I CANTASTORIE TRADITI — COME SI DISTRUGGE IN CINQUANT’ANNI E SPICCI UNA CIVILTÀ COSTRUITA IN TREMILA ANNI.

Questa è l’ultima tappa di un lungo viaggio che abbiamo fatto con l’amico Ezio Calderai.
Iniziammo a pubblicare il suo libro il 28 novembre 2022 e per 40 capitoli lo abbiamo seguito apprezzando la sua cultura, il suo linguaggio, la sua vis polemica.
E’ stato un piacere Ezio averti così a lungo con noi.
Sarai nel nostro ricordo con affetto ed amicizia e continuerai a vivere anche nelle pagine che ci hai lasciato.
Grazie per ciò che hai saputo darci.

corre-interlinea

di EZIO CALDERAI

Capitolo 40 (quarta e ultima parte): La Marcia irresistibile del Belpaese verso il gradino più alto del podio. Il vuoto lasciato dagli anticorpi del conformismo e della stupidità: Ennio Flaiano, Leo Longanesi. Un verso di
Omero anticipazione del sogno. Il rifiuto di quelli che ci vogliono controllare e punire per il nostro
bene. Il destino della civiltà occidentale legato ai cantastorie, che ci hanno regalato momenti di
felicità in una bella serata di luglio a Via Monte Grappa, strada storica di Civitavecchia?

   Credo non mi perdonerete mai quest’ultima parte assai melodrammatica, quasi patetica.  

   I più smaliziati, d’altra parte, avranno subito riconosciuto il bignami56 della teoria liberale del grande Karl Popper57. Lasciatemelo dire, la speranza che il nuovo ordine spazzi via le autocrazie di ogni tipo, da quelle ideologiche a quelle teocratiche, per finire a quelle personali o familiste, sorrette soltanto dall’egoismo, dalla volontà di potenza personale, dall’amore per il denaro, è dura a morire.  

   Non è che abbia scritto questo libro per sciorinare, nell’ultima pagina, il manifesto del pensiero liberale; so perfettamente che esso è minoritario, ad essere generosi, che Popper nel secolo degli orrori è più letto che praticato.  

   Egli racconta, in un libricino, la sua conversione al liberalismo; aveva 16 o 17 anni e, nella Vienna sfigurata dalla Prima guerra mondiale, diventata una fogna a cielo aperto, dopo essere stata l’Atene dell’Ottocento, si iscrisse al Partito Comunista. Nella cellula c’erano molti ragazzi, giovanissimi come lui, e un segretario iperattivo, che, però, non sapeva far altro che organizzare manifestazioni di protesta, una dopo l’altra.  

   Una fu quella fatale. 

   Il segretario parlò di una spallata al regime, quel giorno dovevano essere uniti e aggressivi, Mosca avrebbe apprezzato.  

   Venne quel giorno e fu un bagno di sangue. In terra rimasero anche molti ragazzi della sua cellula.  

   Quando si ritrovarono, il Segretario disse che era molto fiero di loro, addirittura aveva ricevuto un telegramma da Mosca, i padroni avevano avuto una lezione e la prossima volta sarebbero stati passati per le armi. Non una parola sui ragazzi, che avevano perso la vita. Il giovane Popper si alzò e disse al Segretario: ma non vedi le sedie vuote dei ragazzi che hai mandato a morire. Per cosa? Tu non vuoi un mondo migliore, vuoi soltanto la gloria del Partito e non t’imbarazza se è sporca del sangue. 

   Il Segretario non fece una piega, la vita degli altri non contava.  

   Popper capì che il mondo, che pretende il sacrificio assurdo dell’individuo, non era il suo mondo e se ne andò, giurando a sé stesso, che mai sarebbe stato dalla parte di chi comanda in nome del bene.  

   Forse per la prima volta rifletté sui milioni di giovani mandati a morire nelle trincee da un sistema decrepito, in nome della gloria, della patria, in realtà per conservare lo status quo. Poi vennero gli Stalin, gli Hitler, i Mussolini, i Mao Tse Tung, i Pol Pot, i genocidi, le apartheid e così fino ai nostri giorni, in una teoria mai interrotta. Naturalmente questi carnefici agirono per il nostro bene.        

   Non per difendermi, tutto sono meno che un moralista. Mi interessava soltanto dare un’idea dello splendore della civiltà occidentale, pur sapendo che, nei secoli, si è fatta strada nel sangue. La Società aperta non è stata parte negli orrori del secolo breve e chissà non possa essere, non da sola, ma con   chiunque non voglia comandarci per il nostro bene, la speranza che il declino non sia definitivo.  

   I cantastorie non lo vorrebbero e sarebbe un delitto tradirli.   

*** 

 Un’insperata palingenesi? 

   Per puro caso, in una bella serata di fine luglio, la speranza ha preso corpo, All’aperto, in una strada storica del centro di Civitavecchia, davanti a un pubblico folto e popolare, tre ragazze, brave, appassionate, colte, hanno fatto rivivere, lo dico sinceramente, i cantastorie. Il loro carro di Tespi, dal quale vertiginosamente entravano e uscivano per cambiarsi, per prendere cappelli, boa intriganti, strumenti musicali di fortuna, l’avevano parcheggiato lì vicino. Con maestria passavano da un pianoforte elettrico a un contrabbasso, da uno xilofono a una fisarmonica. Su tutti dominava, come giusto, un violino.  

   Contavano la storia della loro città, disseminata di imperatori romani, Traiano e Adriano, di Papi, Giulio II e Urbano VIII, di artisti sublimi, Apollodoro di Damasco, Leonardo da Vinci, Giuliano da Sangallo, Donato Bramante, Michelangelo Buonarroti, Gian Lorenzo Bernini, Vanvitelli fiammingo-napoletano, di popolani rimasti nell’immaginario collettivo, della vivacità dei mestieri che un tempo brulicavano in quella strada, insieme alle case dell’amore, dato e donato, che vi proliferavano.     

   Le loro belle voci riprendevano canzoni antiche del belpaese, che i bambini conoscono senza averle mai ascoltate. Con il loro talento hanno regalato ai bambini, alle donne e agli uomini di ogni età, che le ascoltavano, una serata di felicità, non diversamente dai greci che tremila anni fa restavano rapiti dal cantastorie, che, giunto nel villaggio, cantava le nozze di Cadmo e Armonia.    

   Andranno in Umbria, in Toscana. Dappertutto, mi auguro. Finché gireranno, la nostra civiltà saprà resistere e sarà capace di ribellarsi al declino.     

   Forse

                                                                               Ezio Calderai                                                                                                             (fine)

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