LO SPORT: TEMA DEL NOSTRO TEMPO
di MASSIMO COZZI ♦
Ho deciso di scrivere questo articolo sullo sport, dopo aver ricevuto varie sollecitazioni da parte di amici e amiche, in modo particolare da mia cognata Paola, che, dati i miei trascorsi, si sono domandati il perché fossi restio ad intervenire su un tema così attuale, che, nel corso degli ultimi cinquant’anni, da fenomeno, qual era considerato, è assurto a realtà sociale e culturale del nostro tempo e, parafrasando il filosofo José Ortega y Gasset: “lo sport è il tema del nostro tempo”, viene, oggi, considerato, unanimemente, “fatto sociale totale”.
Lo sport viene considerato un “universale culturale”, perché è una delle espressioni più antiche e universali della cultura umana; ha accompagnato l’uomo durante il corso della sua storia, rappresentando una manifestazione culturale di primaria importanza. Al riguardo, il riferimento alla Grecia del V° e IV° secolo a. C. è obbligatorio (sono da ricercare lì le origini della civiltà europea), perché il concetto del kalos kai agatos e della kalokagathia informa di sé tutta la cultura e la pedagogia greca: mente e corpo si accordano mirabilmente nell’uomo, l’una è il prodotto dell’esercizio intellettuale, l’altro è il prodotto dell’esercizio fisico programmato e continuato. Prestanza fisica ed elevatezza morale sono in un rapporto così strettamente vincolato da rendere inutile e vana ogni opera educativa che li consideri separatamente.

Il giovane che esce dai ginnasi e dalle scuole filosofiche rappresenta il risultato di un’armonia educativa completa, vanamente ricercata nei secoli successivi, anche se Vittorino da Feltre, Mercuriale, Montaigne, Locke, Arnold, Jahn, Spencer e Pierre de Coubertin l’hanno sempre, fortemente, vagheggiata.
Il ginnasio nasce come risultanza di un’esigenza molto sentita: accentrare la sede degli esercizi fisici ed atletici e offrire a coloro che si dedicavano a tali attività la possibilità di rendere completa la loro educazione, sussidiandola con l’aspetto culturale; al ginnasio affluivano non solo atleti, non solo giovani, ma anche i più celebrati pensatori e oratori, divenendo un armonico intreccio di attività.
La suddivisione dell’esercizio fisico, in senso lato, in due settori di attività: uno caratterizzato dalla considerazione, prevalentemente, agonistica del movimento, l’altro dalla considerazione, prevalentemente, educativa, che si avvale, anche, dell’aspetto agonistico, mantenendolo nei limiti stabiliti dalla sua valenza pedagogica, risulta alquanto difficile e, allo stesso tempo, non è facile stabilire una linea di demarcazione netta di quali siano stati, allora, e quali siano, oggi, i suddetti limiti.
L’agonistica greca era caratterizzata dall’insieme delle attività motorie, a carattere competitivo, che, risultando dall’evoluzione di semplici forme di esercitazioni ludiche ricavate dalle consuetudini di vita, dal rituale di feste e di manifestazioni religiose e da esigenze di preparazione militare, si esprimevano in prove di massimo impegno motorio con il fine esclusivo dell’ottenimento della vittoria.
Nella cultura greca lo spirito agonistico era molto elevato e si rifletteva, anche, nella mitologia, dove si narrano episodi di sfide tra eroi e divinità, con esiti, spesso, drammatici. Il valore attribuito alla vittoria era enorme, in quanto garantiva al vincitore: fama, onore e prestigio. Anche se lo sport moderno è influenzato da fattori economici, sociali e politici che ne condizionano l’organizzazione e gli obiettivi e la competizione ha assunto caratteristiche diverse, non mancano le analogie con lo sport antico: l’importanza della prestazione fisica e tecnica, il rispetto dell’avversario e delle regole, la ricerca della gloria personale o collettiva (appartenenza a una squadra o ad una nazione, ora; alla città-stato, allora).

Lo sport moderno, regolato da norme ed organizzazioni territoriali, nazionali e internazionali permanenti, che ne garantiscono la legalità e la correttezza, è un’attività che implica differenti finalità e si differenzia da quello antico per il fatto di essere un’attività strutturata e programmata, rispondente a complessi criteri organizzativi. Tali criteri consentono, attraverso un calendario di prove e competizioni, disciplinate da collegamenti territoriali, nazionali e internazionali; l’utilizzo di idonei strumenti di misurazione e la predisposizione di classifiche, graduatorie e primati, il confronto tra gli atleti, di ogni paese e di ogni tempo per l’accertamento e l’aggiornamento dei risultati.
Per quanto riguarda lo sport antico, le notizie, spesso, frammentarie che abbiamo, ci consentono di supporre che forme organizzative e programmi agonistici non siano stati del tutto assenti, ma che il loro sviluppo fosse, certamente, limitato, a causa delle difficoltà di comunicazioni e di trasporti, della mancanza di un’organizzazione sportiva permanente, di strumenti di misurazione idonei e di regole fisse e codificate. Scopo delle competizioni era quello di far valere la propria abilità, il proprio valore nei confronti dell’avversario, con il fine di conseguire la vittoria.
Nello sport moderno, il prevalere di una finalità rispetto alle altre è ciò che differenzia lo sport dilettantistico da quello professionistico, amatoriale, promozionale, ecc., tuttavia, pur con tutte le differenziazioni possibili ed immaginabili, ciò che connota, ancora, lo sport e ne costituisce il carattere distintivo è la competizione, il conseguimento della vittoria e del primato che diventa valore.
Nel 1938, lo storico olandese Johan Huizinga scrive Homo Ludens (Einaudi, Torino, 2002.), un libro che si prefigge di evidenziare la relazione tra il gioco e la cultura. La tesi dell’autore è che vi sia una relazione stretta tra l’essenza del gioco e la cultura; gioco che sarebbe, addirittura, precedente e fattore determinante per la nascita della stessa cultura: “Il gioco è una funzione perenne della mente per fronteggiare le novità, esercitando la nostra capacità di ideazione”. Ed è “dalla capacità di ideazione del singolo che, su larga scala, sorge la cultura”.
Huizinga propone un fondamentale tentativo di definizione del gioco come centro propulsore delle diverse articolazioni della cultura: analizza il valore della forma agonistica del gioco e il suo apporto alla cultura per mezzo della tensione alla vittoria *(Nota); il rapporto tra gioco e diritto, gioco e guerra, gioco e sapere, gioco e poesia ed i misteri della figurazione allegorica e mitica; analizza lo stretto rapporto tra gioco e filosofia, tra gioco e arte. In ognuna di queste relazioni coglie gli elementi comuni che dimostrano l’origine ludica della cultura.
*(Nota). Appare chiaro che quando l’autore analizza il valore della forma agonistica del gioco e il suo apporto alla cultura per mezzo della tensione alla vittoria sta, in realtà, parlando dello sport, che trascende il gioco, nel senso che lo sport non è un’attività fine a se stessa, quale il gioco, ma un’attività che implica finalità diverse: agonismo e vittoria.
“Il gioco non è una forma di cultura tra le altre. La cultura, invece nasce in gioco, la cultura è il gioco stesso quando permane nel tempo. La cultura non è nemmeno un prodotto del gioco che da esso si separa, essa è tale come parte di esso: come un ramo di un albero non si può distaccare dal tronco senza seccare…, perché il gioco è la radice della cultura. Se una cultura si distacca completamente da questa vera radice ludica non è più cultura, ma la sua crisalide ormai morta, un ramo secco”.
L’autore ha il merito di aver posto le basi per la nascita e lo sviluppo di quella branca del sapere che verrà denominata, poi, filosofia del gioco, incentrando la sua speculazione sul significato che il gioco e lo sport rivestono per l’uomo.
Ho citato Johan Huizinga, perché dalla sua analisi vorrei partire per le mie considerazioni.
I motivi per i quali ero titubante a scrivere su un tema che ha rappresentato l’attività prevalente e fondamentale della mia vita lavorativa, frutto, certamente, di una scelta giovanile, divenuta, poi, nel tempo, attività professionale, sono riconducibili a fattori di diverso ordine e grado; non voglio elencarli tutti, citerò, di seguito, i due principali:
- ritenevo di aver concluso un ciclo ed era giunto il momento di dedicarmi, come ho fatto, ad altro;
- c’era già chi, sul blog, si occupava e si occupa, egregiamente, dell’argomento.
Confesso di essermi trovato in difficoltà a tornare a scrivere, rivisitando concetti analizzati e approfonditi sotto il profilo: definitorio, classificatorio, tecnico, metodologico, organizzativo, normativo, economico, sociale, ecc., ma non volevo essere considerato presuntuoso né fare il prezioso.

Avrei potuto riciclare articoli, interventi a congressi, prodotti durante la mia attività di dirigente, prima, e di direttore centrale, poi, di una delle cinque aree direzionali del C.O.N.I.; le dispense delle lezioni tenute, in qualità di docente a contratto, al Master di II° Livello in Diritto ed Economia dello Sport, presso la Facoltà di Giurisprudenza della Libera Università Maria Ss. Assunta (LUMSA), o, addirittura, stralciare interi paragrafi del mio libro: La regolazione e lo sviluppo organizzativo del sistema sportivo italiano, scritto nel 2004, i cui contenuti sono ritenuti ancora attuali, tanto che, in alcune università italiane, ne è stata e, tuttora, ne viene consigliata la lettura.
Ho scelto di non riproporre quanto, già, elaborato e scritto sullo sport, riguardo alle sue peculiarità, partizioni ed articolazioni, ma di scrivere qualcosa di nuovo che fosse espressione di pensieri e domande, scaturiti dal mio vissuto di uomo di sport, anche se, allo stesso tempo, ritengo opportuno cominciare ad avviare una riflessione sulle sue prospettive future e sulle forme di equilibrio tra i vari attori, al fine d’individuare le tendenze, gli scenari, le incognite e i fattori d’incertezza che, nel medio e lungo periodo, possono incidere sulla sua regolazione istituzionale e politica.
Su tali, possibili sviluppi mi piacerebbe coinvolgere gli amici, in primis Nicola Porro, che hanno già affrontato, con risultati lusinghieri, le tematiche sportive e hanno condiviso con me l’onere e il privilegio di averle tematizzate in ambito universitario.
In questa sede, preferisco affrontare il tema dello sport, cercando di evidenziare il significato che lo sport ha rivestito e riveste per l’uomo, nella convinzione che ogni vissuto sia un’esperienza di senso e che ogni evento sportivo produca e dia valore in quanto possiede e offre significati con i quali comprendere meglio l’essere umano.
Tale approccio ritengo ci consenta di interrogarci riguardo al carattere distintivo dello sport, mettendo da parte tutto quello che non sia l’osservazione diretta della manifestazione sportiva così come essa è.
L’uomo possiede una facoltà di conoscere che non è sensoriale, ma è razionale e a questa facoltà la manifestazione del reale non è più come ci appare, non appare più falsata come nel caso della conoscenza attraverso i sensi, ma appare così com’è.
Quando parliamo di fenomeno ci riferiamo, per lo più, a manifestazioni che si percepiscono con i sensi.
Quando parliamo di manifestazione sportiva ci riferiamo a qualcosa che si coglie con il pensiero, con la ragione, attraverso un processo mentale e culturale, perché la sua essenza non è tanto quel che si vede, ma le cause, i moventi che, storicamente, l’hanno determinata.
Domandiamoci, allora, quali sono i fattori causativi e qual è l’essenza dello sport?
Da questi bisogna partire se si vuole superare la visione dello sport, inteso come fenomeno, retrocedendolo al rango di cronaca della peggiore stampa.
Lo sport è una manifestazione di movimento che si esplica in una forma che è sempre competitiva; è competizione perché l’uomo sportivo scopre un valore e vuole diventare lui quel valore, esserne l’antesignano nella storia.
La manifestazione sportiva è, pertanto, una manifestazione motoria, che dipende dalla volontà dell’uomo: lo sportivo si muove, perché vuole muoversi, vuole muovere il proprio corpo nello spazio e nel tempo, coordinate essenziali della propria attività, attraverso le proprie strutture anatomo-fisiologiche; biochimico-cellulari e biomeccaniche (apparato osteo-tendineo e muscolare, apparato cardio-circolatorio, apparato respiratorio, apparato nervoso, linfatico e ghiandolare, ecc.) che rendono possibile l’atto di volontà.
Accanto alla spinta fisica al movimento, quindi, c’è la spinta ideale: l’impulso a individuarsi come volontà e coscienza morale, perché l’uomo agisce per individuarsi: per percorrere una traiettoria che lo porta dagli impulsi naturali a quelli ideali.
La psicologia junghiana ha pronunciato questa grande parola della individuazione. Individuarsi, ma per quale fine? Individuarsi, ma con quale rapporto nuovo tra questo io che s’individua e gli altri io che lo circondano? Ecco il problema più profondo ed ecco il punto nel quale la riflessione sull’attività sportiva diventa uno strumento formidabile di conoscenza.
Lo sport è movimento competitivo, finalizzato.
Si potrebbe obiettare che lo sportivo (l’atleta) non compete quando si allena o quando non si confronta direttamente con gli altri.
Ad una analisi superficiale l’allenamento sembrerebbe non possedere i caratteri della competizione, ma ad un’analisi più attenta non può sfuggire che, anche durante l’allenamento, l’atleta verifica le proprie condizioni, i progressi, le possibilità di miglioramento; cerca di superare i propri limiti; entra in competizione con se stesso, stimolato dalla contesa e dal confronto con l’altro, con il tempo, con lo spazio e con la natura.
Riporto, al riguardo, la definizione di allenamento sportivo del professor Carlo Vittori, perché sintetizza in maniera esaustiva il trait d’union tra allenamento e gara e ci aiuta a superare il collo di bottiglia della suddivisione dell’esercizio fisico nei due settori di attività, prevalentemente agonistica ed educativa:
“L’allenamento sportivo è un processo pedagogico-educativo complesso che si concretizza nell’organizzazione dell’esercizio fisico ripetuto in quantità e con intensità tali da produrre carichi progressivamente crescenti, che stimolino i processi fisiologici di supercompensazione dell’organismo e favoriscano l’aumento delle capacità fisiche, psichiche, tecniche e tattiche dell’atleta al fine di esaltarne e di consolidarne il rendimento in gara”.
L’atleta di ieri è un antagonista rispetto all’atleta di oggi che vuole immedesimarsi con un valore, con un archetipo che l’atleta di ieri non possedeva; l’atleta di oggi vuole salvare dalla vanificazione dell’atleta di ieri un valore, un primato che l’atleta di ieri aveva conquistato. L’antagonista diviene così il tempo, incarnato nella potenza regressiva, distruttiva della natura; il tempo non come puro ordine logico-matematico, in cui si può disporre di una molteplicità di eventi, ma il tempo incarnato in questa molteplicità, immedesimato con la legge regressiva di questa molteplicità, con la legge per cui le cose tendono a morire.
Lo sport è sempre competizione: competizione per la vittoria, per il progresso, per superare un limite, competizione che il singolo atleta esercita, per proprio conto, durante la preparazione alle gare e che si esplica, in modo evidente, quando la manifestazione sportiva investe due o più soggetti.
Tutto ciò sarebbe fine a se stesso se non ci fosse un elemento qualificante sotto il profilo etico: il desiderio del primato, vale a dire l’aspirazione al valore. Primato che diventa valore.
Non c’è sport senza ricerca del valore, che assume, pertanto, i caratteri di fattore ineludibile. Ecco che allora l’evento sportivo, apparentemente irrilevante e fine a se stesso, diviene manifestazione culturale di valore primario.
L’atleta, attraverso lo sport, si prefigge una finalità ritenuta vincolante e degna di essere perseguita: il valore del primato; il valore del tempo, sempre minore, con il quale percorrere un determinato spazio, una distanza sempre maggiore; il valore, in generale, del limite, dell’affinamento di un’abilità, di una capacità.
Lo sport è movimento competitivo, finalizzato verso un archetipo, verso una forma ideale, che desideriamo divenga la nostra forma di vita. Verso questa forma ci confrontiamo con l’alterità, competiamo con gli altri uomini che cercano di raggiungere come noi, prima di noi, meglio di noi quella forma: competiamo con gli altri e con noi stessi.
Il valore è una forma, i Greci chiamavano la forma idea, perché, per loro, la forma era sempre visibile dall’occhio del corpo e da quello della mente e idea vuol dire, attraverso un etimo greco assai facile, il visibile.
Visibile è, per l’atleta stesso, per la squadra e per il Paese al quale appartiene, la conquista di una vittoria olimpica, di un campionato, di un trofeo, di un primato, perché diviene un valore storico e culturale, destinato a conferire all’uomo un primato, duraturo nel tempo, che è primato di vittoria.
Oggi, come nell’antica Grecia, il nome dei vincitori dei giochi olimpici è ed era iscritto negli elenchi degli annali della manifestazione; viene e veniva tramandato ai posteri. I loro nomi sono giunti fino a noi attraverso: Ippia di Elide; Flegone di Tralle; Eusebio di Cesarea e lo stesso Aristotele.
Nell’antica Grecia, lo sport era celebrato come un’occasione di gloria e di onore, sia per i vincitori che per le loro città d’origine.
Ad Olimpia, la proclamazione solenne dei vincitori dei giochi olimpici, che venivano premiati con una corona d’olivo selvatico, tagliato con un trincetto d’oro da una particolare pianta indicata dall’oracolo, giunse a concretizzarsi, dopo il VI° secolo, nell’erezione di una statua di marmo e di bronzo a chi avesse vinto tre gare o che, secondo alcuni, fosse risultato vincitore nel pentathlon.
Lentamente, però, cominciano ad incrinarsi i valori altissimi della civiltà ellenica: ai premi simbolici si sostituiscono spesso ricompense materiali o in denaro; la corruzione comincia ad inquinare i principi di lealtà e di correttezza, tanto che, nel 378 a. C., viene annullata la vittoria del tessagliese Eupolos, perché ottenuta con la frode.
Dal siciliano Timeo, che del calendario olimpico ha, probabilmente, la paternità, conosciamo il nome del vincitore dei primi giochi olimpici, svoltisi, ad Olimpia (località dell’Elide nella parte nord-occidentale del Peloponneso), nel 776 a. C. (anche se le origini dei giochi si perdono nelle ipotesi suggestive della leggenda e le farebbero, addirittura, risalire al mitico Heracles intorno al 1250 a. C.). I pubblici registri degli Elei riportano la prima vittoria olimpica, conseguita nella corsa dello stadio dall’eleo Koroibos.
Lo stadio: corsa veloce, pari a 600 piedi: 192,27 metri (paragonabile agli attuali 200 metri, anche se la gara veniva effettuata su un percorso rettilineo), costituì per circa cinquant’anni, cioè per tredici edizioni dei giochi, l’unica gara del calendario olimpico, che si svolgeva in una sola giornata. La durata dei giochi passò, con il tempo, a cinque giorni. Alcuni storici propendono per la tesi che si protraessero per sei, sette giorni, ma i più convengono sulla durata di cinque giorni.
Oltre ai giochi olimpici che si tenevano ogni quattro anni e si svolgevano ad Olimpia, luogo sacro e ideale punto di convergenza di sportivi, filosofi, oratori, poeti ed artisti, bisogna ricordare le altre grandi manifestazioni sportive nazionali: le Delfiche (o Pitiche); le Nemee; le Istmiche.
I giochi olimpici erano anche un’occasione di pace e di unione tra le diverse città-stato greche, che sospendevano le ostilità e le guerre per partecipare alla celebrazione.
Il poeta Pindaro (518 a. C. circa – 438 a. C. circa), per primo, scopre che lo sport è valore, ricerca del primato: “L’uomo che si muove per assimilarsi a Zeus”.
L’atleta di Pindaro si allena; segue una dieta rigorosa; è, sessualmente, continente; è proteso verso la vittoria da conseguire.
Pindaro è il cantore della poesia del vincitore, delle gesta degli atleti olimpici ai quali dedica degli epinici, nei quali esalta le loro virtù e le loro origini; scopre la poesia del vincitore, dell’uomo bello, forte e capace, del migliore; anticipa il concetto che, di lì a poco, si sarebbe concretizzato nella kalokagathia. Per Pindaro, la vittoria nello sport è un dono degli dei, una manifestazione dell’areté, cioè del valore innato, trasmesso dalla stirpe.
Anche se Pindaro non si occupa dei vinti, la sua poesia, paradossalmente, mette in luce la figura del vinto, di colui che è il vinto della manifestazione sportiva, che, per diretta analogia tra la vita e lo sport, ripropone la figura del vinto della vita, incarnata da Socrate.
Socrate (470/469 a. C. – 399 a. C.) è un uomo che non vanta dei primati, stando all’aneddotica di Senofonte, la sua vita familiare è piuttosto agitata; il suo bilancio quadrava a mala pena; è piuttosto brutto tanto da essere paragonato, dai suoi contemporanei, ad un sileno; veste dimessamente ed affianca le figure dei ricchi, degli eleganti, di coloro che, per la loro posizione sociale, sono considerati dei vincitori.
Socrate però, che indossa la veste del vinto, continua il discorso sul valore; intuisce che il valore è anche del vinto e, addirittura, che può essere più del vinto che del vincitore se il vinto ne intuisce il carattere di normatività assoluta, di legge infrangibile.
Socrate si dedica all’esame critico dei concetti morali e alla ricerca della verità, parlando con i suoi simili, cerca qualcosa che unisca, che non è fatto di spazio e di tempo, non serve immediatamente al primato umano; cerca qualcosa che l’uomo, forse, già possiede come tale; si domanda come la verità si manifesti nella storia, a quale mondo appartenga, se è di un uomo o di tutti gli uomini, se è cosa di cui veramente occorra preoccuparsi o se si possa farne a meno. Egli svolge un discorso apparentemente logico che è, in realtà, un discorso morale.
Pindaro si occupava di un’idea che era armonia corporea, movimento. Socrate si occupa di un’idea che è armonia di procedimento mentale, scoperta comune della verità e scopre che il valore è di tutti gli uomini. C’è in tutti gli uomini l’anelito verso quella verità, c’è, poi, non negli uomini di Pindaro, ma nei vinti di Socrate la possibilità di onorare quella verità, la possibilità di capire che essa richiede talvolta il movimento, ma richiede sempre l’ascesa, il desiderio di ottemperare alla verità che si è veduta, richiede l’ossequio ad una realtà ignota che è al di là della realtà materiale.
Il vinto con Socrate pone il suo diritto al valore, non alla scoperta prioritaria del valore. Questa rivendicazione del vinto che avviene con Socrate, nella storia della filosofia greca, è il fatto nuovo della ricerca sulla competizione in genere e sulla competizione sportiva in particolare.
Socrate cerca come vinto di diventare vincitore, di acquisire un’elevatezza morale per cui anche lui diventa esemplare come il vicitore pindarico. Il vinto può, attraverso la meditazione sul valore e sul primato, essere più vincitore del vincitore, anche il vincitore può essere vincitore due volte.
C’è un vincitore della gara, ci sono molti vinti, ma al di là della vittoria e della sconfitta, nello sport si ripropone il discorso attraverso il quale il vincitore e i vinti devono darsi ragione, devono spiegarsi perché la vita dell’uomo anziché essere un fatto di inerzia o di movimento disordinato, sia movimento ordinato verso una conquista, perché l’uomo senta un impulso verso una necessità che lo porta a volersi migliorare, a voler essere armonico, a voler essere oggi migliore di ieri.
Il discorso sul valore rimane intrinseco allo sport che acquista, perché ad esso connesso, un significato formativo e culturale di portata immensa: imparare a vincere come a perdere, perché nello sport al pari della vita si vince e si perde; non imbaldanzirsi alla vittoria né scoraggiarsi per la sconfitta; il vincitore di oggi può essere il vinto di domani, il vinto di oggi il vincitore di domani.
Lo sport è consapevolezza del limite, rispetto delle regole e dell’avversario, accettazione della relazione universale fra gli uomini, che è la base dell’azione morale.
Questa è l’importanza del discorso filosofico ed etico sullo sport: capire lo sport significa prepararsi a capire la vita.
MASSIMO COZZI

Grazie a Massimo di questo impegnativo contributo: un autentico saggio su un fenomeno millenario ma di sempre attuale rilevanza.
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