LA FANTASIA DEL CHATBOT E LA RESURREZIONE DI KENNEDY

di NICOLA R. PORRO

L’intelligenza artificiale, si è visto, è in grado non solo di generare testi letterari e di produrre documentazioni sui più svariati argomenti. Può anche nutrire la nostra fantasia attraverso immagini che non producono la realtà ma la simulano. Se i nostri vecchi album fotografici conservano le memorie di qualcosa che abbiamo materialmente ed emotivamente vissuto, i nuovi repertori prodotti da AI costruiscono immagini che alludono a esperienze fittizie. Inventano volti, paesaggi, monumenti. Un artista come Roberto Beragnoli ha addirittura creato il reportage di un immaginario viaggio in Italia e lo ha postato su Instagram mettendolo a disposizione di chiunque fosse interessato o incuriosito da quella che ha chiamato la sua personale “esplorazione della memoria collettiva”. Niente di misterioso o di iniziatico: se ne è occupato il Venerdì di Repubblica del 16 aprile us con un articolo di Gabriele Di Donfrancesco (“Se l’Intelligenza artificiale inventa il Grand Tour”) corredato da immagini, alcune delle quali riproduco qui. Associare il gioco della memoria artificiale alla versione postmoderna del viaggio in Italia – vissuto da oltre tre secoli come rito di iniziazione dei maggiori artisti e pensatori europei – mi è parsa una trovata geniale. 

Mette a confronto un mito estetico-intellettuale, elaborato dalla cultura del primo romanticismo, con la prosaica realtà del turismo di massa contemporaneo. In qualche modo, l’AI assolve una funzione dissacrante – inventa un falso per rappresentare il reale – e persino a suo modo democratica. Nel senso che, insieme all’aura estetica – le immagini non sono che una ricercata brutta copia dell’Italia reale – dissolve l’aureola elitaria che per tre secoli ha accompagnato il viaggio in Italia sulle orme di Goethe o di Stendhal, a cavallo fra XVIII e XIX secolo. 

Il Journey to Italy di Beragnoli propone tutt’altro. Racconta per immagini la banalità della vita quotidiana, si tratti dello scorcio di un anonimo lungomare o di una passeggera che dal treno osserva distrattamente un panorama privo di particolare appeal. 

La rappresentazione del non-luogo disegnato da AI non disdegna di sficcanasare nella privacy di vip immaginari, nello stile démodé di due anziane signore a passeggio e nell’impegno culinario di una cuoca immaginaria.  A pensarci bene, questa ideazione postmoderna di un reale privo di realtà sembra replicare Aristotele che venticinque secoli fa definiva l’arte “invenzione del verosimile” anziché “imitazione del vero”. Principio che ha ispirato da sempre la creazione artistica se è vero che In ogni tempo l’arte – ce lo ha spiegato Jung – attinge all’inconscio collettivo. Universo sconfinato e difficilmente definibile al quale l’AI non mi pare proprio capace di mettere ordine.

La novità consiste piuttosto nel fatto che la produzione di un reale fittizio è affidata alle alchimie di un software e non alla fantasia di un pittore, di uno scultore o di un poeta. Le stesse immagini generate dall’AI hanno poco a che vedere con la concezione classica di fotografia. Sono piuttosto il prodotto di una nuova forma di arte generativa che seleziona, mescola, scompone e ricompone materiali esistenti.  Un algoritmo può rispondere agli input ricevuti accedendo in tempo reale a una quantità pressoché sconfinata di scatti caricati sul web. In questa pratica, che per inciso è ancora sottratta a ogni forma  di  regolazione, confluisce di tutto: da archivi d’epoca scannerizzati a repertori cinematografici, da produzioni televisive a rassegne di video professionali, da prodotti amatoriali fino a selfie occasionali. Beragnoli parla di “togliere il filtro dell’ego”, ridimensionando la genialità soggettiva grazie alla tecnologia dell’AI e al software Dall-E, preferito al concorrente Midjourney.  Le sue immagini non sono fotorealistiche ma riproducono situazioni potenzialmente virali, come nel caso del falso arresto di Trump, del Papa che indossa un  Moncler o delle (premature) esequie di Berlusconi. Immagini di pura fantasia che tuttavia hanno fatto il giro del mondo in tempo reale. L’infaticabile Beragnoli ha persino dato vita a Ravenna a una mostra fotografica dedicata a un evento mai avvenuto: il reperimento di antichi mosaici bizantini. Il non-evento si è trasformato in una specie di happening che – potenza della suggestione – ha  risvegliato in alcuni partecipanti la memoria di eventi evocati dai conduttori dell’evento ma mai avvenuti.

Di recente in Italia ha sollevato perplessità e qualche polemica l’intervista condotta da una giornalista di Sky a John Fitzgerald Kennedy, scomparso sessant’anni fa. L’intervista, la prima del genere prodotta in Italia, è andata in onda sabato 15 luglio alle 18.30 su Sky Tg nel corso del programma “Trappole virtuali e libertà digitali”. Questa procedura si chiama deepfake, appartiene anch’essa alla produzione generativa dell’AI e consiste nel creare, tramite il solito chatbot, una perfetta copia digitale del personaggio prescelto. Utilizzando materiali di repertorio – non solo immagini, foto e filmati ma anche registrazioni in voce e contributi di storici, politologi e giornalisti specializzati – un redivivo JFK, debitamente ma garbatamente invecchiato, ha risposto alle domande di Sarah Varetto e di altri giornalisti nonché di personalità della politica presenti in studio come se presenziassero a una usuale conferenza stampa. Il redivivo Presidente americano ha così potuto dire la sua su temi come la guerra di Ucraina, la politica di Putin e la strategia del fronte occidentale. 
Un po’ come se nel 1989 la Rai avesse invitato il chatbot di Giovanni Giolitti a commentare la caduta del Muro di Berlino…

Quello del deepfake mi pare rappresentare un significativo salto di qualità. Gli esperti del settore lamentano tuttavia una progressiva perdita di qualità del software (ChatGpt) che lo produce. Anche questa non è una novità assoluta: cinque o sei anni fa Facebook precipitò repentinamente nelle preferenze degli utenti ma fu salvato da un’ardita operazione di ingegneria dell’informazione. In una notte vennero modificati tutti gli algoritmi che lo generavano. Del vecchio social sopravvisse solo il nome, senza che nessun fruitore si accorgesse, al risveglio, di quanto avvenuto. I chatbot di nuova generazione sono in grado di “generare” personaggi e situazioni mai esistiti usando l’intelligenza artificiale. Il suo machine learning e i software che lo supportano, come Bard o ChatGpt, possono generare eventi in cui gli interventi in voce da parte di una persona inesistente o deceduta vengono simulati con la procedura deepfake. Abbiamo potuto ascoltare, ad esempio, dalla voce “autentica” di Kennedy risposte a domande relativa all’attualità politica. “Se fossi ancora in vita e Presidente degli Stati Uniti – ha dichiarato a Sky – sarei disposto a intraprendere negoziati con il Presidente Putin per cercare una soluzione pacifica alla situazione in Ucraina”. Posizione che, per quanto generica, può essere giudicata credibile. Va sottolineato, però, che non si tratta di una ricostruzione “di contesto” come quando assistiamo a un film o a una serie televisiva in cui compaiono personaggi dell’epoca. Qui le immagini non riflettono l’identità di un attore e i contenuti sono elaborati in automatico senza alcuna regia e alcun copione. La rimozione delle categorie di spazio e di tempo produce piuttosto una sensazione di straniamento. 

Intanto, con l’arrivo di Bard e l’annunciata offensiva di Apple – che utilizza già il machine learning per il riconoscimento vocale (Siri) e per identificare le immagini dì volti (Foto) – la sfida dell’intelligenza artificiale generativa fa un ulteriore salto di qualità. Si fronteggiano sistemi capaci di attingere in tempo reale allo sconfinato patrimonio di informazioni presenti sul web per elaborarlo in tempo reale e destinarlo a qualsiasi applicazione immaginabile. Jack Krawczyk, il product lead di Google – quello che definisce la visione e la missione del prodotto – parla di un evento che influenzerà la postmodernità più di quanto abbia fatto la rivoluzione industriale per la modernità. Descrive il suo Bard come «uno strumento di espansione delle possibilità dell’immaginazione, di amplificazione del più potente computer al mondo, che resta la mente umana». A marcare la differenza con il rivale ChatGPT, Bard si propone come una forma di intelligenza “democratica”: non solo è gratuito, ma non richiede nessuna registrazione in accesso, è raggiungibile direttamente dal proprio browser e le risposte che fornisce sono aggiornate in tempo reale, rendendo (teoricamente) impossibile ogni forma di manipolazione dei contenuti.  Come che sia, l’AI sta forse producendo una mutazione genetica dell’informatica classica. Il computer non esegue più comandi impartiti da un utente. Di fronte a una richiesta (prompt) istituisce in automatico un’interazione con chi gliela avanza e seleziona le opzioni in funzione degli obiettivi. Opera, insomma, una propria strategia che la indirizza a repertori diversi, ne seleziona i contenuti utili e li fa interagire fra loro in funzione delle esigenze del richiedente. Può allestire i materiali per preparare un colloquio di lavoro, elaborare la bozza di una ricerca, suggerire i temi per una campagna pubblicitaria. Sa persino misurarsi con la produzione di un testo “artistico”, dare ordine ai materiali dispersi contenuti in un archivio o inventare una fiaba da raccontare a un bambino. 

È prevedibile che anche i collaboratori di spazioliberoblog entrino presto in partita. Urge attrezzarci a gestire il nostro chatbot, a perfezionare i nostri prompt, a costruire inedite deepfake e ovviamente a sfruttare opportunamente il più vasto image archive mai visto sulla faccia della Terra. Potremo scegliere le modalità di risposta che preferiamo: semplice, lunga, corta, professionale o informale. Potremo chiedere l’immagine meglio associabile alle melenzane alla parmigiana o alla ragion pura kantiana. Pare persino che ci insegnerà a suonare il pianoforte. Intanto, una volta inserito il nostro prompt e digitata l’icona con l’altoparlante, potremo ascoltare i testi prodotti prima di eventualmente divulgarli. Per ora le risposte non sono personalizzate ma il prodotto ottenuto può essere valutato ricorrendo al ben noto pollicione alzato o abbassato, contribuendo a perfezionare il prodotto.

Sono scenari affascinanti e insieme inquietanti. Nessuno di noi ha il dono della preveggenza. Gli addetti ai lavori si stanno già accapigliando fra chi intravede per l’umanità magnifiche sorti e progressive e chi annuncia un’irreparabile eclissi della ragione. A noi conviene seguire il consiglio di David Autor, l’economista del MIT che più si è speso nell’analisi delle progettazioni dell’AI: «Più che pensare a quello che può fare l’intelligenza artificiale, è meglio pensare a quello che vogliamo che l’intelligenza artificiale faccia per noi». Non è una sfida banale.

NICOLA R. PORRO

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