Atque in perpetuum, frater…

di LUCIA SCAGGIANTE

   Sembra un piccolo dittico da viaggio, di quelli che si portavano sempre con sé per rivolgere una preghiera, ricevere protezione, dare evidenza sensibile a un legame d’amore, due tavolette distinte che incardinandosi in una cerniera si aprivano alla contemplazione come un libro per poi chiudersi di nuovo, discretamente. Un oggetto della lontananza. È la forma, la suggestione di Leonora addio, film su due pagine, il primo che Paolo Taviani firma da solo, dopo la morte del fratello Vittorio, avvenuta quattro anni fa. Dentro c’è Pirandello, il suo sguardo dissacratore e il suo gusto del paradosso grottesco, il senso del caso in cui siamo gettati, ma anche una riflessione sul tempo e sulla morte e una presenza-assenza delicatissima e ostinata, che aleggia dappertutto ed è resa esplicita nella dedica iniziale semplice e toccante, vergata dalla mano stessa di Paolo.

   Aleggia anche un’aria di mistero dal titolo, quello di una novella omonima che però non è rimasta a far parte del film, e parla di una felicità nell’arte così intensa che, perduta e ripensata, conduce alla morte: una scelta dettata da motivi ignoti, molto intimi forse, che comunque sia trasmette al vuoto di quella sottrazione il potere destabilizzante dell’enigma e la profondità del non detto.

   Dopo Kaos e Tu ridi, è la terza volta che un film a sigla Taviani si occupa di Pirandello, come a non voler interrompere un lavoro comune; questa volta però il grande autore siciliano entra in scena personalmente attraverso i materiali di repertorio che lo riprendono alla cerimonia di conferimento del premio Nobel, mentre la voce magnetica di Roberto Herlitzka pronuncia il suo commento: “Non mi sono mai sentito così solo”. La voce risuona contro la volta dipinta del Teatro dell’Opera di Roma, deserto.

   Solo è anche nella morte, dove la soggettiva sulla stanza metafisicamente spoglia e l’età dei figli, che come una vertigine svaria dall’infanzia alla maturità, ci immettono nella sua dimensione interiore.

   Tutto questo è la necessaria premessa al fulcro del primo episodio, che narra la lunga e grottesca odissea toccata alle sue ceneri, quasi una trama uscita dalla sua penna. È noto che in merito Pirandello aveva lasciato disposizioni molto chiare: desiderava che il suo corpo, nudo, fosse avvolto in un semplice lenzuolo, trasportato in un carro da povero senza candele né fiori e dato alle fiamme – le sue ceneri, disperse al vento, e se questo non era possibile, murate in qualche pietra della campagna agrigentina dov’era nato. Ma nemmeno a un uomo così carico di onori era concessa la libertà di decidere dei propri resti mortali: il regime fascista avrebbe voluto un funerale solenne per intestarsi la sua grandezza. Alla fine, con un compromesso, le ceneri vennero deposte in un modesto colombario del Verano, il nome provvisoriamente inciso nel cemento.

   Sequenze di classici amati (Paisà, Il sole sorge ancora, Un’estate violenta) raccontano la guerra e si confondono con la ricostruzione in uno straordinario bianco e nero del seguito della storia: di come, per iniziativa di studenti universitari fra i quali, non nominato, fu anche Andrea Camilleri, la piccola urna fu fatta arrivare in Sicilia e dopo ancora molti anni ebbe infine il suo riposo. Il viaggio ha toni beffardi, perché se un terrore superstizioso fa scendere dall’aereo americano messo a disposizione da De Gasperi tutti i passeggeri e perfino i piloti, venuti a conoscenza che c’è un morto in quella cassettina, sul treno quella stessa cassettina viene placidamente usata come tavolo da tre ignari giocatori, molto presi da una partita di tresette “col morto”. Intorno si strimpella il piano e si balla, si dorme e si fa l’amore: è il soldatino liberato dalla prigionia con la tenera sposa tedesca che si porta a casa – splendide facce da neorealismo e al finestrino paesaggi di bellezza assoluta come fotografie di Mimmo Iodice, tutta la meravigliosa confidenza con la vita dell’immediato dopoguerra.

   Grande agitazione, invece, nel vescovado di Agrigento, dove ancora una volta si consuma il contrasto tra la forma e la vita: come si può, argomenta il vescovo fra una corte di pretini dalle vesti svolazzanti, concedere un funerale cattolico a ceneri racchiuse dentro un’urna greca? Purché la forma sia salva, con un altro compromesso, è ovvio: che l’urna sia nascosta in una bara cristiana. Che poi per il momento e per puro caso sia disponibile solo una bara piccolissima, e che bambini al balcone facciano buffe ipotesi su chi sia mai il misterioso defunto, questo strappa un sorriso, com’è di rito in ogni più composto funerale. Ma fa anche riflettere sul mito della gloria. L’umorismo pirandelliano in corto circuito con l’innocente sguardo infantile della Notte di san Lorenzo manda scintille.

   Il primo episodio ha un finale molto poetico, che riceve senso ulteriore da quella che mi sembra di riconoscere come un’autocitazione. Viene l’ora di estrarre le ceneri dall’urna antica e versarle in un recipiente metallico da murare nella pietra. Durante l’operazione fra solenne e frettolosa, una piccola quantità rimane sulla carta di giornale stesa sotto il recipiente. E l’ultimo funzionario, guardandosi attorno come un ladro, con gesto geloso ne fa un cartoccio e se lo mette in tasca. Viene naturale pensare a un furto feticista, che potrebbe addirittura nascondere squallidi fini di lucro. Invece no. In faccia al mare, il funzionario disperde nel vento il poco di polvere che resta. Il mare si tinge di colori. Nel bianco e nero di tutto l’episodio, l’unico altro colore era il rosso della fiamma che attendeva il corpo, nella cella crematoria del disfacimento. Confondersi con l’universo. Assumerne la mutevolezza e la vita. Entrare nella sua danza.

   Il mare che si apre agli occhi del funzionario è inquadrato in una prospettiva identica a quella del mare su cui si sporgono i fanciulli nel finale di Kaos. Sospesi sull’infinito, i fanciulli si gettano per la china a salti impetuosi, vanno a perdersi beati e liberi fra le acque. Si leva un’aria di Mozart. Vola. Non ricordo di aver mai visto una rappresentazione di felicità panica più inebriante e rapita di questa; citarla in Leonora addio prende il valore di una speranza, quasi di un viatico e di un augurio al di là della morte.

   Il colore è anche elemento di congiunzione col secondo episodio tratto da Il chiodo, canto del cigno di un tormentato Pirandello. È la storia di un ragazzo strappato alla madre e alla sua Sicilia per l’America, laborioso e d’indole allegra, ma con un’ombra dentro, che compie un delitto insensato senza rendersene conto e senza volerlo. Un chiodo cade da un carretto: è come se fosse caduto “apposta”, e “apposta” due ragazzine ingaggiano per strada una lotta  furiosa in cui la più piccola, viva solo dei suoi capelli rossi sul pallore malato, sta per soccombere. Apposta perché intervenga lui, burattino del fato, e con quel chiodo non fermi già la prepotente, com’era convinto di avere intenzione, ma uccida la vittima, conficcandoglielo brutalmente nella testa. Nel suo smarrimento, ha un’unica certezza: la caduta del chiodo non è un caso, ma la causa del suo atto, di cui nell’interrogatorio non cerca tuttavia scusante alcuna, e che è in ogni modo consapevole di dover espiare, invaso da una disperata, inconfessabile pietà. Questa pietà diventa la sua ragione di appartenenza e di vita, il legame potente che, uscito dal carcere, stagione dopo stagione lo conduce alla piccola tomba dimenticata, dove si stende quieta la neve, le foglie spuntano e tornano a cadere, e l’erba rinverdisce ogni volta dal seno della terra, ma un gracile arbusto stende i suoi rami nudi per sempre.

   Lentamente, l’immagine dell’uomo accucciato a meditare si inscrive nella volta dipinta del Teatro dell’Opera come una costellazione in un cielo e ne viene assorbita con dolcezza, moderno mito di fedeltà.

LUCIA SCAGGIANTE