fra lui e lei.

  Del resto, neanche fuori avrebbe saputo come cercarla: non ne sapeva il cognome, che dentro il carcere non andava pronunciato, e forse non avrebbe saputo comunque cosa dirle. Anzi sì, pensò in un attimo di disperata consolazione: ora aveva la curiosità sul racconto della goccia, e alcune domande su certi libri che aveva compulsato a caso in biblioteca.

  Non gli restava che sperare che sarebbe tornata l’anno successivo, ma non era sicuro nemmeno di questo; ovviamente neanche i colleghi lo sapevano: d’altra parte, che importava agli altri, di lei? Lei e le colleghe erano solo una ventata che squinternava per alcune ore gli equilibri ovattati e immobili del carcere, una presenza incongrua e fugace, e loro sempre attenti a non entrarci in vero contatto.

  A Pietro sembrava che quella giovane insegnante con la sua voce fosse solo un dolce fantasma, e lui l’unico ad averla percepita.

*****

  Ogni volta che tornava in biblioteca ci girava senza mèta, lasciando passare le ore, e trovando alle volte qualche lettura che gli piaceva, e che si portava al tavolo, immergendovisi. Certi giorni si trovava a restare in un solo settore, sfogliando testi su argomenti che un tempo gli erano interessati, quando da ragazzo aveva praticato quel tale sport, o quando aveva tentato l’università, lasciandola però anzitempo; e un’intera settimana stette nel settore umorismo e fumetti, avvolto da ricordi d’infanzia. Altre volte si dava ad argomenti inconsueti, così senza costrutto, lasciandosi spingere dal tenue vento che scaturiva dallo sfogliare le pagine.

  Scoprì che anche le semivuote mensole della biblioteca in carcere svelavano talvolta qualcosa di interessante, e in ogni caso migliore rispetto al vuoto delle ore seduto alla sua postazione, senza più la voce di Nicoletta. La gran parte del tempo libero, comunque, lo trascorreva ormai alla biblioteca comunale, luogo uguale e diverso dal suo posto di lavoro: anche lì stava fra vaste pareti bianche e gente che pensava agli affari propri, ma non c’era la voce di lei a dare colore al vuoto, né le voci delle persone lì sedute. C’erano altre voci, sì, infinite voci sussurranti o potenti a seconda dei personaggi che gli parlavano in quel dato libro, che calava giù dallo scaffale e gli si concedeva senza sforzo.

  Le voci più belle erano quelle di alcuni libri illustrati della sua infanzia, perché era come sentire anche una sua stessa voce, di Pietro bambino, di tanti anni prima.

  Scoprì infine, esplorando i miti greci, che la sua sofferenza provata con Nicoletta aveva un nome: l’essere prossimo a qualcosa di desiderato, ma senza poterlo avere, era una storia già narrata, cioè il supplizio di Tantalo. Fu solo una delle infinite conferme che in quel luogo, che un mese prima nemmeno sapeva che esistesse, si parlava anche di lui, e dunque seguitò a perdersi tra gli scaffali. E più si perdeva nei libri, meno pensava alla goccia, che pure l’aveva scavato di irrisolta inquietudine.

  Di tanto in tanto, per un momento, pensava anche a Nicoletta, oramai però convinto che di lei non gli fosse rimasto nulla.

MICHELE CAPITANI

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