VIAGGI DI ME (11) – UN VIAGGIO IN GIAPPONE (I). MISSIONE TSUKUBA

di NICOLA R. PORRO ♦

Il primo viaggio importante del nuovo millennio lo feci in Giappone, alla fine di marzo del 2000.

Mi aveva invitato un collega, il professor Mutsuhito Hasegawa, che avevo conosciuto due anni prima a Montreal, in occasione del XIV Congresso mondiale di sociologia. Avevamo scoperto di avere interessi comunI ed era maturata l’idea di sviluppare una ricerca comparativa fra il caso nazionale dello sport italiano e quello giapponese.  Alla fine del 1999 fui invitato ufficialmente a tenere tre conferenze in due università, la prestigiosa Nittaidai di Tokyo e quella di Tsukuba, la Sophia University, nonché uno speech alla Scuola dello sport del Comitato olimpico giapponese. Il menu che avrei dovuto allestire era variegato. A Tsukuba avrei parlato di “Rischio e fiducia nella sociologia occidentale”. A Tokyo, in due appuntamenti, avrei illustrato i modelli sportivi europei e, più dettagliatamente, quello italiano. Avrei anche portato un saluto al IX Congresso dell’Associazione giapponese di sociologia. Un tour de force in tempi lontani che ricordo con piacere. Da bravo grafomane ne custodisco il ricordo tramite un diario abbastanza dettagliato che, mentre scrivo, mi restituisce memoria dei fatti.

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Poi ci sono emozioni e sensazioni che si sovrappongono più confusamente alla ricostruzione. Del mio debutto alla Nittaidai, ad esempio, ho ricordi abbastanza dettagliati. È una Facoltà di scienze dello sport. Prima della conferenza eseguono in mio onore una breve esibizione di arti marziali. L’impatto con l’aula è un po’ inquietante. Tutti osservano un silenzio assoluto. Mutsuhito, che presiede, mi ricorda le regole del gioco: avrei parlato in inglese e la mia interprete mi avrebbe tradotto in inglese le domande. Parlai per i previsti quaranta minuti, cercando di spiegare in cosa consistesse il nostro “modello sportivo” aiutandomi con slide e un breve video. Subito dopo fui esposto al fuoco di fila delle domande, tutte calzanti e bene argomentate. Il solo momento di imbarazzo fu quando l’immancabile pierino, anziché rivolgersi all’interprete, pensò bene di esprimersi direttamente in inglese: non afferrai neanche mezza parola! Molti giapponesi hanno una buona padronanza dell’inglese scritto ma la pronuncia risulta spesso inintelligibile. Nemmeno potevo pregarlo di ripetere la domanda nella sua lingua: lo avrei umiliato, capace che andava in bagno e faceva harakiri…   

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Per fortuna i giapponesi sono gente sveglia. L’interprete finse di non aver sentito bene la domanda e pregò il pierino di ripeterla (in giapponese… ). Mentre il tipo parlava scarabocchiò a velocità supersonica un appunto con poche parole chiave sufficienti a farmi capire il senso della domanda. Così potei rispondere, me la cavai e lo sventurato ebbe salvi l’onore e la vita. Mi scortò all’uscita una specie di guardia d’onore accademica, fra due ali di corsisti con il capo rispettosamente piegato. Mutsuhito mi impose di accelerare: ci aspettavano a Tsukuba. Si mise al volante della sua Daihatsu. Con lui comunicavo facilmente: aveva studiato un paio d’anni in Australia, parlava un buon inglese e lo usava spesso come lingua di lavoro. Cammin facendo prendemmo confidenza. Era molto orgoglioso del suo nome di battesimo: Mutsuhito, mi spiegò, era stato un grande imperatore illuminato, vissuto fra la seconda metà del XIX secolo e l’inizio del XX. Aveva modernizzato il Paese e lo aveva aperto al mondo piegando i vecchi feudatari e il clero reazionario: un imperatore progressista. 

Incrociando un curioso edificio mi spiegò trattarsi di un tempio shintoista, aggiungendo subito che per lui, un agnostic, non era facile spiegare a un occidentale la religione shintoista. Tanto più, aggiunse, che si tratta di una religione sui generis: non fa proseliti, non impone conversioni, non prescrive adempimenti devozionali, non esige un’osservanza formale. Nemmeno è riconducibile al buddhismo storico. Shintō è «la via degli dei» opposta a butsudü («la via del Buddha»). In origine era una forma di animismo che ammetteva molte divinità associate ai fenomeni naturali, come nell’antico paganesimo occidentale. Più tardi, entrato in contatto con il confucianesimo, il primo shintoismo ne incorporò il culto degli antenati, la venerazione per la figura dell’imperatore e una specie di pantheon popolato da guerrieri e filosofi. 

3_TEMPIO_SHINTOISTA

Lo shintoismo non contempla inferni o paradisi ed è rigorosamente sincretistico: accoglie credenze e teologie di qualsiasi provenienza purché disposte a loro volta a contaminarsi con altre credenze. Nel tempo, lo shintoismo ha fatto propri princìpi, convinzioni e persino simbolismi di ogni provenienza. Il suo pantheon non è popolato da santi ma da “eroi dell’umanità”.  La trascendenza propria dei monoteismi gli è totalmente estranea. Con la restaurazione Meiji, che a fine Ottocento ripristinò il potere imperiale usurpato dai signori della guerra (gli shogun), quella strana religione chiamata shinbutsu shūgō fu disconosciuta dall’imperatore. Sopravvisse tuttavia come una credenza popolare che mescolava elementi del vecchio shintoismo e influssi buddhisti (le altre due grandi religioni orientali, l’induismo e il taoismo, sono invece del tutto estranee alla cultura giapponese). Shintoismo e buddhismo giapponese, mi spiegò Mutsuhito, non costituiscono nemmeno due religioni distinte. In assenza di una vera e propria “teologia”, rappresentano piuttosto un sistema etico-culturale molto articolato e complesso. Chiedere a un giapponese se sia un credente è un non-senso. Il laico Mutsuhito non trova di meglio che definirsi agnostic, specificando però che si tratta anch’esso di un concetto approssimativo, importato dall’Occidente. La stessa iconografia shintoista e le sue liturgie sono essenziali, prive di ogni coreografia e lontane in questo non solo dai tre grandi monoteismi ma anche dalle altre forme di religiosità e di ritualità orientali, a cominciare dal confucianesimo e dallo stesso buddhismo. 

Affascinato dalle parole di Mutsuhito, non rinuncio a dare un’occhiata al panorama. Intorno a noi, mentre discettiamo sui culti orientali volando su una modernissima autostrada a otto corsie, si distende la sterminata e un po’ monotona periferia di Tokyo (quattordici milioni di abitanti, quasi trenta con la sua area vasta), interrotta a tratti da oasi di verde. Sono prati artificiali, impianti sportivi open air, parchi pubblici. In poco più di mezz’ora siamo a Tsukuba, anche se ho la sensazione di non essere mai uscito davvero dall’area metropolitana della capitale. La città, di circa 220.000 abitanti, dista una settantina di chilometri da Tokyo ma appartiene a un’altra prefettura (le prefetture corrispondono più o meno alle nostre province) chiamata Ibaraki. 

Confesso che a me Tsukuba richiamava alla mente solo il leggendario autodromo dove si disputa annualmente il Gran Premio del Giappone di Formula 1. Mutsuhito, che è di quelle parti, mi aveva corretto, precisando che in realtà la pista dei Gran Premio è a Shimotsuma ma è invalso l’uso di attribuirla alla limitrofa e più nota città di Tsukuba

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Prima della mia conferenza c’è tempo per un tour panoramico della città. Le principali attrattive sono a breve distanza l’una dall’altra. Visitiamo il tempio shintoista, dall’interno spoglio, poi ci spostiamo nell’area di uno sconfinato parco percorribile in auto (rispettando però norme di transito rigorosissime). Costeggiamo il Doho Park, il più grande parco della città eredità dell’Expo 1985. Per il resto Tsukuba ha l’aspetto di una qualunque città industriale di una qualunque parte del mondo, magari più ordinata e pulita, ma priva di particolari attrattive. Lungo i viali alberati un’interminabile distesa di anonimi caseggiati, qualche giardino grazioso, semafori perfettamente sincronizzati. Siamo in anticipo e Mutsuhito improvvisa un’escursione all’esteso Giardino botanico. Ci sgranchiamo le gambe percorrendo un tratto del romantico Sentiero dei fiori.

Poi di corsa all’Università. Il ritardo da quelle parti è considerato una specie di sacrilegio, ma il traffico urbano è ben regolato e arriviamo in perfetto orario. L’Università, modernissima, sorge a ridosso dello Space Center, un centro scientifico di avanguardia nella ricerca metereologica e spaziale. La città ospita inoltre una delle più grandi tecnopoli del mondo, la Tsukuba Science City. Era stata costruita fra i Cinquanta e i Sessanta a opera di un consorzio di duecento industrie interessate a insediarvi i loro laboratori realizzando economie di scala. Mi spiegò però Mutsuhito che il Centro era ancora oggetto di una controversia politica essendo finanziato per metà dallo Stato e assorbendo una quota enorme di investimenti pubblici per la ricerca strategica (robotica, elettronica, fisica e biotecnologie). Finalmente arriviamo all’Ateneo.  La facciata di ingresso dell’edificio, davvero avveniristico, è sovrastato da una scritta gigantesca che significa ”Immaginate il futuro”. Era già all’epoca un’istituzione d’avanguardia: la selezione era severa, il diploma di laurea di grande prestigio, i corsi svolti esclusivamente in lingua inglese.

6_SENTIERO FIORI

7_GIARDINO BOTANICO

Entriamo, l’aula è a emiciclo, spaziosa e luminosissima. È gremita in ogni ordine di posti: a occhio due-trecento presenze. Il Rettore mi accompagna a una specie di podio consegnandomi con solennità gli emblemi del potere accademico postmoderno: il mouse e il “puntatore” per illustrare le slide. Ne farò pochissimo uso, la possibilità di comunicare direttamente in inglese mi rassicura. Il mio pubblico è del tutto diverso da quello di Tokyo. Sono studenti di Scienze sociali che si riveleranno ferratissimi. Anche il tema che mi è stato chiesto di trattare è più impegnativo. Ha a che fare con categorie – rischio e fiducia – che all’epoca appassionavano importanti studiosi europei. Ulrich Beck, in particolare, aveva dettagliatamente descritto la società del rischio nel suo lavoro di maggior successo, che mi dicono fosse stato appena tradotto in giapponese. Con una strizzata d’occhio Mutsuhito mi dà il la. Ricapitolo i concetti chiave, illustro la differenza fra generica modernizzazione e transizione dalla società della scarsità ai conflitti generati dalla redistribuzione della ricchezza. Sforzo non da poco: sono argomenti concettualmente complessi che vanno declinati in un contesto linguistico-culturale che mi è estraneo.  Dall’intensificata velocità nello stilare gli appunti, colgo un’attenzione più vivace quando, a proposito di rischio e fiducia, accenno al tema delle paure collettive. È un nervo sensibile nel solo Paese al mondo che ha vissuto sulla propria pelle la tragedia nucleare (Hiroshima e Nagasaki distano centinaia di chilometri da Tsukuba, ma la memoria è ancora vivissima). Porto altri esempi, come l’Aids che aveva infierito nel decennio precedente (il Covid era di là da venire).  

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Sono ascoltato in religioso silenzio, tutti prendono appunti o armeggiano con piccoli registratori. La discussione sarà vivace, con una dozzina di interventi tutti ben argomentati e condotti in un inglese finalmente comprensibile. Nelle domande ricorrono i riferimenti a Bourdieu, Giddens e Luhmann. Intuisco che si siano preparati, ma sono bravi e si sviluppa una bella conversazione. In tema di fiducia e paura azzardo un cenno al contributo di psicanalisti influenzati dalle cosiddette “opere sociali” di Freud. Cito Erikson, Bowlby Renè Spitz. Una compunta docente di psicologia che siede in prima fila chiede la parola. Mi tempesta di domande sulla legge Basaglia, don Milani e la Scuola di Barbiana , la scuola italiana di psicologia umanistica. Non è esattamente il mio terreno ma mi difendo. Il tempo vola e piovono ancora domande. Devo spiegare il senso delle «servitù volontarie», commentare la teoria della sovraesposizione del Sé, argomentare le ragioni del “riflusso” della partecipazione politica. Interviene pure Mutsuhito. Riappropriandosi dei panni del professore, istituisce un confronto fra Italia, Germania e Giappone. Tre Paesi assai diversi che fra le due guerre del Novecento hanno vissuto la tragedia dei totalitarismi reazionari.  I soli, insieme alla Russia di Stalin, ad aver negato diritto di cittadinanza alla sociologia e i primi ad aver pianificato l’uso politico dello sport. Quello del mio amico è l’ultimo intervento, mi sembra di capire che si tratti di una prassi accademica. E’ finita, ringrazio dell’attenzione, saluto il Rettore con un deferente cenno del capo e mi accommiato. Sono trascorse più di due ore, sono sfinito ma gratificato dall’attenzione ricevuta, dalla partecipazione e anche dalla vivacità del dibattito. Come d’uso, ci avviamo all’uscita fra due ali di “pubblico”. Un po’ imbarazzante è il rito di commiato. Nel costume giapponese non è prevista alcuna forma di contatto fisico. Nessuno ti stringe la mano, se gliela tendi la afferrano goffamente come stringessero un istrice munito di aculei. Gli abbracci di circostanza, che noi dispensiamo disinvoltamente ad amici e colleghi, provocano reazioni imbarazzate. C’è materia per una bella chiacchierata sui linguaggi del corpo con Mutsuhito e con un collega antropologo che ci chiede un passaggio per tornare a Tokyo. Seguiamo un percorso diverso da quello dell’andata. La megalopoli ci accoglie che è già sera: un caleidoscopio di insegne multicolori lampeggianti occupa ettari di caseggiati. Scopro incredulo una riproduzione torreggiante e illuminatissima della Tour Eiffel, una struttura per telecomunicazioni alta 333 metri (trenta più dell’originale) visitatissima dai turisti. Ci è costata una piccola deviazione ma ne è valsa la pena. I giapponesi copiano tutto. Dovessi ritornare, temo che pure il Colosseo, il Vesuvio o il Duomo di Milano…

La sensazione è quella di attraversare una galleria interminabile di luci abbaglianti. È già quasi notte, ma per la strada passanti frettolosi ancora affiorano dalle viscere della metropolitana più lunga del mondo o vi sprofondano in numeri impensabili. Tokyo è servita da nove linee per duecento chilometri di binari e quasi trecento stazioni. Vi transitano ogni giorno sei milioni di persone. Non vedo l’ora di coricarmi ma pregusto il giorno dopo, quando libero da impegni di lavoro andrò alla scoperta della grande capitale.

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NICOLA R. PORRO

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