“I RACCONTI DEI SOPRAVVISSUTI” DI MICHELE CAPITANI – SCRIVERE IN ALFABETO ROSSIANO

di MICHELE CAPITANI

Ogni volta che in classe si parla di quella tecnologia miracolosa che è la scrittura (per esempio, la nascita della scrittura come inizio della Storia), io vado coi ricordi a uno dei più incredibili alunni che ho incontrato: Andrea Rossi. Se un giorno gli passerà mai sotto gli occhi questo racconto, gli invio un caro saluto per interposto blog.

Egli di memorabile aveva due cose: la scrittura e il carattere. Non ci tengo a impigliarmi nelle teorie su quanto queste due cose tanto umane siano allacciate e consequenziali: qui preferisco narrare, soprattutto narrare della prima.

Quando lo conoscemmo, ci parve un ragazzo di somma timidezza, che arrossiva permanentemente, si tormentava le dita e voltava lo sguardo di qua e di là, in una timidezza direttamente proporzionale alla loquela inarrestabile della madre, un antipatico donnone che lo sovrastava e rispondeva al posto del figlio; perciò provammo un’immediata e totale simpatia per questo ragazzo, che un paio d’anni prima aveva mollato le medie certamente anche per colpa di una disgrafia non riconosciuta da parte della classica famiglia deprivante (la famiglia che però, con scriteriata e criminale chiusura mentale, finisce per privare in primis sé stessa della possibilità di aiutare il proprio figlio; triste e irritante storia, sentita innumerabili volte).

La sua scrittura… forse qualcuno ricorda il Ferrari, che Primo Levi incontra e osserva ne “La tregua”? Be’, Andrea era un originalissimo (e finora irripetibile, in tanti anni che insegno) uguale-e-contrario di quel picaresco compagno di ritorno dalla guerra: come il Ferrari compitava a fatica tutte le lettere e poi tutte le parole anche di tomi giganteschi (raccattati a casaccio e qualsiasi fosse l’argomento, e forse anche in lingue straniere) ma senza mai capire né tentare di capire il senso delle frasi e perciò ancor meno della lettura complessiva, ebbene il nostro Andrea scriveva il suo tema, in genere dignitoso anche per le idee che vi metteva e per la proprietà di linguaggio e per la completezza, soltanto che vi comparivano sempre alcune parole che io non riuscivo minimamente a comprendere; era una questione squisitamente di grafia.

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Parentesi utile. Un insegnante di italiano legge tranquillamente una grafia, che quasi equivale a un alfabeto, per ciascun alunno che ha; questo assunto gli alunni stessi non se lo immaginano, visto che spessissimo avviene che accompagnano il primo tema che mi consegnano con l’avvertenza: «Professo’, io scrivo male, non lo so se ci capisce», senonché solitamente si tratta di scritture del tutto comprensibili. Magari in altra sede parliamo del perché molti studenti (non solo ragazzi, nel nostro caso della scuola serale) abbiano sì scarsa considerazione della propria scrittura; io ho in mente svariate spiegazioni possibili (ma ottimisticamente potrebbe essere anche una tattica velata per accampare una propria originalità, non so).

So che Andrea è davvero l’unico che mi abbia posto sistematicamente in difficoltà: scriveva le lettere in maniera spesse volte differente da come aveva fatto prima, così che non potevo decifrarle nemmeno comparativamente, quelle parole ermetiche che alla fine, arreso, segnalavo come non comprensibili. Insomma non trovavo precedenti da cui capire, neppure in temi che aveva già scritto: ero dinanzi a lettere che non si iscrivevano in nessuno schema, tantomeno suo. Ma diciamo pure: in nessun alfabeto!

Mi pare che i grafologi la chiamino “grafia fluttuante” o qualcosa del genere.

Mi sentivo come i primi scopritori della “lineare A” cretese, non poteva aiutarmi nessuna tavola sinottica degli alfabeti, nessun appiglio a un’eventuale lectio difficilior… Alle volte quei termini oscuri mi ricordavano l’alfabeto armeno o quello ahmarico (non che io li sappia leggere, beninteso).

Pensando alle varie grafie che ho dovuto affrontare, e sempre parlando di scuola statale per adulti, rammento di una ragazza che segnava una stellina al posto dei puntini, o un signore che ogni tanto scriveva un trattino ma senza chiuderlo (mi ricordava Giorgio Caproni!), oppure Olga, moldava russofona che mi consegnava la brutta copia in cirillico; poi càpita qualche ragazza, (mai uomini, chissà perché) che scrive anche in corsivo con lettere alte quanto tutta la riga, mentre all’opposto mi ricordo Antonio, che mi consegnava temi veramente splendidi ma stilati con lettere di dimensioni batteriologiche.

E venne un giorno Floriana, casalinga quarantenne che scriveva ondeggiando fra le righe, cioè onde che facevano su e giù fra le righe orizzontali del quaderno, roba da far venire il mal di mare…. O Daniela, che scriveva indifferentemente con la destra e la sinistra.

La grafia personale è davvero un fenomeno, da ascrivere talvolta a livelli circensi!

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Tornando ad Andrea, secondo me aveva una mente troppo ricca perché in adolescenza non litigasse un po’ con la mano scrivente, ecco perché ogni tanto lasciava lì vergata, appunto, una parola indecrittabile.

Io ipotizzavo che, nel tempo che ci metteva a scrivere una certa sillaba, entrava in un enigmatico alfabeto mai usato prima e che sarebbe scomparso subito dopo, per sempre, nell’infinito e impenetrabile mondo del possibile, mentre la sua mano procedeva lasciandosi alle spalle segni che poi sarebbe toccato a me decodificare.

Ma, un po’ perché lui, essendo acuto osservatore di momenti e cose e persone (come ogni timido), ne metteva eccome di contenuti nei temi, e un po’ perché era un ragazzo in gamba e molto educato, iniziai a capire che si poteva porre la faccenda anche in modo sereno.

Dunque. Io quando riconsegno i temi corretti, generalmente chiamo qualcuno per fargli scrivere qualcosa alla lavagna: nel suo tema infatti possono trovarsi parole o frasi o estratti utili poiché hanno a che fare con argomenti recenti, magari di analisi logica, o perché vi sono errori comuni ad altri compagni che quindi correggiamo collettivamente, ma soprattutto per cose positive che è bene far notare a tutti (idee, termini, descrizioni, riflessioni, forme originali, efficacia della punteggiatura), per valorizzarle, e anche per dare suggerimenti ed esempi agli altri. E per dissociarmi, lo riconosco, dall’immagine del docente preposto in primis a puntare il dito contro quel che c’è di sbagliato.

Ebbene, al chiamare Andrea, gli chiedevo ovviamente di svelarmi gli arcani di quei termini oscuri; al mio sbalordimento nell’apprendere che quel segnaccio voleva essere quella tale lettera, a lui veniva da ridere, anche perché non è che io glielo rimproverassi, anzi veniva a ridere anche a me, mentre lo esortavo solo a essere un po’ più attento nello scrivere (battaglia persa, battaglia vana, anche questo lo capii presto, poiché la variabilità dei grafemi non si corregge mica così, con una pacca sulla spalla).

Del resto, quante volte anche a ognuno di noi adulti può esser capitato di pensare, e non solo scrivendo, che le mani ragionino per conto loro? Una dimenticanza in ciò che si scrive, una maldestraggine, o al contrario: sembra che la mano stessa abbia contenuti a cui la mente non riesce a tenere dietro… Manzoni (cito a memoria) scrive che qualcosa gli era rimasto “nella penna”, e così tutti possiamo dire che almeno una volta nella vita qualcosa ci è rimasto nella mano. E parliamo di contenuti; figuriamoci se parliamo di modalità di scrittura… Perciò, nel chiedere a un adolescente di divenire del tutto padrone della propria enigmatica grafia, ragionevolmente non potevo esigere troppo, tanto più che Andrea era un tipico ragazzo del serale, con considerevoli difficoltà nell’ambiente di provenienza, e diversi fallimenti nel suo percorso scolastico.

Iniziai dunque, una volta che fui sicuro che lui non era suscettibile circa quella faccenda, a scrivere io quel ghirigoro sulla lavagna:

«Allora, per farvi mettere nei miei panni quando leggo i vostri temi, guardate qua, e aiutatemi a capire cos’ha scritto stavolta Andrea»

Lo tracciavo, quel ghirigoro, ben attento a riprodurre, anzi praticamente a disegnare fedelmente la parola in questione. A volte pareva una lettera tamil, altre volte un glifo maya, e i suoi compagni, tutti da vedere: chi strabuzzava gli occhi, chi iniziava a concentrarsi per tradurre prima degli altri, chi iniziava a pensare a varie ipotesi su quali lettere avrebbero dovuto essere, e chi mostrava una maschera di arresa perplessità, e chi semplicemente:

«Ah Andre’, ma che cavolo ci hai scritto?!»

Lui rideva di gusto, poi mi svelava la parola. Alla quale, si capisce, nessuno aveva pensato.

«Cosa?!» esclamavo io, e lì risate, battute… qualcuno urlava:

«Pòrtace un vocabbolario!»

Inutile dire che in alcune occasioni lui stesso non seppe decifrare quell’ineffabile graffio.

Questa correzione un po’ scanzonata si rivelava un modo per capire che la scrittura è strumento che avrà pure finalità in genere comunicative, però è sempre un fenomeno personale e personalizzabile, e se pensiamo a quanto un tema possa mettere in difficoltà e in soggezione, non mi pareva cosa da poco parlarne e riderne tutti insieme.

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Come sempre, le parole ci stimolano, e suggellano situazioni speciali: in classe venne coniato un nuovo aggettivo denominale, anzi… decognominale: l’ “alfabeto rossiano” (ecco perché mi sono permesso, eccezionalmente, di fare il cognome di uno studente di cui narro). Alfabeto unico al mondo, tanto difficile da ideare quanto impossibile da riprodurre, giacché una qualsiasi lettera, e solo in quella parola di quel certo tema, veniva scritta con un segno mai veduto, né ripetuto in seguito.

Il conio lessicale forse fu mio, ma ciò che conta è che divenne parte del patrimonio lessicale condiviso da tutta la classe: più volte qualche suo compagno osservava, dispiaciuto: «Eh professo’, mi sa che ho scritto in rossiano», se gli dicevo di non aver capito una parola nel tema.

Per questo, nuovamente e retroattivamente, devo ringraziare Andrea: la sua autoironia permise di creare un momento che era di tutti, per sdrammatizzare, e per educare, penso, a capire cosa distingue l’individuo: i bisogni primari ce li abbiamo tutti gli otto miliardi che siamo, ma il modo di scrivere (insieme ad altre cose irripetibili come il sonno, le emozioni, la postura, la memoria…) è ciò che immediatamente ci distingue da ogni altro essere umano: se un uomo è le parole che pronuncia, è anche il modo in cui le scrive. Pertanto, “di ogni parola inutile dovrai rendere conto”, disse quello, ma di ogni sillaba incomprensibile la classe ti ringrazierà: dal vangelo secondo me, anzi secondo Andrea.

E se la classe inventa un termine nuovo su un difetto di un proprio membro, il quale raccoglie lo stimolo a riderci sopra lui per primo, ciò significa che hanno fatto tutti quanti un cospicuo passo avanti.

Me compreso.

MICHELE CAPITANI

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