VITE “SBAGLIATE”

di GIORGIO LEONARDI

                                                        «Sognai che guardavo un palazzo con migliaia di piani

                                                          e migliaia di finestre e migliaia di porte

                                                          ma nessuna era la nostra, tesoro mio,

                                                          nessuna era la nostra».

 

                                                                                                (Janet Frame, “Gridano i gufi”)

I Kennedy hanno attraversato la storia contemporanea da protagonisti della scena politica, sociale e mondana. Belli, ricchi e famosi. Ma c’è un quarto aggettivo che viene incollato spesso addosso ai membri di questo clan. Un aggettivo che fa paura e inquieta, e che hanno decisamente meritato: sfortunati. È nota l’aura di sventura che grava sulla famiglia, e che fece dire a Robert Kennedy: «Lassù qualcuno non ci ama».

Si parla spesso della dissipatezza dei suoi rampolli, dell’abbaglio della popolarità e delle sue fatali conseguenze. I miraggi del potere, la fame di successo e le indigestioni che produce, i capricci del caso. Incidenti aerei, morti tragiche o misteriose, attentati, droghe, suicidi. Una lunga lista di avversità, di cui viene però spesso taciuto l’inizio, non si sa se per semplice trascuratezza o per un residuo di pudore. Il primo terribile incrocio tra la famiglia Kennedy e il suo funesto destino va fatto risalire al novembre del 1941. Ma prima è necessario un passo indietro.

Joseph Kennedy e Rose Fitzgerald sono a buon titolo considerati i veri capostipiti di una famiglia di origini irlandesi saldamente inserita nella “upper class” statunitense. Dalla loro unione vennero ben nove figli, alcuni dei quali diventarono decisamente illustri. Il secondo della lista era JFK, uno dei pochissimi uomini che puoi permetterti il lusso di chiamare con una semplice sigla. Un anno dopo la sua nascita, nel 1918, vide la luce una sorellina, la terzogenita nonché prima figlia femmina. La chiamarono Rosemary, ed è di lei che si parlerà di qui in avanti.

Il fatto è che Rosemary venne al mondo con due ore di ritardo. Ma non furono due ore come tante. In quel 13 settembre il dottore che doveva seguire il parto di mamma Rose fu trattenuto da altri impegni, e la zelante infermiera nell’attesa decise (pare su indicazione dello stesso medico) di bloccare la nascita spontanea della bambina. Per due ore chiese alla partoriente di serrare le gambe, trattenendo forzatamente la testa del feto all’interno del canale uterino. Quando finalmente giunse il dottor Good (sì, il cognome suona decisamente beffardo) Rosemary poté uscire dal ventre materno, ma la carenza di ossigeno patita in quelle ore fatali aveva danneggiato irrimediabilmente il suo cervello. La bimba, negli anni seguenti, accusò un ritardo intellettivo sensibile sebbene non grave. Dapprima fu inviata dai genitori in vari istituti per ragazzi con disabilità mentali, ma nel corso del tempo i suoi progressi non parvero rilevanti. Non era matta, Rosemary, era solo un po’ sciocchina, e andava soggetta a repentini sbalzi umorali. Il suo quoziente intellettivo era un po’ al di sotto della normalità, ma era generalmente affettuosa, gioiosa e socievole. Forse troppo. Infatti con lo sviluppo della sua sessualità, nella sua piena innocenza, diede mostra di atteggiamenti alquanto disinvolti e disinibiti, che rischiavano di mettere in serio imbarazzo la rispettabilità di una famiglia già molto in vista sulla scena pubblica americana. La ragazza venne tenuta il più possibile alla larga dalle occasioni sociali e controllata a vista. Non era opportuno che si parlasse di lei, nessuno doveva notare quella sua scomoda “diversità” che avrebbe potuto minare l’immagine patinata dei magnifici Kennedy e, di riflesso, condizionare le carriere politiche dei rampanti virgulti maschili della famiglia. Le iniezioni di farmaci sperimentali cui veniva regolarmente sottoposta non sortirono effetti di rilievo.

Rosemary raggiunse così un’età che faceva di lei una giovane donna, esuberante e femminile ma anche decisamente infantile. Scappava di casa, la notte, e veniva sorpresa in locali in compagnia di uomini. Lo scandalo era dietro l’angolo. I genitori, Joseph e Rose, nel tentativo di placarne i vivaci istinti, decisero di sottoporla, in gran segreto, a un intervento radicale. La lobotomia era allora una pratica discussa ma generosamente adottata in svariati casi clinici (più di quanti oggi potremmo immaginarne). Con un piccolo trapano si effettuavano due fori nel cranio del paziente psicotico attraverso i quali recidere alcuni nervi dei lobi frontali, provocando una lesione volontaria al cervello e riducendo così personalità alquanto intemperanti a soggetti mansueti e, quando non andava proprio bene, a dei simulacri in stato vegetativo. Spesso quest’operazione veniva semplificata evitando la trapanazione e facendo passare dei punteruoli direttamente dalle orbite oculari. A Rosemary però fecero due buchi in testa. Lei era una Kennedy. E questo accadde nel fatidico novembre del 1941, quando aveva solo 23 anni. Venne portata all’ospedale della George Washington University, senza che avesse cognizione di cosa stava per accaderle. L’operazione avvenne in totale assenza di anestesia. Le cronache scientifiche riportano che, una volta preparata per l’intervento, le venne chiesto di canticchiare alcune canzoni di sua conoscenza, mentre il trapano forava la scatola cranica e il punteruolo recideva le terminazioni nervose frontali. Rosemary, che fino a quel momento aveva cinguettato allegramente davanti ai medici, iniziò dapprima a farfugliare poche cose senza senso, poi calò in lei il totale silenzio come un pesante sipario di velluto nero, la sua bocca si bloccò, e tacque per sempre. Come se avessero premuto un interruttore con la scritta “OFF”. Così, con una semplice resezione delle connessioni cerebrali, consegnarono una giovane donna, che aveva ancora una vita davanti a sé, ai grigi territori del nulla.

Rosemary, ormai inerte di mente e di corpo, venne quindi parcheggiata in un istituto del Wisconsin. Il padre, che non si recò mai a trovarla, disse in giro che sua figlia era all’estero per motivi di studio. La madre in circa un ventennio la vide solo due volte. Per tutto questo tempo la tragedia familiare venne inoltre accuratamente occultata dalla famiglia Kennedy. Fu infine Eunice, la sorella minore di Rosemary, in tarda età, a decidere di prendersi cura di lei, prelevandola dall’istituto per farle trascorrere i suoi ultimi anni nel conforto di un affetto che la donna poteva però percepire solo in parte, facendo conoscere la sua storia e sottraendola soprattutto a quella sorta di rimozione familiare di cui era stata vittima incolpevole.

Ma la storia si diverte spesso a ordire delle beffarde coincidenze cronologiche. Così, quando nel 1949 la povera Rosemary in carrozzina faceva il suo ingresso in quell’ospizio del Wisconsin, il premio Nobel per la Medicina veniva assegnato allo psichiatra portoghese António Egas Moniz, inventore dell’aberrante pratica della lobotomia sugli esseri umani. Certo, il mondo era uscito da poco da un conflitto che aveva generato orrori agghiaccianti: i lager nazisti, i gulag sovietici, Hiroshima. E forse fu proprio la tragica assuefazione della coscienza collettiva al crimine umano che fece apparire adeguata quell’assegnazione che a noi, uomini e donne del terzo millennio, suscita un empito di sconcerto. Quando ricevette il premio, però, anche Moniz era su una sedia a rotelle perché dieci anni prima un suo paziente schizofrenico fuori controllo gli aveva scaricato addosso quattro proiettili di un revolver, uno dei quali si era conficcato disgraziatamente nella sua spina dorsale rendendolo paraplegico. E questa sì che fu quella che si dice una storia di ordinaria follia.

Consacrata dall’accademia medico-scientifica, per anni la lobotomia imperversò tra i regolari trattamenti psichiatrici, affiancata da pratiche come l’elettroshock, le convulsioni indotte farmacologicamente e altre amenità del genere che afflissero malati veri e presunti.

Presunti come, ad esempio, la scrittrice neozelandese Janet Frame, la cui vicenda umana (a me cara) sfiora quella appena raccontata. Lei, che visse il suo travaglio psichiatrico all’incirca nello stesso arco cronologico di Rosemary, e finì internata per un’errata diagnosi di schizofrenia. «Mi rinchiusero in ospedale perché si era aperto un grande squarcio nel banco di ghiaccio fra me e gli altri che guardavo allontanarsi alla deriva, insieme al loro mondo, su un mare color malva dove pesci martello dal languore tropicale nuotavano fianco a fianco con le foche e gli orsi polari», così scrisse col suo personalissimo stile visionario e immaginifico nell’autobiografia “Dentro il muro”.

Neanche Janet era pazza, ma era solo una donna molto sensibile con un casco di folti e rossi capelli ricci. Eppure, nel corso della sua lunga detenzione, subì oltre duecento procedimenti di elettroshock e i medici furono sul punto di destinarla alla lobotomizzazione. La sorte volle però che i suoi magnifici scritti varcassero nel frattempo le porte dell’inferno in cui era rinchiusa e la segnalassero all’attenzione internazionale. Il suo grande talento letterario la salvò appena in tempo dalla macelleria umana che, a migliaia di chilometri di distanza, si era già esercitata sulla povera Rosemary Kennedy.

Janet morì nel 2004, da donna provata ma libera, con gli onori tributati dalla comunità letteraria mondiale come parziale risarcimento del male che aveva subito. L’anno successivo toccò invece a Rosemary concludere la sua esistenza, a 85 anni, ma il mondo non ci fece caso. Le cronache anagrafiche ne attestano il decesso nel 2005. In realtà morì in quel giorno di novembre del 1941. Da quel momento il resto della sua vita non fu più vita, ma un enorme buco nero. Era stata silenziata e segregata in una struttura, come quando si uccide qualcuno e lo si rinchiude in una bara per seppellirne il corpo. Rosemary andava nascosta perché era scomoda, perché nella sua condizione di morta in potenza turbava il trionfante carosello della vita, scandito dalle fanfare dell’ambizione e del potere. Solo che per decenni non lo hanno voluto ammettere. Il crudele sacrificio a cui era stata sottoposta non risultò comunque del tutto vano, perché in seguito avrebbe dato l’avvio a una serie di iniziative e riforme, promosse da Eunice e dai suoi fratelli, nella società americana a favore delle disabilità mentali.

Rosemary Kennedy fu per quasi tutta la sua esistenza una donna invisibile, una di quelle persone che il destino, in un modo o nell’altro, ha fatto nascere “sbagliate”, senza che ne avessero colpa. Come Rose (singolare l’assonanza onomastica), l’amata sorella di Tennessee Williams, anch’essa fatta lobotomizzare dai genitori quando aveva 34 anni.

«Così nel mondo / sua ventura ha ciascun dal dì che nasce», scrisse Petrarca. E aveva ragione. Il destino forse ci predispone dal nostro primo vagito, però poi è sempre questo imprevedibile e spietato consesso umano a prenderci in consegna.

GIORGIO LEONARDI