Ma anche no!

di CATERINA VALCHERA

Quante volte lo abbiamo ascoltato negli ultimi tempi accanto ad altre locuzioni come assolutamente no, piuttosto che (quest’ultimo usato non per istituire una comparatio ma per fare un elenco di cose, oggetti, concetti)!Quante di queste distrazioni/distorsioni ci regaleranno di qui in avanti i media nella versione social e televisiva? Da questi vizi si salva (ancora per poco, temo) il mondo del cartaceo, ma la forzatura linguistica è sempre in agguato, come disgrammaticalità o come grossolano errore d’uso. Nell’intenzione del parlante odierno Ma anche no equivale  a un normale NO e non apre, assolutamente no (qui ci vuole), a una diversa prospettiva sulle cose, non inocula alcun dubbio nella rappresentazione del reale o nella sua interpretazione. L’espressione potrebbe invece essere appropriata per le modulazioni del “pensiero osservante” del signor Palomar, l’ultima prodigiosa “invenzione” saggistico-narrativa di Italo Calvino. Di lui e del suo particolare sguardo, come dei suoi profondi silenzi, mi sembra doveroso parlare per rendere omaggio al grande intellettuale e scrittore, di cui il 15 ottobre ricorre il centenario dalla nascita. Non è immediata la comprensione di questo capolavoro e non mi avventurerò in un’esegesi articolata del testo, ma vorrei rilevarne gli aspetti di grande modernità prospettica e culturale. Come di frequente nella scrittura di Calvino, anche Palomar contiene alcune indicazioni in esergo fornite dallo stesso autore a chiarimento di aspetti testuali e a riprova del suo inesausto interesse per la linguistica e la narratologia. Le tre sezioni  ( Le vacanze di Palomar, Palomar in città, I silenzi di Palomar) sono divise in 27 racconti brevi, affiancati dalle cifre 1,2,3, che indicano rispettivamente tre accentuazioni tematiche e stilistiche definibili come 1) descrizione 2) narrazione 3) meditazione/ speculazione: una vera griglia narratologica! Dentro questo assemblaggio apparentemente forzato a rappresentare il bisogno di ESATTEZZA c’è tutta la realtà con la sua irriducibilità a significato unico e assoluto. Lo stesso Calvino nella Presentazione (rimasta inedita per anni e uscita per la prima volta nel secondo Meridiano del 1992, pp.1402-5) ammette che la progettazione, le griglie narrative, le caselle, insomma tutto l’apparato teorico non potevano funzionare perché il libro accettava solo la spinta occasionale, l’input non cercato e imprevedibile. Nella stessa sede chiarisce anche che nel progetto iniziale il signor Palomar avrebbe dovuto avere accanto un altro personaggio, il signor Mohole. Se il primo è il nome del famoso Osservatorio californiano, il secondo riprende quello di un progetto di trivellazione della crosta terrestre a livelli mai raggiunti di profondità. Dunque l’altissimo e il bassissimo, il cielo infinito e l’infinito oscuro abisso. In corso d’opera Palomar rimane solo. Perché? Perché la parte disincantata e oscura di sé (Mohole) era già dentro di lui, personaggio perennemente in cerca di armonia in mezzo a un mondo tutto dilaniamenti e stridori  e non aveva alcun bisogno di esteriorizzarsi in un altro personaggio: il romanzo allora, invece di espandersi, si era concentrato (verbi “cosmici”) diventando sempre più asciutto. E questo può bastare come informazioni extratestuali. Se ora gettiamo uno sguardo dentro il testo siamo costretti a seguire quello del signore in questione, del quale sì che potremmo opportunamente dire Ma anche no. All’inizio quest’uomo nervoso che vive in un mondo frenetico e congestionato, appare mosso dal proposito di restituire concretezza e precisione alle cose, a ogni oggetto preciso e limitato con l’atteggiamento di chi osserva alla distanza  (a quest’effetto molto concorre l’uso della terza persona). Eccolo allora lì sulla riva a seguire non le onde, ma un’onda singola, senza tener conto degli aspetti complessi che concorrono a formarla, ma registrandone tutte le relazioni, le componenti simultanee, gli aspetti fino ad allora trascurati. Ben presto deve ammettere che nonostante tutto il suo impegno, dal suo punto d’osservazione non può cogliere tutto, c’è sembra un’onda contraria, una dinastia di onde oblique , un incrociarsi di creste ondose, un moto di spinta dall’indietro che arrivano a capovolgere la sensazione iniziale  e a frammentare il quadro globale. Palomar potrebbe non perdere la pazienza e insistere nella sua pretesa di oggettività visiva, anche a costo di capovolgere la visione, di negare l’abitudine sensoriale pur di tenere insieme tutti gli aspetti presenti e simultanei, di estendere questa conoscenza all’intero universo, ma alla fine di questo indomito scrutare si allontana dalla spiaggia con i nervi tesi e insicuro di tutto. Questo l’approdo della sua lettura dell’onda: cinque paginette in cui Calvino, come in un buco nero di energia narrativa, concentra quella che in un famosissimo saggio ha definito la sfida al labirinto, cioè l’ingrato ma intrigante e inesausto compito dell’uomo contemporaneo di leggere il reale secondo un pluri-prospettivismo che ne restituisca la complessità e la relatività spazio-temporale. Tutte le imprese cognitive di questo Ulisse postmoderno che crede  ciecamente nella forza della descrizione ( famosissima anche perché menzionata dall’autore quella dell’accoppiamento di due tartarughe) si scontrano con il discontinuismo intrinseco al mondo dell’oggetto, con la fluttuazione delle connessioni e delle combinazioni. Palomar è Calvino stesso, che ci racconta il cambio di paradigma, il superamento delle opposizioni dualistiche, ma anche la difesa del soggetto contro la minaccia dell’oggettività. E calvino ci suggerisce di entrare comunque nel labirinto delle cose, nei boschi della conoscenza, non con la pretesa di trovare l’unica via d’uscita, ma scegliendo di muoversi entro il labirinto, per non allontanarsene, come fa Palomar, innervositi dalla sospensione del giudizio sulle cose. Lo stesso atteggiamento – trasferito però in un contesto morale -assume Palomar in un altro racconto intitolato Il seno nudo. Qui lo sforzo del protagonista, tra le varie opzioni sul come guardare quell’”oggetto”, è mosso dal desiderio di non apparire né sfacciato, né retrivo, né moralista né spregiudicato, ma neppure snobisticamente indifferente: tra domande monologanti, dubbi e perplessità quasi esilaranti, Palomar si dibatte fino a decidere di concedersi uno sguardo libero e aperto su quel seno nudo, come se guardasse il sole, il cielo, i pini, senza dover apparire un sessuomane. Ma appena si avvicina, lei sbuffando si allontana da quel “satiro”. Il peso morto di una tradizione di malcostume impedisce di apprezzare nel loro giusto merito le intenzioni più illuminate, conclude amaramente Palomar. L’ironia di Calvino colpisce così costume, tabù e limitazioni della libertà, con la sua solita, sottile eleganza: Palomar sa infatti che le convenzioni rispettate a metà propagano insicurezza e incoerenza nel comportamento, anziché libertà e franchezza. Ma alla fine ancora una volta si trova costretto in uno stato di sospensione interdetta e in un  ruminare, per dirla con Nietzsche. Ruminare, cioè lento riflettere, ma non almanaccare. Calvino non è Pirandello: piuttosto, come Leopardi, si trova ad essere un filosofo involontario, si muove tra fenomenologia e relativismo epistemologico senza mai sconfinare nello scetticismo, perché troppo forti sono la sua educazione scientifica a partire dall’ambiente familiare ( padre agronomo e madre laureata in scienze naturali) e i suoi molteplici interessi per le scienze. Tanto forti da farlo avvicinare all’Oulipo, alla scienza semiseria (la patafisica) e alla convinzione che anche il linguaggio della scienza, per esempio della matematica, non sia puro strumento referenziale, ma giochi con il proprio processo di formalizzazione. Calvino tallona Palomar, cioè sé stesso, nell’osservazione e nella ricerca di una percezione armonica dell’universo, in un percorso speculativo che ribadisce ogni volta l’attenzione alle cose, anzi alla superficie delle cose: “Palomar- dice- è come un palombaro che s’immerga nella superficie”. Splendida sintesi ossimorica, che suona anche come un controcanto ai tanti poeti “palombari” del Novecento, Ungaretti per primo. La sua storia, sempre a detta dell’autore, si può riassumere in due frasi: “Un uomo si mette in marcia per raggiungere, passo a passo, la saggezza. Non è ancora arrivato”. A suo modo Palomar è un libro “religioso” sull’inesistenza di Dio, un cammino di sintonizzazione tra io e mondo. La vita d’una persona consiste in un insieme d’avvenimenti di cui l’ultimo potrebbe anche cambiare il senso di tutto l’insieme, non perché conti di più dei precedenti ma perché una volta inclusi in una vita gli avvenimenti si dispongono in un ordine che non è cronologico ma risponde a un’architettura interna. Dopo tante perlustrazioni finalizzate alla ricerca di nuovi orizzonti conoscitivi, nell’ultimo dei racconti intitolato Come imparare a essere morto, Palomar immagina anche il mondo senza di lui, che continuerà ad esistere: un momento altamente leopardiano, direi una citazione dalle Operette Morali, il libro cui Calvino affermava di dovere tutto. Le ultime parole di Palomar, dopo tanti fallimenti conoscitivi, perplessità, ansie e ripiegamenti interiori, riaffermano però la possibilità di descrivere. Se il tempo dovesse finire , lo si può descrivere, istante per istante e ogni istante, a descriverlo, si dilata tanto che non se ne vede più la fine. Decide che si metterà a descrivere ogni istante della sua vita, e finché non li avrà descritti tutti non penserà più d’essere morto. In quel momento muore.

Un epilogo straordinario di un libro straordinario di un autore straordinario. Italo Calvino, nostro contemporaneo.

CATERINA VALCHERA

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