Il diritto alla vita e le sue declinazioni. (Parte seconda)

di ENRICO IENGO ♦

Occorre porsi la domanda se esiste un diritto alla vita e in cosa si caratterizza.

L’art. 2 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali protegge il diritto alla vita.

Secondo la filosofa J. Hersch il diritto alla vita è primordiale e non può essere definito in senso stretto un “diritto umano”: salvaguarda la vita biologica e non la libertà responsabile. Ma nel medesimo tempo il diritto alla vita è qualcosa in più della pulsione alla sopravvivenza, caratteristica di tutti gli esseri viventi. Il diritto alla vita esige un ordine sociale e la presenza di un potere incaricato di proteggere la vita di fronte alle minacce della natura e degli altri uomini. Al difuori di un ordine civile si può parlare di pulsione di vita, più che di un diritto in senso stretto. Pertanto il diritto alla vita si inscrive nell’ordine del sociale. Ma il consenso generalizzato in quanto a includere la vita entro i diritti fondamentali, nasconde divergenze per ciò che riguarda i contenuti di tale enunciato. Ci si limita a dire che ciascun essere umano ha diritto alla vita senza precisare significato, portata e condizioni di tale diritto, soprattutto riguardo a valori quali la dignità personale e la libertà di autodeterminarsi.

Una delle obiezioni più ricorrenti contro la eutanasia e il suicidio assistito, come corollari di una morte degna, consiste nell’appellarsi al carattere sacro e inviolabile del diritto alla vita. Lo Stato sarebbe nell’obbligo di garantire questo diritto, anche contro la volontà individuale. Il proteggere e tutelare  un diritto anche contro la volontà esplicita del titolare del medesimo rivela una attitudine paternalistica, sostanzialmente in contraddizione con gli assiomi relativi alla dignità e all’autonomia, sopra i quali si costruisce la teoria moderna dei diritti e dello Stato. Quindi affermare che gli obblighi dello Stato e di terzi in relazione alla inviolabilità della vita sono assoluti e non ammettono eccezioni, all’unica condizione che ci sia una volontà di continuare la vita da parte dell’individuo, significa sancire un principio, anche questo inviolabile di uno Stato laico e liberale.

Di conseguenza la tutela inserita nel predetto articolo 2 della Convenzione Europea va intesa come tutela del diritto alla vita, ma non della vita stessa e quindi ha lo scopo di proteggere dai mali causati ingiustamente da altre persone, ma non di interferire sulle decisioni che riguardano la nostra vita.

Il diritto alla vita è dunque universale, inviolabile, nel senso di possedere un valore intrinseco rispetto agli altri diritti, o di fronte allo Stato, per lo meno fino a quando non si trasforma in una minaccia per il diritto alla vita degli altri. Ma ha senso una inalienabilità del diritto alla vita svincolato dal diritto alla dignità dell’uomo e alla sua libertà di autodeterminarsi?

Sostenere il diritto alla vita a partire dai valori superiori della dignità umana e della libertà apre il cammino alla possibilità che un individuo possa scegliere, in determinati casi, di rinunciare non al suo diritto alla vita, ma alla vita stessa.

Giovanni Fornero nel suo già citato saggio pone come centrale nel dibattito sulla eutanasia il concetto di disponibilità o indisponibilità della vita. “Indisponibilità della vita e disponibilità della vita sono formule centrali che sintetizzano due maniere complessive- e strutturalmente differenti- di accostarsi ai problemi della bioetica e del diritto…per indisponibilità della vita si intende la dottrina per cui non si ha la legittima facoltà di poter decidere intorno all’essere o non essere della vita umana…per disponibilità della vita non si intende il come viverla, ma se vivere o meno e quindi la facoltà di diritto, oltre che di fatto, di congedarsi dalla vita e quindi scegliere la morte”.

Il dibattito fra favorevoli e contrari all’eutanasia si presenta come una disputa fra coloro che difendono la sacralità della vita e coloro che esaltano l’importanza della qualità della vita e della libertà di disporne.

Per i disponibilisti, sempre secondo Fornero, occorre distinguere la vita biologica dalla vita biografica: la vita biologica è pura corporeità, è la vita concepita come un insieme di organi e di funzioni vitali, la vita biografica è invece fatta di sentimenti, aspirazioni, progetti, rapporti sociali e lavorativi. Si può parlare di qualità della vita solo in rapporto alla vita biografica e quindi solo l’interessato può parlare della sua vita come degna di essere vissuta, non certo il suo battito cardiaco o la sua frequenza respiratoria.

Dunque indisponibilità e disponibilità della vita sono inconciliabili fra loro e tutti noi siamo costretti a prendere una posizione dall’una o dall’altra parte: tertium non datur!

L’argomento centrale per gli indisponibilisti di matrice cattolica, ma anche protestante, è senz’altro la sacralità della vita che viene da Dio e in quanto tale è sacra e quindi non appartiene all’uomo. L’argomento è ampiamente trattato nell’”Evangelium vitae” di papa Giovanni Paolo II, ma anche Giovanni XXIII, Paolo VI, Benedetto XVI e papa Bergoglio hanno ribadito più volte il concetto di sacralità e inviolabilità della vita. La vita non si ha e nessuno può disporne a nessun titolo e in qualsiasi situazione.

Come giustamente osserva Fornero, nell’ambito della dottrina cattolica questa indisponibilità che è considerata precetto morale assoluto, norma cogente, ha delle eccezioni: ci sono situazioni ove la vita diventa sostanzialmente disponibile per colui che la vive. Parliamo dei grandi martiri che hanno sacrificato consapevolmente la propria vita, di colui che uccide per legittima difesa, o muore o dà la morte in guerra, o si sacrifica per salvare vite umane. In questi casi il concetto di indisponibilità della vita viene solo apparentemente a mancare, senza per questo, secondo la Chiesa, offendere il principio di sacralità della vita: infatti il fine non è il perseguimento della morte, propria o altrui, non è il suicidio, ma l’impegno teso fino all’estremo ad ottenere il bene, cosa che rende il sacrificio degno di rispetto, se non addirittura di santità. Per quanto riguarda la legittima difesa, essa paradossalmente non va contro la vita, ma semmai a suo favore.

Sostenere la sacralità della vita e quindi la sua indisponibilità secondo la dottrina cattolica non significa che la vita vada conservata ad ogni costo e con qualsiasi mezzo, anzi viene condannato l’accanimento terapeutico finalizzato ad usare cure sproporzionate per mantenere in vita o meglio allungare la vita del paziente quando ciò non comporta una reale speranza di miglioramento, se non di guarigione. E’ l’eccesso di cure che occorre evitare quando manifestamente inutili: in questo caso non si fa una scelta di far morire, ma viene concesso di non procrastinare l’esito inevitabile.

Abbiamo quindi sottolineato l’atteggiamento prevalente delle Chiese, sia Cattolica, ma anche Protestante, convinte assertrici della indisponibilità della vita, considerata sacra, in quanto espressione della divinità e suo dono. Ma nella società non c’è solo una versione “confessionale” a sostegno della indisponibilità della vita, anche nel mondo laico c’è un movimento di intellettuali, filosofi, politici e medici che rivendica tale principio.

Per esempio i medici, attraverso le loro organizzazioni ufficiali, nazionali e internazionali hanno sempre rifiutato la possibilità di aiutare il paziente a por fine alla sua vita, anche con il consenso esplicito di questo. Fanno appello al giuramento di Ippocrate (IV secolo a.c.): “Non darò a nessuno alcun farmaco mortale, neppure se richiestone, né mai proporrò un tal consiglio”.

A distanza di 2400 anni la medicina è cambiata e soprattutto è cambiato il rapporto medico-paziente. Alla base di questa relazione possiamo adottare diversi modelli: c’è un modello utilitaristico, secondo cui una norma, una terapia, un accertamento diagnostico sono buoni quando producono il maggior bene possibile. C’è un modello paternalistico basato sulla alleanza terapeutica, che consente il perseguimento non solo di un bene fisico, ma anche psicologico, sociale e spirituale, valorizzando l’autonomia del paziente e il senso di fiducia reciproco. Proprio alla luce di questo rapporto di fiducia occorre porsi la domanda se rifiutare un volere, espresso con piena lucidità e razionalmente motivato da una condizione oggettivamente intollerabile, sia una scelta deontologicamente giusta e soprattutto se sia una scelta che va nella direzione del bene per il paziente gravemente sofferente e infine se rafforzi la fiducia e l’alleanza con il medico.

E’ quanto meno opinabile il timore che una legge che in qualche modo depenalizzi l’eutanasia attiva o il suicidio assistito vada a inficiare il rapporto di fiducia con il paziente, insinuando in lui il sospetto che il medico non stia facendo tutto il possibile per migliorare la sua situazione, al fine magari di liberare un posto letto o perché influenzato dai familiari, quando centrale rimane il suo consenso, dato in pieno possesso delle sue facoltà mentali e in assoluta autonomia. Credo che il rifiuto del medico di porre attenzione alla richiesta del suo paziente possa indebolire anziché   rafforzare questo rapporto di fiducia. Il timore di un uso spregiudicato di tale depenalizzazione, come per liberarsi di pazienti scomodi, o addirittura per favorire il trapianto di organi, o per inseguire deliri eugenetici, viene meno a fronte del necessario, lucido consenso del paziente che legittima (lui solo!) la sua libera scelta. Deve essere comunque rispettata, a mio avviso, la obiezione di coscienza del medico

che ritiene eticamente e deontologicamente sbagliato qualsiasi atto che mira alla morte del paziente

E’ altrettanto chiaro che una legge in materia non può non prevedere una attenta applicazione delle norme perseguendo i casi in cui tale consenso venga estorto con inganno o pressioni.

ENRICO IENGO                                                       

                                                                                                        (venerdì 5 novembre verrà pubblicata la terza e ultima parte)