VENTISEI GIORNI E LA TEMPESTA

di GIORGIO LEONARDI

                                                                                       «Geme l’umanità, per metà schiacciata sotto il peso dei suoi progressi».

                                                                                                                                                                                        (Henri Bergson)

            Alle 11,30 del mattino bussarono alla porta.

            «Salve, sono Anna Grigor’evna Snitkina, sta cercando una stenografa, vero?».

            In effetti cercava proprio una stenografa e, senza esagerare, ne andava della sua stessa vita. La fece entrare in casa e le spiegò la situazione. Ventisei giorni per consegnare un romanzo, fatto e finito: l’editore lo teneva sotto scacco.

            L’editore era Stellovskij e lui Fëdor Michajlovič Dostoevskij.

            Chiunque abbia mai bazzicato questo mondo si è imbattuto in editori balordi, ma Stellovskij li batteva proprio tutti. Aveva concesso un anticipo a Dostoevskij per il suo prossimo libro, ma lo scrittore l’aveva sperperato nel gioco d’azzardo, e ora si trovava spalle al muro, costretto da Stellovskij a firmare un contratto editoriale capestro: tremila rubli di compenso per scrivere un romanzo rigorosamente entro ventisei giorni. E se non ce l’avesse fatta? Peggio per lui: oltre a una cospicua penale, avrebbe perso tutti i diritti delle sue opere pubblicate in precedenza (tra cui Le notti bianche, Umiliati e offesi, Memorie dalla casa dei morti, Memorie dal sottosuolo, ecc. Mica roba da ridere). In pratica lo scrittore, già soffocato dai debiti, sarebbe stato letteralmente rovinato, e senza più speranza di uscirne.

            Dostoevskij aveva dovuto accettare, già sapendo che non avrebbe visto nemmeno un rublo di quel compenso, perché l’intera somma era destinata a coprire solamente il suo disavanzo.

            Un romanzo in ventisei giorni. Certo, lui le idee in testa ce le aveva… ma mancava proprio il tempo materiale per metterle nero su bianco.

            «Sì, Anna Grigor’evna, ho assoluto bisogno di una stenografa».

            Lei era una ventenne dai capelli castani, aria interrogativa e uno sguardo pungente. Lui di anni ne aveva già quarantacinque, e portati anche male: rughe in volto, capelli diradati e quelle sue mani vulnerate dall’artrite diventate troppo lente a scrivere. Una stenografa sarà anche veloce a battere a macchina, pensò Dostoevskij.

            Per ventisei giorni Anna e Fëdor si barricarono nell’appartamento di lui, non uscendo quasi mai di casa. Lui, in preda a una febbricitante esaltazione, dettava come un fiume in piena, come se avesse chiara in testa ogni singola parola di ogni singola frase. La ragazza batteva a macchina freneticamente fogli su fogli, a sua volta trascinata dal demone ipnotico dell’eccitazione. Avrei voluto esserci in quella casa, solo per vedere questi due consumare un’orgia di parole nella luce cenerina che penetrava dalle finestre o al lume fioco della lampada a petrolio.

            La storia che stava prendendo forma era quella di un giocatore d’azzardo con l’insana passione per i casinò… in pratica Dostoevskij raccontava cose che ben conosceva.

            Il 1° novembre del 1866, esattamente ventisei giorni dopo che Anna si era presentata bussando alla porta, a San Pietroburgo faceva molto freddo, ma Fëdor infilò al volo il suo vecchio e logoro pastrano, e uscì di casa correndo verso la sede dell’editore Stellovskij con un plico in mano. Quel diavolo di uno scrittore ce l’aveva fatta a scrivere il suo romanzo! Tuttavia, per l’intera giornata Stellovskij si negò, e nessuno dei suoi dipendenti volle prendere in consegna il dattiloscritto. Era di certo uno stratagemma per far scadere i termini contrattuali, facendo quindi valere la clausola che obbligava Dostoevskij a cedere tutti i diritti delle sue opere.

            Ma lui era davvero un diavolo di scrittore e, dal momento che Stellovskij non gli concedeva udienza, filò dritto da un pubblico ufficiale, gli affidò il suo lavoro e si fece rilasciare una ricevuta formale che certificava la consegna entro i termini stabiliti. Quindi rientrò a casa.

            Qualche giorno dopo chiese ad Anna di sposarlo. Lei accettò.

            I due ebbero un rapporto lungo e altalenante, minato dalla sconsiderata propensione di lui per il gioco d’azzardo. Ma non è questo che mi interessava, il punto è un altro.

            Da un po’ di tempo rifletto sul “prodigio” dell’Intelligenza Artificiale che, tra le altre cose, promette a chiunque di realizzare interi libri in poche ore. Non servono competenze né una vita di faticose quanto appaganti letture formative. Basta avere un’idea rozza e grezza in testa (o magari neanche quella) e lasciare che un computer elabori il testo completo in meno di una giornata. Un testo mediocre, s’intende, ma sufficiente per vendere copie.

            L’uso dell’Intelligenza Artificiale alleverà generazioni di pigri imbecilli dal cervello imbolsito, incapaci di esprimersi, di elaborare idee, di mettere in fila frasi di senso compiuto. Nel rutilante mondo dell’editoria il pensiero umano sarà sostituito dagli algoritmi della macchina. Il talento individuale sarà appiattito e livellato (chiaramente verso il basso). Sarà la quintessenza di una compiuta democrazia egualitaria dell’intelletto. Chiunque potrà scrivere un libro: saremo tutti uguali, si aboliranno le differenze di cultura e di ingegno. Il merito? Un concetto anacronistico e superato. Anzi no: aggiornato e adeguato ai tempi. La scala meritocratica non premierà le menti più creative e profonde, ma quelle più scaltre e astute.

            Qualcuno potrebbe osservare che con l’Intelligenza Artificiale Dostoevskij avrebbe messo nel sacco Stellovskij in men che non si dica (e senza i romantici servigi della signorina Anna Grigor’evna Snitkina). Sbagliato, perché in quel caso lo scrittore non sarebbe neanche esistito, probabilmente Dostoevskij avrebbe fatto il contadino o, al massimo, l’agrimensore. Invece Stellovskij avrebbe fatto i quattrini con romanzi generati da un elaboratore digitale, sotto la timida supervisione di un qualsiasi modesto e grigio inserviente appena alfabetizzato.

            Si parla di progresso, ma è davvero questo il progresso cui aneliamo e verso cui ci precipitiamo? Non è che stiamo equivocando il significato del termine? Un progresso in cui vincono gli Stellovskij e perdono i Dostoevskij? E non è forse quel progresso «fanale oscuro» di cui parla Baudelaire, che proietta non la luce ma il buio sulla conoscenza?

            Affidandoci all’allettante tirannia delle macchine tuttofare, cosa penseremo del Prometeo di Goethe che celebrava il progresso umano con l’affermazione della dignità e autonomia dell’uomo stesso su ogni altra intelligenza? Forse, non ci resterà che la visione sconsolata e profetica dell’Angelus Novus di Walter Benjamin, l’angelo della storia, che un vento impetuoso impigliatosi nelle sue ali trascina suo malgrado verso il futuro, mentre osserva inerme le rovine del passato di un’umanità rimasta travolta dalla tempesta. «Questa tempesta è ciò che chiamiamo progresso». Lo diceva Benjamin quasi un secolo fa, non io.

GIORGIO LEONARDI

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