“I RACCONTI DEI SOPRAVVISSUTI” DI MICHELE CAPITANI – L’ULISSE CHE SI ACCINGEVA A RINCASARE
di MICHELE CAPITANI ♦
Ce l’avevo davanti, dall’altra parte del tavolino con le birre sopra, il più mirabolante Ulisse che io abbia mai conosciuto; ce l’avevo tutto per me, e potevo chiedergli quel che desideravo sapere! Mi sentivo reincarnato nel re dei Feaci, mentre ascoltavo sbalordito quello straniero imprevisto, giunto chissà da dove, e che doveva tornare chissà dove al di là dell’orizzonte.
In verità, quel leggendario raccontatore capitò in un contesto parecchio strampalato in cui a quel tempo vivevo, e che ora descriverò.
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Facciamo un salto indietro…
Assistevo alla maggior concentrazione di narratori di viaggi nell’anno in cui insieme a Renata, altra volontaria del carcere, gestimmo una casa di ospitalità per detenuti in transito, per conto della nostra associazione; si trattava di un appartamento in affitto vicino alla stazione. Avevamo una frequentazione quotidiana con veri cascami del consorzio civile, rappresentanti un ampio spettro di fenomeni umani, tra il derelitto, il peregrino e lo spavaldo. Vi ospitavamo, di solito per pochi giorni:
– carcerati a fine pena, che attendevano il viaggio per il paese di provenienza, o in cerca di un modo per tornare a casa, o anche per cercare una casa;
– detenuti che uscivano in permesso, ad esempio per visite mediche;
– familiari di detenuti, che venivano a trovare i propri cari ma non sapevano dove andare o dichiaravano possibilità economiche limitate. Gli appartenenti a tale categoria furono i meno numerosi, ma di gran lunga anche i meno raccomandabili.
Nei riguardi del padrone di casa, Renata ed io eravamo stati serpi e colombe, mantenendoci cioè tra il candido e il proditorio: non gli dicemmo a cosa, anzi a chi sarebbe stato destinato l’appartamento, e ci vollero in seguito buone abilità diplomatiche da parte di entrambi per non farlo protestare allorché scoprì la faccenda, almeno per quell’anno di contratto oramai bello che firmato.
Va detto che siccome Fiumicino cade sotto la giurisdizione del tribunale di Civitavecchia, una buona parte dei molti che conoscemmo in quell’anno memorabile erano corrieri della droga, che venivano comodamente pescati all’aeroporto e portati direttamente al “nostro” supercarcere: centinaia di detenuti, molti dei quali conoscevano dell’Italia solo i metal-detector dell’aeroporto e i sessanta chilometri percorsi in manette da lì fino a qui.
Quelli che passarono per la casa, con cui dunque spesso mangiammo e chiacchierammo, e organizzammo a volte la logistica (dagli orari dei treni alle beghe burocratiche alle prenotazioni ambulatoriali), si dichiaravano un po’ troppo spesso corrieri inconsapevoli: ricordo Carlos, un ragazzo argentino simpatico e sensibile, il quale mi disse che era stato fregato perché gli avevano messo la coca nel doppio fondo di barattoloni di miele da portare a certi amici europei del suo datore di lavoro (l’infame). Ora, il suo dubbio era se tornare oppure no, perché aveva certamente nostalgia della famiglia (a cui per i quattro anni di prigione non aveva scritto semplicemente nulla, per la vergogna), soltanto che non era sicuro di resistere alla tentazione di vendicarsi una volta tornato laggiù, divenendo in tal modo un delinquente vero, cioè consapevole.
Capitò poi un meridionale, un omino male in arnese, il quale non si dava spiegazione degli anni di reclusione che anzi leggeva solo come tempo di stridente inutilità; tutto in lui formava un roveto di rimpianti, rimorsi, sensi di colpa. Sempre con gli occhi rossi e sofferenti, a volte borbottava sommessamente da solo, e io lo vedevo in quel niente di inattività, senza nessun orizzonte a cui tornare anche adesso che era uscito. Era come una sorta di tronco caduto, avviticchiato da un’edera soffocante, che forse si poteva chiamare depressione.
Ci fu anche quel siculo-americano, Carmelo, che pronunciava Bruccolino per Brooklin, ma che aveva voglia di lavorare, e gli demmo una mano per stilare il curriculum. Lo avrei incrociato un anno dopo a Roma Trastevere, cordiale come sempre, integrato e fidanzato, e ne fui contento.
I famigliari dei detenuti, invece, non li vedemmo quasi mai, sfuggenti come ombre, che fossero tangheri insolenti oppure stangone biondissime dalle generalità ancipiti e dalle equivoche attività: ad esempio una russa che si era qualificata come esperta di marketing, e che a suo dire cercava lavoro per mantenere la prole, scoprimmo presto che il lavoro più limpido che aveva svolto era stato fare la cubista.
Oltre al più assurdo e indimenticabile, che dopo racconterò, ce ne furono molti altri, naturalmente: ricordo Erwin, un nigeriano pachidermico, testimone di Geova e spacciatore, che mi tirava giù certi predicozzi sul fatto che alla mia età non ero sposato e non avevo figli, perché sentenziava che «è un sacro dovere di ognuno» eccetera eccetera, fino al giorno in cui scoprii che aveva una moglie al suo paese e un paio di amanti in Spagna!
Un altro era Vujadin, un serbo segaligno, privo di articolo come ogni slavo, e tormentato per la sorte della figlioletta che era rimasta in Veneto in mano alla ex-compagna, durante la sua detenzione, e di cui non sapeva più nulla se non che nella scomparsa delle due c’era lo zampino di qualcuno compiacente dei Servizi sociali.
Lì da noi comprensibilmente mordeva il freno, masticava amarissimo; era stato truffatore e falsario ma era anche molto più simpatico degli altri, non solo perché affermava di essere venuto in Italia, e di non poter tornare in Serbia, in quanto disertore della guerra in Bosnia (cosa di cui era saggio dubitare), quanto piuttosto perché, a seconda dei giorni, mi narrava:
a – di connazionali che a loro volta l’avevano fregato, apostrofandoli con maledizioni terrificanti; degli assistenti sociali complici della scomparsa della figlia, che considerava tutti come un’omogenea accolita di felloni; di dirigenti e altre figure del carcere, motteggiando salacemente ma con una fantasia molto superiore alla volgarità;
b – dei criteri e scopi per cui si ruba un’autovettura; al proposito scoprii che le macchine di pregio non rischiano più delle altre, visto che hanno antifurti migliori; invece quelle più vecchie o meno pregiate passano più inosservate, e possono inoltre essere abbandonate agevolmente dopo una fuga o una rapina, almeno a suo dire;
c – di viaggi in su e in giù per lo Stivale, e di traffici rischiosi e cialtroni, e di smerci loschissimi di roba che talvolta nemmeno riusciva a distinguere attraverso gli imballaggi in cui gliela consegnavano;
d – di timbri, carte di credito, documenti, certificati, scartoffie d’ogni risma, che io verso il quarto o quinto bicchiere di vino cominciavo a percepire come un mazzo di carte in perpetuo rimescolìo; anche di fronte ad una tisana, comunque, sarebbe stato impegnativo stare dietro a quelle contraddanze di racconti truffaldini, di assegni e passaporti e borsoni lasciati qua e là per l’Italia, e di contatti che Vujadin il Grande aveva nei Balcani e nel Triveneto.
Ad ogni modo, tutti i fili delle sue laocoontiche narrazioni (confessioni?) facevano capo, in una maniera o nell’altra, al bagagliaio di un’auto che aveva lasciato in sosta anni prima, dentro non so che deposito dalle parti di Massa, in cui c’era tutto quanto lo avrebbe sistemato, a suo dire, una volta terminata definitivamente la pena.
Cose note solo a lui e, forse, al Padreterno.
Si fidanzò poco dopo proprio con Renata, fresca di separazione, la quale aveva saviamente compreso che le paturnie di Vujadin non erano affatto seghe mentali, poiché «Miche’, ignorare del tutto la sorte di una figlia… insomma non deve essere roba da poco per nessuno». Devo ammettere che le volte che il serbo attaccava con le lamentele sulla figlia, entrava spesso in un automatismo sterile e quasi ossessivo, una logorrea frullata di lagnanze, speranze, invettive, progetti tra l’inconcreto e lo stralunato (eppure mai cruenti), tanto che diveniva impossibile stare dietro al suo monologo, un vero parlare a salve. Orbene, Renata lo stava a sentire un po’ con pietà cristiana e un po’ con intento materno, senza pensare che il tutto sarebbe poi evoluto in altro e più incisivo sentimento…
Infatti, dopo un periodo di seminomadismo, i due se ne andarono a vivere nel borgo avito di lei, nel Ternano, ove si era trasferita (era mia collega insegnante, ovviamente al carcere). In una delle rare volte in cui la incrociai successivamente, Renata mi confermò che era tutto vero: sia la questione della figlia sia della macchina a Massa, sia del fatto che lui voleva mettere la testa a posto:
«Sai, mi sono accorta che occasioni per rifare briga coi suoi vecchi compagni ne avrebbe a iosa, ogni giorno; e invece ancora lottiamo per raggranellare i soldi dell’affitto e sbarcare il lunario!»
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Come il suonatore ama anche ascoltare, e il bravo artigiano ammira un lavoro ben fatto da altri, così il vero viaggiatore sa quant’è prezioso ascoltare chi racconta di altri viaggi, che non sono i suoi, e se la gode alle parole del narratore, o se la ride, o sbalordisce, o si commuove, e gliene rimane curiosità, e un impulso a raccontare a sua volta. I viaggi ascoltati a tavolino non sono semplicemente un’esperienza piacevole o memorabile a seconda dei casi, o transeunte perché comunque soggetta ad oblìo, o a cui ci si affeziona perché ci ricorda la persona che ci narrò (la persona che amammo, la nonna, il papà, l’amico di famiglia, il compagno di un segmento di tratta ferroviaria, il detenuto in transito eccetera), no: ascoltare è proprio una categoria di viaggio, col suo fascino e la sua nobiltà, e quindi anche il racconto che poi uno riporta, a sua volta, di quanto sentito: ciò infatti suscita la nostra capacità di coinvolgerci, la nostra memoria, l’immaginazione, e appunto la parola, quando ti trovi in veste non più di ricevente bensì di emittente di quanto sentito.
È come ascoltare un romanzo invece di leggerlo: non cambia molto, anzi talvolta è anche più bello.
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Venne infine lui, appunto, l’ulisse più strabiliante, quello che, rispetto agli altri, meno di tutti credetti che fosse una persona reale mentre lo ascoltavo.
Un giorno, Renata mi chiama:
«Miche’, vai alla casa ché è arrivato uno nuovo»
«Stavolta da dove viene?»
«Mah, veramente non ho mica capito chi è, e di dove è. Ha l’aria un po’ strana, e degli altri nessuno sembra conoscerlo»
Nell’imprevedibile fauna umana della casa d’accoglienza, varia come il cielo, che si componeva in un centone malandrino e umanissimo di facce e di racconti, quel giorno conobbi lui, un indio amazzonico, che in un’unica lunghissima avventura, a quarant’anni suonati, aveva conosciuto e oltrepassato per la prima volta nella vita: le città, gli aerei, l’oceano, l’Europa, l’inverno, il carcere straniero, e altre cose ancora.
Giallastro, sottile e nerboruto, aveva occhi a mandorla che erano due fessure, sorriso tagliente, e fonetica poco nasale al contrario di tutti i veri lusofoni, perché aveva imparato il portoghese solo da grande. Da noi era stato rivestito di jeans ma non faticavo a immaginarlo con caschetto, piroga, frecce al curaro e un carniere di scimmie o di piranhas.
Manoel (nome lusitano posticcio, giacché il suo originale, impronunciabile, non lo ricordo) abitava in un villaggio su un fiume affluente forse di un altro affluente del Rio delle Amazzoni, dove faceva il pescatore: una pesca solitamente di sussistenza, però altre volte il pescato lo vendeva o barattava con le imbarcazioni, se non le navi, come nei giorni che si spingeva fino ai fiumi più grandi.
Ogni tanto gli era capitato di cacciare il coccodrillo (lo jacarè), o l’anaconda, con i quali ci vogliono però tattiche ben differenti: come diceva il mio ulisse, è più facile il primo giacché basta una buona mira, mentre con la seconda si deve rischiosamente stare proprio nell’acqua e tentare di capire ove stia la testa, per bloccargliela. In genere si fanno arrosto: il jacarè è ottimo, ad esempio, se messo sulla brace avvolto in larghe e spesse foglie di palma (del resto, pensai, già gli equipaggi di Colombo nei Carabi avevano iniziato ad apprezzare l’iguana).
Ma erano prede occasionali; quotidianamente si occupava di pesce, e venne un giorno che proprio alcuni individui d’una nave che girava per quei fiumi, e che da lui a volte acquistava il pescato, gli fecero una proposta: si trattava di un viaggio.
Ora, a loro dovette sembrare facile in un primo momento, ma poi si accorsero che c’era da penare per fargli capire, almeno per tramite di concetti grossolani, che cos’è un aereo, cos’è l’oceano, cosa sono il Sudamerica e addirittura l’Europa… il guadagno promesso era cospicuo, e lui accettò forse senza aver davvero compreso dove si andava, e per fare cosa.
Con due o tre giorni di navigazione lo portarono a un luogo da cui presero un aereo per Manaus; da qui un altro per São Paulo, ove l’accompagnatore lo salutò affidandogli due smisurate valigie, e dicendogli che a Roma un loro amico l’avrebbe riconosciuto; lui non doveva fare nulla.
Lì a São Paulo, nell’attesa di continuare quel viaggio già favoloso ebbe una visione, la scoperta di un mondo magico, intangibile, pressoché psichedelico: per la prima volta in quaranta e più anni di vita, vide la televisione! Una cosa inspiegabile, una cornucopia concentrata e scintillante come le stanze di Atahualpa o di Montezuma.
E poi, dall’aereo gli apparve l’oceano: forse pensò di essere definitivamente impazzito, o vittima di un eccezionale incantesimo, o soltanto di essere morto e di star volando verso chissà dove…
A Fiumicino, o non c’era nessuno ad aspettarlo oppure (più probabilmente) qualcuno c’era ma aveva capito che quel soggetto poteva già essere stato adocchiato dalla polizia, o che con quelle valigie era meglio non coinvolgersi, o che era meglio farlo acciuffare per far passare qualcun altro, inganno nefando e collaudato a spese dei gonzi poco informati. Fatto sta che, ad un certo momento, qualche occhio preposto dovette accorgersi di quell’essere onnivago per i corridoi dell’aeroporto, dai lineamenti più tartari che cristiani, e dalla falcata molle e inconcludente… lo misero in una guardiola, e immagino che i poliziotti dovessero sentirsi in una situazione ibrida, tra un film, una candid-camera, e una sfida, davanti a quello straniato valigioforo di misteriosa provenienza, e che non aveva idea egli stesso di che cosa ci facesse lì!
Lo rigirarono come un pedalino, lo radiografarono, gli smontarono i due mostri che si trascinava appresso, ma niente, proprio niente veniva fuori. Solo dopo un bel po’ di tempo, e dopo che nemmeno dal Brasile si erano potuti avere lumi su chi fosse colui, un agente pensò di usare uno spillo, summa simplicitas!, ed ecco che dalla fodera di uno dei bagagli zampillò un’allegra polverina bianca.
Quattro anni dietro le sbarre, sorta di legge incisa su tavole di bronzo allo sbarco a Fiumicino, il tempo che comminavano, grossomodo, a tutti i corrieri, guardinghi o ignari, idioti oppure astuti, cioè per la gran parte degli ospiti che ora noi, nella casa d’accoglienza, ci vedevamo sfilare sotto gli occhi come uccelli di passo, ognuno coi propri racconti.
Quattro anni in un paese ma senza averlo visto!
E adesso ce lo ritrovavamo lì, presenza incongrua in quella precaria farragine di persone a loro volta casualmente assemblate, ma che doveva apparire ben più selvatico degli altri, se il pur tollerante Vujadin lo disprezzava sentenziando:
«Quelo è pegio di zingari!»
Avevo un autentico indio di fronte a me, un romanzo-non-scritto che raccontava sé stesso: la sua vita nelle selve infernali, le peripezie che l’avevano costretto lontano da casa, gli anni forzosi in quell’ogigia tetra e inchiavardata, e del nòstos che ora avrebbe ripreso verso la sua itaca ai confini del mondo.
Anzi, ripensando a dove stava tornando, mi raccontò anche che la foresta è pericolosa sul serio, ma non solo per le bestie che ci vivono, quanto perché se ti ci avventuri avventatamente non sai se ne esci, e come ne esci: quante volte lui stesso era dovuto partire per cercare gli scomparsi che vi erano improvvidamente penetrati e, una volta richiusasi alle spalle la rotta nel verde, si erano trovati come in mezzo al mare. E ora pregustava gaiamente le facce di coloro che avrebbero visto ricomparire lui dal nulla, dopo anni, come gli scomparsi che non si vedevano tornare più, e (ulteriore mistero fra i tanti che lo connotavano) questo pensiero lo divertiva moltissimo!
Ma in fondo, era solo una fra le tante stranezze che vivevo quel sognante pomeriggio, io da solo ad ascoltare il mio incredibile narratore ambulante.
E immaginai che in quel suo villaggio al fondo della più periferica foresta, la sua sparizione poteva avere già acquisito, in così tanto tempo, i toni di una fiaba, di un epos magari già fissato in versi: “Cantami, sciamano, dell’uomo senza astuzie, che partì volando verso un paese lontano, al di là dei fiumi e del mare…”
MICHELE CAPITANI
