Una dura pioggia cadrà

di ANNA LUISA CONTU

Comincio ad avere paura per come sta evolvendo la guerra in Ucraina. Man mano che l’esercito russo subisce la controffensiva ucraina, si fanno più frequenti le minacce di uso della bomba atomica, sia da parte dei russi che degli americani come ritorsione.

Non era mai successo durante la guerra fredda e sulla crisi dei missili a Cuba nel 1962 era prevalso il buon senso o la consapevolezza delle conseguenze prodotte da un confronto diretto USA -URSS a colpi di bombe atomiche. Chissà, forse quei due leader, Kennedy e Krusciov, avevano il senso del loro ruolo e pensavano non solo alla protezione del proprio paese e del proprio popolo , ma , a me piace pensarlo,  dell’intera umanità  e del pianeta.

Oggi sono al potere uomini ( e qualche rara donna) spregiudicati e sprezzanti , dominati dalla volontà di potenza e dal revanchismo , cui è insufficiente il comando del proprio paese ma hanno bisogno dell’impero come misura della propria grandezza.

L’impero per il quale si uccide, si rapina, si stupra, si distruggono intere città e si riduce un paese in macerie.  L’impero per cui vale la pena fare un deserto là dove c’erano vita e relazioni.

L’abbaiare troppo della NATO, ( degli Stati Uniti e il resto dell’Occidente al seguito) nel cortile di casa russo ha destato allarme nel gruppo di potere in Russia che si è dato il compito  storico di   recuperare prestigio e territori dopo la sconfitta subita nella Guerra Fredda e lo smembramento dell’Unione Sovietica. Così l’invasione dell’Ucraina è cominciata con l’idea di un blitzkrieg perché  i russi facevano della realtà una lettura con gli occhi rivolti all’indietro. E avevano sopravvalutato se stessi e la propria forza.

Invece l’invasione ha cementato in Ucraina un’idea di nazione che  ha unito intorno ad un improbabile capo di stato ( un ex comico della televisione) quasi tutto il paese. E gli armamenti forniti in abbondanza per miliardi di dollari da parte della NATO ha permesso la controffensiva, sembrerebbe vincente, degli ucraini.

C’é stato e c’è ancora molto dibattito, in Italia, sull’opportunità di inviare armi all’Ucraina che non è un paese nostro alleato nè un membro della UE.

D’altra parte senza gli armamenti e l’appoggio dei sovietici, il Vietnam  non avrebbe vinto la guerra contro l’esercito americano. Tuttavia, nonostante i pesanti e continui bombardamenti sulle città nord vietnamite, l’uso del Napalm e tutte le nefandezze e le stragi ( chi ricorda oggi Mi  Lai?) degli americani  , il Nord Vietnam mai rifiutò le trattative, che durarono anni, con il nemico.

Zelensky non vuole trattare su nulla e spinge l’invasore su una china pericolosa. Inascoltato, Papa Francesco predica nel deserto , chiede a Putin di fermare la guerra e al presidente ucraino di essere aperto a serie proposte di pace.

La tragedia del nostro tempo è la mediocrità dei capi di Stato nel mondo che sembrano osservare con indifferenza quello che minaccia di consumarsi sulla terra, una guerra mondiale nucleare catastrofica. Il ricordo di Hiroshima e Nagasaki ormai è sbiadito .

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Io ho paura e non ho vergogna a confessarlo. Ho paura per me, per i miei cari, per gli intimi e gli estranei. Penso che non c’è un luogo sulla terra in cui potremmo tutti ripararci mentre Russia e USA si distruggono a vicenda e distruggono il mondo.

Forse il  mio paese in Barbagia,  e penso alle sue solitarie campagne, ai suoi millenari insediamenti, a quella casa che non abbiamo mai abbandonato perché  è la casa materna e paterna.

Non fuggire dalla guerra come profughi e andare raminghi in terra straniera, cercando un’impossibile salvezza, ma tornare  a casa, se faremo in tempo,  se il mare ce lo permetterà, trovare riparo tra quelle mura, riempire della nostra presenza le stanze silenziose  prima che radiazioni e isotopi mortali raggiungano il paese. In un  film di cui non ricordo il titolo, una donna della mie età si rifiutava di abbandonare la sua bella casa in un suburbio di una città americana, saliva in camera da letto e si sdraiava in attesa che la bomba  spazzasse via la città.

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Nella mia giovinezza  non era insolito ascoltare canzoni che avevano come tema la bomba atomica.  C’era questa dei Giganti, un gruppo rock di moda negli anni sessanta , con un testo in cui il ritornello ripete con varie modulazioni delle voci,  l’affermazione “ Noi non abbiamo paura della bomba atomica” . Non era niente di che , sia come testo che come musica , e aveva un nichilismo di fondo che era come dicesse “a noi non importa se il mondo si distrugge, noi non abbiamo niente da perdere”.

Diversa la ballata di Guccini del 1967 , “ Il vecchio e il bambino”  che ha echi quasi Shakespeariani, col vecchio e il bambino che camminano nell’immensa sterile pianura che è diventata la terra , come Lear che vaga  nella brughiera accompagnato dal finto “fool“ Edgard. La disperazione di entrambi, però, ha toni differenti. In Guccini è il rimpianto per quello che era un tempo la terra e la sua magnificenza di fiori e colori e il suo racconto al bambino è come una favola. Il vecchio piange, Lear urla e la sua rabbia è incontenibile;  quello che lo rende pazzo è l’ingratitudine delle figlie  e la perdita del suo ruolo. Entrambi vagano in una terra desolata illuminata da una luce non vera, la luce delle esplosioni e la luce dei lampi della tempesta  che scuote la testa e l’anima del vecchio re.

“A hard rain’s gonna fall”,   “una dura pioggia cadrà“  di Bob Dylan, scritta nel 1962 durante la crisi dei missili di Cuba, è  una canzone disperata, una ballata ripresa dalla tradizione anglo americana, un dialogo tra una madre e un figlio, semplice nella forma e nel tessuto musicale, ma molto complessa ed elaborata nel lessico, nell’uso dei simboli e ,in generale, dell’imagery.

La faccia del boia è nascosta, non vediamo chi spingerà il bottone che darà avvio all’esplosione che renderà morti gli oceani e gli uomini che si consumano ugualmente nell’amore e nell’odio. L’umanità ridotta a bisbigliare senza che nessuno ascolti, ridotta alla fame e dominata dalla violenza, dove fucili e spade affilate sono in mano ad adulti e  bambini. Il colore che domina è il nero e il rosso del sangue  e il numero simbolico è lo zero, cioè il nulla.

E in questa desolazione non c’è spazio per la bellezza della poesia o del gioco, ma il poeta non rinuncia a dare il suo ammonimento,  canterà la sua canzone così che tutte le anime la sentano e la canterà davanti all’oceano finché non sarà sommerso.

Patti Smith la cantò in occasione della premiazione del Nobel per la letteratura a Dylan e mentre la cantava piangeva.

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Avrei voluto analizzare anche la famosissima “The Bomb” ,  di Gregory Corso, una poesia in forma di bomba nella sua grafica. Ma questo totem eretto ad adorazione della bomba, riletta dopo tanti anni, non ha più fascino per me. Non racconta la mia paura.

Termino col finale di un’altra canzone di Dylan “Masters of War” “i padroni della guerra” contro i quali l’io che canta lancia la sua maledizione

“spero che moriate

e la vostra morte venga presto,

seguirò la vostra bara

in un pallido pomeriggio,

guarderò mentre vi calano

giù nella fossa

e rimarrò in piedi sulla tomba

per assicurarmi che siete morti”.

ANNA LUISA CONTU

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