Fatti & Fattacci della Civita-Vecchia dell’Ottocento – 12. Er moccico

di SILVIO SERANGELI

«Mastr’Andrè, che ve succede? Ve vedo tutto rintronato. Me devo da preoccupà?». «Niente, niente avvocà, ma me dovete fa un grosso piacere», rispose l’amico di lunga data. Era capitato che la moglie di Mastro Andrea, che poi era lei che comandava a casa, s’era messa in testa di far sposare la figlia minore con un nobile. Certo in famiglia se la passavano bene: possedevano metà palazzo dove abitavano, tre casali, tanta terra e il  bestiame sparso per le macchie neppure si contava. E poi c’era un bel gruzzolo, conservato al pizzo. Ma per la sora Valteria non bastavano: «E cche, sta fiarella, bella come er sole, se deve rinsecculì ne sto purciaro? Vòi mette le feste, le cene, li balli co’ li signori e, magari, poté bacià l’anello ar Papa!» «La caca fiori», come la chiamavano le vicine che la scansavano, perché era «na lavannara ch’aveva messo er ciccio e nemmeno te salutava. S’era spupazzato quer lumacone de Mastr’Andrea che c’aveva quindic’anni de più e s’era fatta sposà». Era lei che s’era messa di punta e aveva addirittura individuato lo sposo. Era il figlio di un barone, un bel giovanotto che s’era visto qualche volta a caccia nelle loro terre. Bongiorno e bonasera.IMG_3120 2

Ora bisognava accordarsi con il padre, con il barone per il contratto di nozze, e per mastro Andrea, che proprio non ne aveva voglia, l’unico che poteva dargli dei consigli era l’avvocato di famiglia. «Un contratto de nozze mica è na cosa facile, me ce vo’ tempo, armeno na sittimana pe’ studià le carte. Dite troppo? Mo’ statime a sentì: c’ho sti rompicojoni de la cammara de commercio, indove so segretario, che vonno la pappa fatta e nun commineno un c……. Nun è finita. Me fossi mai impicciato in quer c…. de teatro che ogni giorno venghino a lamentasse che rivonno li sordi der parco e c’hanno ripensato,  perché de lì nun ce se vede bene. Mettetece puro sta storia de quer cojone der Papa che vò spostà er porto de Roma a Anzio, che nun me fa chiude l’occhi. Come si nun bastasse, quella svampita der soprano della nostra Filarmonica, tanto bella e tanto brava da potè annà a cantà a Roma, s’è bevuto er cervello e s’è fatta ingravidà alla prima botta, da quer peracottaro,  quer giovine ecchime qua, che ve ricorderete diede na puncicata a la su rigazza».

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Alla fine, l’Avvocato fu di parola. Mastro Andrea e il Barone si ritrovarono seduti davanti alla sua scrivania per ascoltare i particolari del compromesso che, è bene ricordare, poi spettava al notaio redigere il contratto di matrimonio che veniva  sottoposto dal sacerdote agli sposi, che solo allora entravano in scena. E l’Avvocato lesse, scandendo parola per parola. C’erano soldi, e molti, e c’erano poi tante di quelle cose che la sposina portava in dote. Per dire: pelliccia e manicotto compagno di pelle di Moscovia, abito di nobiltà nuovo guarnito di veli, mantiglia di rasetto bianco fiorato con pelo, raspè di raso bianco, una dragona di stoffa bianca e turchina, scarpe di stoffa in argento, pianelle di velluto ricamate in oro, senza dimenticare i cappelli con retina e pennacchiera. L’Avvocato andava avanti nella lettura senza tralasciare niente. E così della dote facevano parte una rosetta di diamanti, un paio di diamanti a goccia, pendenti verdi, una rosetta di diamanti per “anello sposereccio”, ma anche tre paia di calzette di seta, sei tovaglie nuove, sei zinali, dodici sciugatori, dodici salviette fini e dodici ordinarie, perfino dodici fazzoletti da naso. Il Barone nicchiava: «Tutto qui? E il pranzo di nozze chi lo paga? E un poderetto agli sposi non glielo date?» Mastro Andrea, che aveva capito l’antifona,  s’era fatto tutto rosso, aveva perso la pazienza: «E voi, sor Barone, che je date?» E quello per tutta risposta: «Non vi basta il mio blasone? E che mi devo abbassare con la vostra plebaglia per due fazzoletti per pulircisi il naso». Così il padre della sposa si alzò in piedi: «Er moccico me ce lo pulisco io. Chiudemela qui che è mejo, prima che perdo la paciencia».

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Il Barone prese bastone e capello, sbattè la porta senza neppure salutare. «Mejo accussì – fece l’Avvocato -. Vostra fja ne trova cento de mejo. C’ho tante conoscenze a Roma e quello, credetime, è un pallone gonfiato, un buffarolo che se fa mantené dalla socera. State tranquillo. Ma adesso, se permettete, me s’è fatto tardi e c’ho lo stommico voto da ier sera». Prese la salita e si diresse all’osteria di Dirce. Lo aspettava un bel piatto di fagioli con le cotiche e poi le animelle di vitello, le fave al guanciale e qualche bicchiere di vino navale, quello forte, non lo sciacqua budella  annacquato che sapeva di spunto e che toccava, manco a dirlo, ai poverelli. Una lacrima di pecorino chiuse la serata e l’Avvocato salutò la compagnia: «Bona, bonanotte sorà Di’ e grazzie de tutto». E la padrona, facendo capoccella dalla cucina: «Bona, bell’omo, e arricordative che domani pe voi c’ho li rigatoni co la pajata». L’Avvocato  le sorrise e la guardò con dolcezza negli occhi neri neri, perché c’è da sapere che i due se la spassavano sotto le coperte del letto che stava nella camera del piano di sopra. Uscì nel buio del vicolo, tirò su il bavero del mantello, perché tirava un’aria frizzantina di tramonta. Accese il toscano, e si avviò, lemme lemme, verso casa.

SILVIO SERANGELI

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Pensierino…

Si chiude qui questo almanacco di dodici Fatti&Fattacci. Dodici come i mesi dell’anno. Verosimili e un po’ veri, sognanti e crudeli: un esercizio di stile piacevole che mi ha riportato ai tanti nomi della mia infanzia, ai ricordi di quando in famiglia ancora si parlava e ascoltava. Soddisfatto e in pace come l’Avvocato, magari senza le cotiche, ma con un buon caffè, la stessa arietta fresca di tramontana che mi entra dalla finestra, e qualche boccata inebriante di toscano che mi concedo in questa occasione. Con queste due foto voglio ricordare mio nonno Nicola che mi coglieva i fichi dolcissimi del suo orto e mi raccontava le storie del lavoro nei campi mentre innaffiava a corrente, e voglio ricordare le mie due nonne, Maria e Cassandra, che mi hanno fatto conoscere la terra e gli animali come il pulcino che ho in mano. Mi  prendevano sulle ginocchia su una panca in mezzo alle coltivazioni e, mentre masticavo una fetta di pane della Tolfa con un filo d’olio e un pizzico di sale, mi raccontavano le gesta di Giuccamatto e la loro gioventù: nomi, persone, appunto, fatti e fattacci dei racconti popolari.

ULTIME DUE

**Le foto d’epoca sono tratte da un Album di proprietà dell’A..