“SALUTI & BACI” di Silvio Serangeli – 10  – Sali & Tabacchi

di SILVIO SERANGELI

Qualche sera fa, in mancanza d’altro, ho recuperato dalla piattaforma Sky un film che avevo già visto un paio di volte e mi era piaciuto per la sua intensità narrativa. Smoke, del 1995, con protagonisti Harvey Keitel e William Hurt, parla di fumo e fumatori, del gusto del tabacco che si concentra nella piccola bottega di Brooklyn, molto fornita e frequentata, di Auggie Wren (Keitel) che stringe una profonda amicizia con lo scrittore Paul Benjamin (Hurt). C’è da dire che il film  è un racconto continuo, evocativo e  ricco di dialoghi, e che il suo spessore è notevolmente arricchito dai due doppiatori.

Smoke_(1995)

C’è da dire che ti viene una gran voglia di fumare, perché tutti hanno sempre un sigaro o una sigaretta da gustare. Tabacco, e nostalgia del tabacco, del fumo, dei fumatori, di quelle tabaccherie, piccole e grandi che erano un riferimento continuo, un ritrovo e hanno segnato una piccola parte della vita collettiva anche a Cv. Tante, nelle tante stagioni, tabaccherie e tabaccai. Così, quasi per gioco e per la mia innata curiosità sono andato a scandagliare nell’album dei ricordi e mi è venuto da stilare una lista di quello che c’era e, per la maggior parte, non c’è più. Premetto che fino ai venticinque anni non ho mai fumato, che con mia sorella eravamo gli unici nella vasta famiglia a subire la nuvola delle sigarette di padri, madri e zie suocere comprese, perfino in macchina. E quindi questa lista parte dai servizietti che, da ragazzino, mi venivano affidati dai grandi: «Per piacere che mi  vai a prendere quattro sfilatini da Spinelli, ti fai riempire il fiasco con un litro di rosso asciutto al Grottino, mi vai a comprare  una cartata di sale grosso e, visto che ci sei, cinque Nazionali Esportazioni». E via nell’andirivieni su e giù per le interminabili scale, senza ascensore e con i soldi contati in mano. Le sigarette, sfuse, sempre cinque, venivano infilate in una bustina sottile con la pubblicità delle carte da gioco Modiano. « Che c’hai ‘na sigaretta?»  si sentiva spesso. E spesso la sigaretta veniva confezionata a mano con le cartine e il trinciato per risparmiare, ma anche con i mozziconi. Abitavamo in via Doria 24 e la prima tabaccheria dei miei servizietti stava all’angolo di piazza del Mercato, dove ora c’è un’erboristeria. Ricordo la grande stadera di rame per pesare il sale che riempiva gran parte dello spazio. Poi anche a casa nostra arrivarono i pacchetti: quello verde con il veliero nero delle Esportazione che fumava mio padre, i miei zii autotrenisti all’Italcementi fumavano le Alfa dal pacchetto bianco con l’Alfa in rosso, mio zio Amerigo preferiva le Nazionali con la N minuscola. Tutti senza filtro. Mio nonno Silvietto si difendeva con la sua pipetta dal fornello di terracotta e il bocchino di canna di bambù che bruciava mozziconi di Toscano e cicche sminuzzate, proprio come le vecchie polesane ancora negli Anni Settanta. Di queste ne conservo alcune con le faccine. L’accensione con il minuscolo cerino mi è sempre rimasta in mente per la rapidità con cui la fiamma raggiungeva la sigaretta fra la cavità della mano e la scatoletta per evitare che si spegnesse. Ho un  vago ricordo del tabaccaio del Mercato, ma Lelletto, Lelletto Zacchei non si poteva certo dimenticarlo. Il suo “buco” in Terza Strada lo vedeva dietro al minuscolo bancone con lo sguardo arguto e la battuta pronta, velocissimo nell’artigliare  i pacchetti di sigarette che incombevano alle sue spalle e contare i soldi. Era un’istituzione come le sue due sorelle che gestivano l’osteria che conoscevo bene perché era di casa il marito della più giovane, il mio maestro di musica Pino Cannizzaro che mi portò nel gruppo della Pastorella Tradizionale. Era un ribollire di suoni, di attività, di vita la Terza Strada di quando andavo alle elementari di via Sedici Settembre e abitavamo in Piazza d’Arme, al Palazzo Ferrari. Avevo il compito di comprare le sigarette e i prosperi  per mia zia Maria che abitava al piano di sotto. Nel tragitto trovavo l’osteria di Bartoloni, i bassi dei pozzolani che a volte lasciavano la loro barca davanti alla porta. Di fronte c’era il panificio di Papi, avanti avanti c’erano i Zacchei. I panni stesi, le donne vocianti, le coffe e le reti da rammendare, le rincorse e le sassaiole di noi ragazzini. Per qualche accidentale scucuzzata con uscita di sangue c’era la comodità del pronto soccorso dell’Ospedale Vecchio a due passi. L’11 novembre veniva teso un grosso cavo fra i due palazzi della parte centrale dove venivano issate due grandi corna di vacca maremmana. Era la festa dei cornuti che suscitava lazzi e sfottò rivolte ai passanti da parte  di chi sedeva all’aperto delle osterie. Ora è un deserto, dominato dal silenzio assordante. Moderna, tutta vetri e fòrmica all’ultima moda era la tabaccheria dei fratelli Renzi in via  Sedici Settembre. Ogni sabato si ripeteva il rito della schedina che andavo a compilare e giocare per mio padre.  Ricordo ancora la colonna, sempre la stessa e mai vincente: 1X2X1122XX1X1. Subito dopo l’ingresso trovavi lo scrittoio di vetro inclinato con le schedine negli appositi contenitori, i calamai con l’inchiostro e le penne con il pennino. Inzuppavi e scrivevi, cercando di evitare di fare macchie, poi passavi il tampone assorbente e consegnavi la giocata a uno dei due fratelli che passava velocemente la marca su una spugnetta, la incollava e con uno rapido strappo con il righello ti dava “la figlia”. I fratelli erano l’occasione per fare scorta di sigarette nel grande bancone tutto vetri, in fondo. In quest’area, nel cuore della città c’era un altro tabaccaio, senza bottega ma altrettanto importante. Dal porto viaggiavano le ambite stecche di Malboro di contrabbando, sorelle delle bottiglie di Johnny Walker e di Chivas. Rimane un elenco, credo non privo di omissioni, di tabaccherie che conoscevo dall’esterno: quella dopo il forno di Sacconi per andare a Piazza Saffi, quella di Fanuele all’inizio della Scenta di Caterinaccia, agli onori della cronaca perché un camion, che aveva preso male la curva, entrò nel negozio. Ricordo Vergati a largo Plebiscito perché ci compravo i refil della biro, il bel negozio di Quattrini alla Madonnina, ancora il bar tabacchi Quaranta dove andavo a salutare il mio amico delle elementari Cappelli che vi faceva il cameriere. E poi Di Gennaro in viale Baccelli e, quando siamo andati ad abitare a Cisterna Faro, Cervellini, dove dietro al bancone ho ritrovato la mia professoressa di Italiano del Liceo.

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Qui si ferma il ricordo perché si chiude la stagione del fumo dell’intera famiglia, e inizia la mia,  tutta particolare. Il sigaro toscano ha una sua individualità, se puoi lo scegli, lo porti all’orecchio e ascolti il croccante scricchiolio, ne saggi la qualità, lo passi fra le labbra per inumidirlo, gli dai vita  solo con il fiammifero di legno rigirandolo in bocca, e quando è spento ti fa compagnia come il ciucciotto dell’infanzia. Ho iniziato, quasi per scherzo,  con l’insegnamento di mio suocero Ivano, che ne era un estimatore raffinato,  quando il sigaro lo sceglievi uno per  uno e il tabaccaio lo ammezzava con la “ghigliottina”. Poi sono arrivate le diverse confezioni, tante, con troppe intitolazioni, fino a venti. Per un lungo periodo ho avuto la fortuna di avere un carissimo amico che mi forniva i pacchi da dieci dell’inarrivabile Toscano destinato al Senato. Negli anni più recenti, sono tornato al punto di partenza, svoltato l’angolo del Mercato, ho trovato la tabaccheria del maestro del coro  Luca Pernice che conservava i sigari nella vetrinetta con l’umidificatore e ti dava utili consigli sulle ultime uscite.

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Una passione, ahimè, di cui mi è rimasto il prezioso tagliasigari con la scritta della tabaccheria di Orta che mi porta al ricordo di un  personaggio unico come Mario Soldati che ho avuto la fortuna di conoscere diversi anni fa, quando curai i reprints delle Riviste del Novecento per l’editore Forni di Bologna. Fra questi c’era la Libra redatta dal gruppo dei giovani novaresi: Soldati, Emanuelli, Bonfantini. E Soldati curò la prefazione e il lancio di quella che fu un’operazione della memoria del Cusio, di Orta, di Stresa, di Novara con iniziative e convegni, pranzi di gala, a cui partecipai e incontrai il monsù Mario con papillon bastone e cappello, sempre con il suo toscano e la sua prorompente allegria. Un motivo in più per amare il toscano e procurarmi il tagliasigari. Così fu un omaggio dovuto al maestro il mio e di altri giovani convenuti a Bologna per la  mostra e il convegno «La scrittura e lo sguardo», nell’ottobre del 2009 all’Archiginnasio, con reciproche goliardiche foto ricordo con l’immancabile toscano e un cruccio comune: il passante a cui affidammo la reflex per la foto di gruppo non aveva una buona mano, così l’immagine risultò mossa e inutilizzabile. Allora non usava il selfie.

SILVIO SERANGELI