IL PRECURSORE

di CARLO ALBERTO FALZETTI ♦

Ma quando la TV non c’era come si faceva a pubblicizzare i prodotti o a far sapere alla gente gli spettacoli programmati?

Ecco il miracolo: il banditore!

Banditore con tamburo.

Banditore con trombetta.

Banditore con tamburo-trombetta.

Tre rulli di tamburo, o prolungati acuti squilli di trombetta  a cui vien fatto seguire, dopo intensa respirazione, uno sfogo eccelso dei polmoni  in tal guisa da dar via libera al messaggio divulgato ai quattro venti!

Lingua scelta la più possibile dialettale di modo che le orecchie popolari assorbano ogni minimo dettaglio del messaggio.

Natura oltremodo pubblica quella del banditore sacralizzata dalla apertura solenne: “Udite, udite, udite! Per ordine del …” Incipit formale veicolante il pensiero normativo della autorità civica.

Nel tempo la natura privatistica cominciò a rodere lo spazio del dominus  pubblico e si iniziò pertanto a diffondere una primitiva pubblicità. Ma, non di meno, il banditore privato era legato da un vincolo sinallagmatico con un datore di lavoro. Stante tale natura l’incipit accoglieva  tonalità più accattivanti: Donne, donne, donne accattate, comprate, prendete..”

Fin qui la rappresentazione di ciò che avveniva in generale.

Ma a “Civitavecchia” tutto mutava quanto a natura privatistica pur permanendo il pieno conformismo  nella pubblica natura.

Negli anni ruggenti la città, come ogni luogo italico, aveva difatti i suoi modi ufficiali per  avvertire,persuadere,promulgare, indicare, ammonire, comandare, ammaestrare, entusiasmare, intimidire.

La compagine  organizzativa del regime era talmente complessa ed articolata da costituire un potentissimo organo di comunicazione: legione, fasci, centurioni, squadristi, manipoli, avanguardisti, balilla, piccole italiane, giovani italiane, nuclei universitari fascisti,organizzazioni combattentistiche, associazioni postelegrafonici, associazioni ferrovieri, dopolavori, compagnia portuale,sindacati fascisti, confederazioni, di vario genere, tutti oltremodo credenti, acclamanti, compatti, oltremodo compatti, brucianti di passione,  avvampanti di fede granitica ecc…

Ma per il privato? La città, la bella città marinara, vedetta imperiale sul  nostro mare latino,nonostante disponesse della 117°legione appellata quale” Legione del Mare”e comandata da valorosi (ovviamente) consoli che sempre l’avevano spronata con energiche, patriottiche parole e forte del giuramento delle Camicie Nere di difendere all’ultimo sangue i simboli della Patria e del Littorio ed omaggiata da calorose, entusiastiche acclamazioni di tutto il popolo ,non disponeva di alcun contratto permanente di lavoro “banditoriale”.

Dunque, il rimedio non poteva che rampollare dal basso attraverso quello spirito di iniziativa partenopeo che, originatosi nel Ghetto, s’era lesto diffuso nell’aere cittadino.

L’incarnazione di quello spirito aveva un nome equipollente alla maestosità dei gradi gerarchici esistenti, ai fasti che ovunque celebravano il nostro passato romano e rinascimentale di navigatori, artisti, poeti, santi….ecc.

Il nome?

Augusto delle Serve!!

Costui, dunque,  se incastonava nel nome il ricordo di chi aveva aperto un evo di gloria, un salto di paradigma per la nostra historia, poteva sollevare perplessità circa il “predicato nobiliare”. L’erudito lettore saprà che tre sono le nature attraverso le quali sgorgano tali predicati. Orbene, scartando la natura allodiale e feudale non rimane che attribuire il predicato del Nostro a quella onorifica.

Si narrava che erano molte le inservienti e fantesche, quando l’età lo agevolava, a far pazzie per lui.

Ma Augusto mai accettò sponsali: la libertà era il suo anelito. Visse libero, sine tempore  e sine mansione , fulgente antesignano del nostrano italico “barbone”.

Con brevi tocchi potremmo descriverne l’abbigliamento.

Le scarpe? Ma certo!  Qualcosa avvolgeva i suoi possenti piedi e quel qualcosa avendo contatto intimo con il finale degli arti inferiori, finché conservava quel contatto, poteva avvalersi del nome comune di “scarpa”. Ma ,allontanandosene l’accessorio diveniva semplicemente “una cosa” indefinibile.

Il berretto era tale da individuarlo quale auctoritas: forse quello d’un tranviere? Di un bidello? Guardia comunale?

Il cappottone possedeva un unico bottone da cui una cordicella partiva per raggiungere con gagliarda scioltezza l’asola dell’altro lato. Una sciarpetta a girocollo di fattura e colore incerto, guanti di pelle che permettevano di  far arieggiare  le dita, cinta non certo di pelle ma di solida canapa intrecciata. Calzoni oltremodo comodi che, gravitando pesantemente sulle sedicenti “scarpe”,  mostravano  quelle sinuose ed ardite volute a causa delle quali è stato escogitato il lemma “bracalone”.

Ma era la tracolla il punto chiave, il nerbo della professionalità, l’instrumentum regni. Pendeva su lato destro, ben sorretta da leggera correggia seppur corrosa dal tempo, una gavetta di buon alluminio di uso soldatesco arricchita di vetuste ammaccature, opaca di una opacità tendente a quella tonalità egregia che solo il sudiciume pervicace può donare alle cose del mondo.

Quella gavetta sostituiva il tamburo e la trombetta del volgare banditore.

Passava, Augusto, dal potenziale commerciante, che ardeva reclamizzare il  prodotto, per un breve briefing di marketing e, disponendosi ad interpretare il ruolo di agenzia pubblicitaria, acquisita l’informazione,  si mostrava al pubblico annunciato dal suono suadente della gavetta percossa da corpo battente.

Donne, donne, donne, comprate dalla sora Assunta ‘a capomilla che guasi ‘a rigala. Così ‘a date a li vostri mariti e armeno pè sta sera nun ve stuzzicheno.”

Augustarello delle Serve, libero spirito!

In quella mazzumaja di gente ubbidiente, come lo può essere un veltro verso il padrone, lui poteva dire ciò che voleva, lui non portava il basto.

Se ne infischiava del Duce, dei legionari, dei centurioni, dei manipoli, delle avanguardie.

Chi poteva fermarlo? Giustificato a prescindere dal contenuto delle sue affermazioni. I gerarchi davano il via libera alle esternazioni, lasciando le briglie sul collo per non urtar di troppo il popolo.

Il giorno che lo pulirono in ospedale, a forza di tirar via il sudiciume stratificato, finirono per togliergli, con la pelle anche l’anima .

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Ad Ennio Staid ed al suo indimenticabile “Tra quelle case accanto” da cui ho tratto questo ritratto.

CARLO ALBERTO FALZETTI

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