“I RACCONTI DEI SOPRAVVISSUTI” DI MICHELE CAPITANI – IL TANFO E LA FEMMINILITÀ

di MICHELE CAPITANI

Ore dodici d’una magnifica mattina di fine maggio; scendo di casa col borsone della piscina, oltrepasso la siepe, sto per salire in macchina, quando intravedo una figura oltre le macchine parcheggiate, tra le altre siepi già rinsecchite.

Mi avvicino. È un’anziana signora, magra, zozza e con un fazzolettone in testa come le vecchie dei paesi di una volta. Strano che sia da sola. Forse è una rom?

Vedo che si siede, e da come tira fuori qualcosa sembrerebbe stia per mangiare, e allora capisco che è una barbona, ma di quelle vere, di quelle che più barbone di così non ne trovi: solitaria, puzzolente, e con un bagaglio vistoso, composito, e lacero.

Ho già messo il mio, di bagaglio, sul sedile, ma resto lì, incerto fra montare in macchina e attaccare bottone con quella persona. Non è da poco tempo che mi occupo della gente della strada, quindi non è poco che ho quest’assurda e sfrontata abitudine di attaccar discorso con perfetti sconosciuti, persone in dubbie condizioni igieniche, economiche e mentali; eppure… eppure alle volte ancora mi esce fuori un residuo di difficoltà a farlo.

Residuo antico di una ritrosia che non mi appartiene più, per cui a vederlo ricomparire provo disagio, è come scoprire che talvolta un’antichissima ferita rimarginata ti duole ancora un pochino. Poi però smetto di pensarci, perché semplicemente non posso andarmene, proprio non ci riesco: è la “coazione a restare”. È in queste evenienze che capisco quanto è bello non avere scelte, non avere quel rovello di fare o non fare la scelta giusta: sai che devi, e basta. Anche perché, quante volte ci è stato detto, da qualche senza-dimora che agganciamo, «Erano settimane che non parlavo con qualcuno…», e dunque, se io, qui e adesso, non provo a conoscere questa persona, chi altri e fra quanto tempo proverà a farlo?

Principale è questo timore, mentre il pensare che potrebbe avere bisogno di qualcosa diventa anche secondario. E l’ultima, insignificante ombra di riflessione è per la mia ora di piscina: va bene che mi serve per la schiena, ma per una volta rinviarla non mi invecchierà precocemente.

Aggiro dunque le siepi per trovarmi davanti alla signora, lei ora è seduta sul basso ciglio dell’aiuola, curva a frugare in una sua bustona di plastica.

«Ehm, buongiorno» le faccio.

«Buongiorno! Lei è un inquilino di queste parti?»

Ha risposto immediatamente, alzando verso di me un viso anziano e sorridente, e sorridentissimi pure gli occhi glauchi. Magrissima e abbronzata, dimostrerà almeno settant’anni.

Sentendomi dire “un inquilino”, sospetto che forse l’avevo fatta molto più svitata di quanto non sia, ma non c’è bisogno d’altro: attacca un eloquio inarrestabile, che annulla e spinge su uno sfondo lontanissimo ogni dubbio su cosa chiederle e cosa no. Parla senza fermarsi letteralmente mai, d’una fluviale fluenza tipica di tanti barboni con problemi psichici.

Smette di sistemare chissà cosa nelle buste, e inizia ad argomentarmi soprattutto di dove sarebbe meglio trovare collocazione: ipotizza conventi, accoglienze e ospitalità che legge su pieghevoli di istituti religiosi, che estrae uno dopo l’altro; parla della vita che si farebbe là, o di come si trovano le ragazze che fanno queste scelte. Comprendo che è disturbata anche per il fatto che guarda spesso in direzioni diverse dalla mia, anzi alle volte sta rivolta lateralmente come verso un altro interlocutore.

Parla tanto, davvero tantissimo, questo sì, però non all’infinito, o potenzialmente all’infinito: a volte si ferma, e anche la seconda volta che ci vedremo, e che durerà per un tempo molto più breve, dirà a un certo punto «Bene, la saluto» e poco altro di commiato.

Io le dico che qui ci sono dei posti a cui chiedere, se ha bisogno di qualcosa; lei dice naturalmente che non le serve niente. Le accenno al servizio docce, qui vicino, ma non le servono; invece le servirebbero eccome, perché maleodora da tre metri, di urina e di essere umano.

Una domanda la rivolgo anche a me stesso: come posso reputare questo tanfo un prezzo sostenibile per l’ascolto di una persona così singolare? Eh già, la coazione a non andarsene e anzi attaccare discorso non nasce solo dall’idea di potere essere utili all’altro (ma in che modo?) che si vuole incontrare; nasce anche dal non voler lasciare come dispersa e invisibile nel mondo la presenza di una persona che vaga, per quanto sporca e squilibrata.

E costei, che presenza! Indossa una sorta di lungo saio marrone di lana grossa (e siamo a fine maggio, Dio santo…), con uno scialle di lana viola sulle spalle, e appunto un fazzolettone in testa, da vera vecchietta di paese; ai piedi porta calzini e sandali.

Chissà, potrei averla fatta anche più anziana di quanto non sia: di primo acchito, con questo abbigliamento e la sua rugosità la diresti anche ottantenne, ma può darsi che si porti tragicamente male quei cinquantacinque-sessanta che in realtà potrebbe avere.

Tutto è contrasto in lei, già a partire dalla sua stessa presenza qui: una barbona tanto anziana, e in queste condizioni, e da queste parti, non si era mai vista; e in che straniato contesto, qui sul lungomare, imbacuccata di tanta e tanta lana scura sotto il caldo, come nemmeno un tuareg, mentre proprio su questo marciapiede da due settimane transitano bagnanti in calzoncini.

Altrettanto sorprendente è la sua parlata: mai penserei che sia sarda se non me lo dicesse, visto il suo italiano elegantissimo, perfetto nei suoni (e se pure ha un filino di dialetto, al più la direi settentrionale) e nella velocità; il lessico di un’ampiezza sorprendente, e una proprietà di linguaggio invidiabile, visti anche i ricchissimi connettivi: inoltre… d’altronde… va pur detto che… quantunque… Nel banalizzato e vilipeso italiano di oggi, chi li sente mai?!

Si chiama Dina, viene dalla Sardegna. E poi? E poi sembra una storia di solitudine e abbandono, da districare in un groviglio annodatissimo, ed esposto con criterio per nulla nitido, a dispetto della limpidezza del suo parlare e della quantità di tempo che parla. La delicatezza cristallina del suo italiano è pazzamente contrastante con la difficoltà a cavarne una narrazione lineare: il suo raccontare è una serie imbrogliata e stravolta di episodi, o solo accenni, che ritornano, e qualche rivelazione che si inserisce qua e là, ma da cui rimangono fuori cose e nessi fondamentali ma forse troppo duri per potersi dire, e per poterli chiedere la prima volta che ci si parla.

Dice in trenta minuti quanto si potrebbe dire in cinque, lasciandomi il compito di toglier via le ripetizioni e i segmenti troppo confusi, e poi di mettere in una successione narrativa coerente quel che c’è rimasto di plausibile…

Da ragazzina deve aver avuto delle crisi, pare che abbia aggredito la madre, forse le ha lanciato qualcosa; da lì in avanti i familiari, soprattutto le mai nominate zie (in realtà, i nomi propri mancano completamente: sia di persona sia di luogo) la prendono sott’occhio, e da lì diverrà vittima di questa angheria, di una congiura familiare che sembra il tipico delirio di nocumento di molti psicotici; torna più volte, ad esempio, sull’episodio in cui la scoprirono a masturbarsi a letto: «Ma figuriamoci!» dice lei, però non è chiaro se intende dire che ciò non successe, oppure che da quel fatto non si poteva dichiararla matta.

Faceva la maestra, e anche questo si potrebbe crederlo vista la sua facondia, ma durò ben poco, poiché lavorando in un altro paese e non avendo la macchina non poté continuare, e qui sembrerebbe che le zie non le abbiano fatto prendere la patente. Dopo, c’è qualche accenno a una reclusione, o forse un ricovero coatto (cosa arguire da frasi come «Mi hanno spostato nell’altro posto?»), ma qui la signora Dina è il massimo della fumosità, e torna oltre la frontiera che potrebbe essere del delirio, che non mi sento di sfondare violentemente con domande dirette e feroci, e che, ad ogni buon conto, rimarrebbero inevase.

Si passa talvolta a considerazioni sul mondo, per esempio un’interessante critica al «tris dell’uomo moderno: televisore, macchina, telefono», di cui la signora non ha stima poiché li ritiene bisogni indotti: l’avevo detto, che è una persona comunque interessante.

Il resto, appunto, è un andare e venire tra omissioni, reticenze, pudori, deliri, rimozioni, passaggi non chiari, e due mie domande che vengono lasciate esplicitamente cadere nel vuoto: di che paese è, e come fa di cognome.

Naturalmente, come per le docce, è impossibile farsi dare un appuntamento anche per portarle un pasto.

***

Eppure, no: tutto questo un giorno non lo ricorderò più. Quel che di lei mi resterà nella memoria, è ben altro…

Continuamente, mentre discorre verso di me o da sola o con l’altro immaginario interlocutore, Dina si toglie pelucchi da questo suo lurido scialle viola e dal saio marrone; ma lo fa così, lentamente, senza interrompersi: le sue mani abbronzate e asciutte sono come due leggiadre, lente ed eleganti ballerine che le danzano attorno, a levare pagliuzze di cui si è appuntata stando seduta fra le foglie secche. Tanta e tanto sbalorditiva è la femminilità di questi gesti costanti, che sembra proprio che la sporcizia e il fetore siano di un’altra persona.

Ciò è la prima delle due cose di più indimenticabile contrasto, quel che certamente di te non scorderò.

L’altro tuo gesto, che mai potrò dimenticare, signora Dina, era come ti sistemavi il foulard e i capelli: ogni tanto, interrompendo quel tuo toglierti le minime sporcizie dall’abito, aggiustavi il foulard e una ciocca, con quella femminilità perfetta che ho visto solo in pochissime altre donne, per quanto pulite e lucide.

La grazia di ogni donna che ci tiene a sé, tutta l’inimmaginabile donna che può essere contenuta nelle dita della mano di una donna. E quella virgola immaginaria descritta dalle dita che sistemano una ciocca, ove ogni uomo che osserva vede il sunto di tutte le più belle mani di donna che ha conosciuto.

Il gesto che faceva scomparire tutto il resto inavvicinabile di te.

Addio, signora Dina, e che il Signore, almeno lui, riesca a starti vicino.

MICHELE CAPITANI

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