VIAGGI DI ME (12) -UN VIAGGIO IN GIAPPONE (II). IL MIO GIORNO A TOKYO 

NICOLA R. PORRO

 Mi sveglio prestissimo e pieno di baldanza: pregusto la scoperta di Tokyo. Però arriva subito la doccia fredda: nella hall dell’hotel mi attende Mutsuhito che mi comunica di essere stato convocato all’Università per una questione importante. Deve rinunciare a farmi da cicerone. Lui è desolato, io terrorizzato… affrontare da solo l’esplorazione della maggiore megalopoli del pianeta senza capire una parola della lingua, scritta o parlata che sia, mi appare un’impresa folle. Il mio amico, però, è già corso ai ripari. Ha meticolosamente predisposto un itinerario e indicazioni dettagliate che si riveleranno preziose. Provvede anche a munirmi di una specie di prontuario. Con tono perentorio aggiunge una serie di raccomandazioni. Dovrò preventivamente rinunciare alla pretesa di vedere tutto quanto materialmente possibile: meglio la qualità che la quantità. Dovrò usare solo treni e metro (allo scopo mi fornisce una preziosa card giornaliera) e per l’itinerario seguirò rigorosamente le sue indicazioni. Per visitare musei, templi, edifici storici sarà invece indispensabile affidarmi al bus turistico. Mutsuhito ha già acquistato per me  l’indispensabile saltafila che evita code estenuanti. La stagione non è turistica ma la conurbazione di Tokyo superava già all’epoca, tanto per dare un’idea, la popolazione di Paesi Bassi più Belgio. Mi viene consigliato di non fare ricorso ai taxi: sono comodissimi ma hanno costi astronomici e non possono far fronte a un traffico perennemente congestionato. Non basta: non avrò tempo nemmeno per uno spuntino seduto. Mentre penso di rivolgermi al tribunale per i diritti dell’uomo, Mutsuhito mi rassicura: al ritorno provvederà a consolarmi la cena che la premurosa padrona di casa ha già cominciato ad allestire. Il cielo è terso, ma alla reception mi muniscono di un vistoso ombrello dai colori sgargianti.

2_autobus

Il clima di Tokyo è del tipo che i climatologi definiscono “sub-tropicale umido”. Il mese di marzo appartiene all’imprevedibile stagione delle piogge: in pochi minuti il sole può lasciare il posto a forti precipitazioni. Dopo avermi debitamente catechizzato, Mutsuhito mi accompagna alla fermata metro più vicina (allora erano nove linee, oggi sono tredici) per raggiungere in mezz’ora di viaggio nelle viscere di Tokyo il luogo eponimo del turismo ipercompresso: la stazione di partenza dei bus Hop-on-Hop-off. Munito della pass card, mi imbarco su uno degli autobus. Il tempo regge ed è meglio approfittarne rinviando al pomeriggio l’esplorazione di almeno uno dei due quartieri di maggiore interesse. Gli autobus scoperti in poche ore toccano la maggior parte dei punti di interesse turistico. Si può scendere per una visita e attendere una corsa successiva per proseguire l’itinerario. Turismo usa e getta: devo fare di necessità virtù. Getto un’occhiata fuggevole al maestoso Palazzo imperiale peraltro anch’esso privo dell’imponenza europea.

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4 mappametroVa detto, però, che le megalopoli asiatiche presentano una morfologia urbana diversissima dalle nostre. Non siamo a Roma, ad Atene o a Parigi: non ci sono reperti archeologici o edifici monumentali imperdibili. Occorre assumere un’ottica diversa, sforzarsi di catturare sensazioni più che di memorizzare panorami e scenari. Seguendo i consigli ricevuti, mi concedo la visita di qualche santuario o tempio raggiunto dall’itinerario. Tokyo ne possiede diversi abbastanza suggestivi e importanti pur non potendo competere con Kyoto che dista sei ore di viaggio dalla capitale. Dedico quel che resta del pomeriggio ai due più celebrati santuari shintoisti. Quello di Meiji, vasto e dall’interno disadorno, sorge in uno splendido spazio verde. Il suo parco fa da sfondo alle processioni che aprono e concludono i matrimoni religiosi. Incontro sacerdoti che stanno officiando in un’atmosfera non particolarmente solenne.  L’altro, quello di Yasukuni è di interesse storico più che artistico ed è ben poco monumentale. Imparo che i santuari appartengono al culto shintoista e i templi a quello buddista. Ai primi si accede tramite un portale d’accesso chiamato torii che segna il confine fra sfera del sacro e mondo profano. Si accede con un piccolo inchino evitando di occupare il centro dell’ingresso. All’interno un religioso mostra il padiglione dell’acqua (temizuya) dove i devoti possono purificarsi (materialmente e simbolicamente)prima di accedere all’altare e presentarsi alla divinità. Quest’ultima, ci informano, gradisce assai che si lasci una offerta in denaro. Dopo si potrà impugnare un campanello per salutarla festosamente, eseguire una specie di applauso per manifestare gioia, recitare una preghiera e alcune incomprensibili giaculatorie. Prima di uscire è prassi un ultimo inchino alla divinità. Ai templi buddisti (più di settantamila in tutto il Paese) si accede invece tramite una porta d’ingresso monumentale denominata sanmon.

5 Mei-ji_santuario

6_Meiji_Sacerdoti

7_TEMPIO

Dall’esterno sembrano più vasti e solenni dei santuari shintoisti ma all’interno sono arredati tutti in maniera identica, tanto da renderli indistinguibili l’uno dall’altro. I santuari shintoisti, invece, sono meno sfarzosi e addirittura disadorni all’interno. L’assenza di qualsiasi forma di monumentalità celebrativa o liturgica è evidentemente propria della cultura e dell’estetica di questo Paese. Capisco meglio l’espressione attonita dei turisti giapponesi in visita a San Pietro o a Notre Dame. I musei di Tokyo godono di ottima fama, sono tutti ubicati in zona ma rappresentano un lusso che la tirannia del tempo non mi concede. Pare siano eccellenti quelli dedicati alla scienza e alla storia nazionale. Quelli propriamente artistici richiedono invece guide specializzate. Mi spingo al Mercato del Pesce di Tsukiji, considerato allora il più grande mercato ittico al mondo. In effetti è un’autentica città che serve milioni di cittadini e soddisfa una cultura gastronomica quanto mai sofisticata e che privilegia l’offerta ittica. Carne e latticini non sono apprezzati, le verdure sono consumate in abbondanza ma molte di quelle che vedo mi risultano del tutto ignote. Le botteghe al dettaglio si affacciano all’esterno dell’imponente mercato ittico.

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 Si sono fatte le 12, che è l’ora canonica del pranzo (anche la cena non si consuma mai più tardi delle 18). In una specie di taverna all’aperto mi fanno assaggiare un piattino di sushi davvero delizioso ma non si capacitano dello scarso interesse che rivolgo a vassoi di alghe variamente lavorate. Provano a vendermi confezioni di coltelli di ogni tipo e dimensione non capacitandosi del mio scarso interesse per il prodotto e per le tecniche di accoltellamento che potrei apprendere. Tanti passanti stringono nelle mani una scatola di cartone: è il bento. Contiene l’essenziale per il frugale pasto di impiegati in pausa pranzo. Quanto a me, confidando nella cena da Mutsuhito, mi accontento di ingurgitare cammin facendo una manciata di pop corn e di addentare una specie di salsiccia dal sapore indefinibile. Non mi rendo conto di dare un pessimo esempio: consumare cibo per strada, imparerò troppo tardi, è segno di maleducazione, come pure starnutire o soffiarsi il naso in presenza di estranei. Quando si vuole manifestare apprezzamento per una minestra, invece, è d’uso succhiare fragorosamente il cucchiaio e rumoreggiare con la bocca…

10 Shybuya

11 Senso-ji

Passo passo mi ritrovo ai piedi della grande torre incontrata la sera prima al rientro da Tsukuba. Grazie a una specie di ascensore superveloce salgo in cima per ammirare dall’alto la sconfinato skyline della metropoli. Il tempo è tiranno. Seguendo le istruzioni ricevute sprofondo di nuovo nelle viscere della terra. Devo scegliere fra due destinazioni possibili. Ma quale scegliere fra Yanaka e Akasuka (ognuna delle due ha la popolazione di una città come Milano)? Torno ad Akasuka, dove visito il grande tempio buddista Senso-Ji. È il più antico di tutta la città ed è celebre per il grandioso portale chiamato Kaminarimon (la porta del tuono), decorato con una grande lanterna di carta rossa. Attraverso un’altra porta (Hōzōmon) porta accedo a una specie di cortile occupato da una pagoda a cinque piani. All’interno del padiglione principale troviamo la statua di una divinità non meglio definita che chiamano Kannon. Terminata la visita una metropolitana affollata e vecchiotta ma efficientissima mi conduce a Shibuya. Qui, secondo la guida, si trova l’incrocio stradale più trafficato del pianeta. Non stento a crederci ma osservo di sfuggita qualche angolo più aggraziato. In uno di questi sorge la statua dedicata al cane Hachiko, considerato un vero eroe nazionale.

12_hachiko solo

Si racconta che, dopo la morte improvvisa del suo padrone, un celebre agronomo, per dieci anni il fedele animale si sia recato ogni giorno, alla stessa ora, ad attenderlo alla stazione di Shibuya, dove l’uomo partiva e da dove arrivava quotidianamente in treno. La storia commosse il Paese e nel 1934 al cane fedele, un bell’esemplare di razza akita e di grande taglia, fu eretta una piccola statua in prossimità di un ingresso della stazione metro dove sostava. Nel 2015 l’hanno sostituita con una più vistosa che lo ritrae in compagnia del padrone. 13 HACHKO FILMIl suo corpo è stato preservato tramite una tecnica speciale chiamata tassidermia ed è adesso esposto alla sezione di Natura e Scienza del celebre Museo Nazionale. Alla vicenda furono dedicati anche un paio di film – il più famoso interpretato da Richard Gere – e alcuni libri. Il nome del cane in realtà era Hachi (Chūken Hachikō significa invece, alla lettera, cagnolino otto volte fedele). La vicenda del fedelissimo quadrupede sarà in serata oggetto di un’interessante conversazione con Mutsuhito e un altro collega durante la nostra cena conviviale.

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Rischio di far tardi e non posso permettermelo: Mutsuhito ha organizzato la cena in mio onore a casa sua, invitando anche colleghi che mi vuole presentare. Presentare all’invitato straniero gli amici più stretti o, nel mio caso, qualche collega di lavoro, è un rituale ferreo. Un ospite va sempre invitato a casa, il ristorante – oltre ad avere costi proibitivi – è per i pasti di lavoro o per occasioni speciali. Cenando prestissimo rispetto ai tempi tricolori, abbiamo tutto il tempo per gustare le pietanze e potrò rifarmi del quasi digiuno del mattino. La cena è il pasto principale e quello consumato con assoluto rispetto della tradizione. Non esiste una sequenza di piatti serviti come primo, secondo ecc. all’uso occidentale. Tutte le pietanze sono in tavola anche se tutti preferiscono iniziare con una minestra a base di riso e proseguire con tre diversi piatti. Le porzioni sono molto piccole ma ci si serve a volontà. È giudicato irrispettoso imporre all’invitato la quantità di cibo che può consumare così come rifiutare una portata da parte dell’invitato. La qualità di un pasto, inoltre, si giudica dalla varietà dei cibi e dei sapori e non dalla quantità delle portate. Imparo che il suffisso nomo indica la portata, mentre i prefissi variano in relazione al tipo di cibo. Namamono è un piatto crudo, mushimono una pietanza al vapore, agemono un fritto come il tempura ecc. Spesso si serve una zuppa di vermicelli chiamata ramen che vanta un incredibile numero di varietà come i nostri spaghetti.

15 TAVOLA 1

Scopro anche che risucchiare avidamente e rumorosamente i vermicelli ha una funzione pratica. Serve a raffreddarli, evitando di bruciare il palato visto che vanno serviti caldissimi. In tavola campeggia infatti un fornello con una pentola fumante cui si attinge a piacere. Si beve soltanto tè e non si consumano alcolici durante i pasti. 16 TAVOLA 2Mi offrono però una birra leggera di produzione nazionale che sorseggio per pure ragioni di galateo non essendo elegante rifiutare una cortesia.  A tavola riprendiamo la riflessione su Hachiko. Mi spiegano che il cane devoto è il simbolo di un valore cruciale per la cultura sociale giapponese: quello della fedeltà. 17 TAVOLA 3Nel suo significato letterale – intraducibile nelle lingue occidentali – allude però a una forma di dedizione non imposta. Non solo: contiene il richiamo a una specie di patto della lealtà fra uomo e natura. Secondo gli amici che (da sociologi) cercano di spiegarmela è importante il riferimento storico-temporale. Gli anni Trenta segnarono l’inizio di una modernizzazione accelerata del Giappone presto seguita dalla catastrofe bellica.

Il richiamo al rapporto primario fra uomo, ambiente e mondo animale serviva forse a ristabilire un equilibrio minacciato e a esorcizzare il timore di una perdita di identità e di una diffusione di quella che la sociologia di Durkheim aveva chiamato anomia. La narrazione di Hachiko e della sua incrollabile fedeltà avrebbe agito come una sorta di effetto placebo a esorcizzare il rischio del naufragio di un intero sistema culturale dominato, più di quello occidentale, dalla filosofia del controllo. Ho anche letto che anni dopo, nel 2015, è stato eretto un nuovo monumento che ritrae Hachiko insieme al suo padrone. Mi è venuto da pensare che si intendeva forse simboleggiare una sorta di pacificazione fra l’uomo, il fedele animale e un ambiente urbano ormai irriconoscibile. La cena si conclude a ora tardissima per le usanze locali. Ci accomiatiamo celebrando gli ultimi convenevoli. Uno dei commensali mi accompagna in hotel. Mi attende una levataccia: la mia toccata e fuga in estremo Oriente volge al termine. Anni più tardi avrei visitato la Cina, la Thailandia, tutta l’Indocina e il Rajasthan indiano. Non sarei però più tornato in Giappone. Chissà se sono fuori tempo di massimo…

18_Hachiko e padrone

NICOLA R. PORRO

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