LA PENSIONE DEL TRIBUNO

di ENRICO CIANCARINI

L’8 ottobre 1796 il segretario di Stato di Pio VI, il cardinale Ignazio Busca, pubblica una notificazione in cui per le “preparazioni necessarie alla difesa di Roma e dello stato, quando a lor danno si volesse tentare un’ostile invasione” chiede alla popolazione dello stato ecclesiastico “contribuzioni spontanee ed affatto gratuite, che aiutassero il pubblico erario a sostenere il gran dispendio, che occorreva così per le soldatesche, come per la milizia civica” (Pietro Baldissari, 1840).

Napoleone Bonaparte, condottiero delle truppe rivoluzionarie francesi, da marzo scorrazza per la penisola italiana ponendo in somma agitazione i sovrani dei vecchi regimi che si spartiscono l’Italia preunitaria. Anche lo Stato della Chiesa è investito da questa ondata rivoluzionaria che vuole imporre con le armi l’albero della libertà agli italiani decorandolo con gravose imposizioni “volontarie” e scrupolose spoliazioni ai danni dell’immenso patrimonio artistico della Penisola.

All’appello di Pio VI rispondono migliaia di sudditi, i nobili promettono di allestire intere compagnie di cavalleria o fanteria perfettamente armati, addirittura il principe Colonna offre un reggimento di fanti vestiti, armati e divisi in quattordici compagnie. I ricchi borghesi rispondono all’appello con generose promesse in denaro, derrate ed animali. Il tutto è registrato dal computista Giovanni Sala che redige lunghi elenchi che vengono pubblicati e diffusi in tutto lo Stato. Apprendiamo così che i fratelli Giovanni e Camillo Manzi, assentisti della flotta pontificia a Civitavecchia, offrono 1200 scudi annui. Al loro fianco decine di borghesi civitavecchiesi che s’impegnano nei donativi destinati ad armare l’esercito del papa. Ricordiamo i fratelli Nicolao e Gio. Battista Lenzi che si tassano per 300 scudi; il segretario della Comunità di Civitavecchia Giuseppe Capalti rinuncia ad un terzo del suo onorario; l’architetto Ubaldo Minozzi, proprietario del primo teatro della città, dona 16 once e 8 denari d’argento. I Palomba, Nicola e Giovanni, offrono 120 scudi annui, come fa Domenico Valentini, mentre Cristofaro Biferale venti in meno.  Vincenzo Campanile, appaltatore della Zecca, promette due cavalli e 30 scudi per le bardature più 180 scudi annui. Clemente Pucitta 180 scudi in rate trimestrali. Filippo Graziosi in due rate si obbliga a versare 150 scudi. Antonio Guglielmotti ne dona duecento.

Trascorrono solo due anni e i ricchi commercianti civitavecchiesi sudditi devoti del papa re, avvinghiano gli immortali ideali di Liberté, Egalité e Fraternité, ferventi ed entusiasti giacobini, convinti sostenitori della Repubblica Romana e della possibilità offertagli dal nuovo regime di arricchirsi con i beni nazionali e con quelli degli ordini religiosi disciolti.

Carlo De Paolis nel bellissimo volume “Le 82 giornate di Civitavecchia” scrive che “un altro nome prestigioso del giacobinismo civitavecchiese è Bartolomeo Corsiglia, componente del Tribunato, descritto dai contemporanei come uomo zelante della patria, e devoto, e desideroso di vederla prosperare con le proprie forze, animando soprattutto il commercio”.

Il suo nome compare negli elenchi del 1796 fra i donatori che offrono cifre più modeste: “Il Sig. Bartolomeo Tenente Corsiglia di Civitavecchia offre annui sc. 6, durante & c., dal corrente Decembre”.

Della sua vita prima della “rivoluzione” giacobina conosciamo poco. Nel nono volume della “Storia della Marina pontificia”, padre Alberto Guglielmotti lo indica con il grado di alfiere (terzo per gerarchia) nel ruolo degli ufficiali di Stato Maggiore nel 1780 sulla “Guardacosta San Giovanni” e nel 1793 sulla “Barca San Pio”. Lo storico domenicano aggiunge che Bartolomeo Corsiglia è nativo di Genova.

Cinque anni dopo, “nel fausto giorno de’ 30 Ventoso Anno VI dell’Era Repubblicana” (30 marzo 1798), Corsiglia compare fra i 72 cittadini nominati dagli occupanti francesi nel Tribunato della Repubblica Romana per il Dipartimento del Cimino, affiancato dall’altro civitavecchiese Pietro Buccella.

Nei lavori d’aula si distingue per il suo liberismo tanto che alcune proposte di trasformare in legge i provvedimenti provvisori di limitazione alla libertà di commercio, grazie al suo impegno, finiscono per insabbiarsi, durante la discussione per la legge sulla pesca riesce a convincere i suoi colleghi della necessità di incentivare le attività imprenditoriali.

La classe politica della Repubblica Romana del 1798 è oggetto di studio nel 1916 dello storico Tommaso Casini che in quell’anno pubblica sulla “Rassegna Storica del Risorgimento” un elenco dettagliato e commentato dei membri del Tribunato e del Senato repubblicano (in questo sono presenti i civitavecchiesi Ilario Alibrandi e Clemente Pucitta, ultimo presidente dell’organo sino alla fine della Repubblica).

Casini in quelle pagine illustra l’attività parlamentare di Bartolomeo Corsiglia:

“Prese parte attiva ai lavori parlamentari e nella seduta del 2 maggio presentò un progetto per animare l’industria e il commercio mediante la concessione di esenzioni specialmente ai costruttori di legni mercantili. Era egli stesso armatore, e perché potesse provvedere all’armamento di una tonnara ebbe l’11 maggio un congedo che gli fu più volte prorogato. Pare che seguisse il governo a Perugia durante l’occupazione napoletana, ma di là fu mandato in missione al campo francese sotto Civitavecchia insorta”.

Qui trova la morte per la patria.

Casini nel breve profilo biografico di Corsiglia menziona il tribuno Antonio Candelori di Montalto di Castro che nella seduta del 21 febbraio 1799 s’incarica di commemorarlo dopo la morte: “Questo martire della libertà ha prestato i più grandi servigi alla Repubblica nella provvista dei frumenti. Nel proprio dipartimento del Cimino ha sofferto le persecuzioni dell’ultima nostra Vandea, ed ivi finalmente ha subita la morte. Compagno io delle sue avversità e delle sue patriottiche operazioni, nella prigione di Orbetello, io solo debbo rammentarvelo”. Ad Orbetello furono rinchiusi alcuni esponenti del governo repubblicano da parte degli insorgenti e solo grazie all’intervento del generale francese Championnet i prigionieri furono liberati e poterono tornare alla loro attività parlamentare.

Nel “Giornale dell’assedio di Civitavecchia avvenuto l’anno 1799” pubblicato per la prima volta grazie alla generosità di Clodoveo Bucci su “Civitavecchia. Vedetta imperiale sul mare latino” in occasione del decennale della “rivoluzione fascista” celebrato nel 1932, alla data del primo marzo è annotato che i Tolfetani “avevano ucciso Bartolomeo Corsiglia con circa Quaranta Dragoni” francesi.  Nulla di più.

Carlo De Paolis indica come data della morte il 19 febbraio 1799 avvenuta per mano degli insorgenti tolfetani presso Santa Marinella. Successivamente è sepolto nella Chiesa di Santa Maria di Civitavecchia.

Lo storico civitavecchiese ritrae la famiglia di Bartolomeo: la cornetana Teresa Nicolai è la moglie; primogenita è Chiara, nata il 3 febbraio 1791; segue Matilde, nata il 16 dicembre 1792; chiude Nicola, nato il 21 agosto 1794. I bambini vantano illustri padrini: rispettivamente il principe Romano Paluzzi Altieri, Clemente Pucitta, Francesco Villa di Genova. Nomi che attestano del prestigio e dell’autorevolezza che il Corsiglia gode in città, testimoniato anche dall’appellativo “dominus” che lo identifica nell’atto battesimale dell’ultimogenito.

Ritorniamo alla sua morte durante l’insorgenza antifrancese dei Civitavecchiesi. Altri “giacobini” locali sfiorano la morte, trascinati dai rivoltosi sugli spalti delle mura per dissuadere gli assedianti dallo sparare contro la città, sono Giuseppe Alibrandi e Giulio Capalti ma hanno maggiore fortuna del tribuno genovese.

Tommaso Casini rileva che le circostanze in cui Corsiglia trova la morte si ignorano “ma dovettero essere tali da impressionare vivamente i contemporanei, tanto che con legge del 15 maggio 1799 fu accordata una pensione alla vedova e ai figli”.

Gli atti del Senato repubblicano registrano la seduta del 19 fiorile (9 maggio 1799) in cui è riportata la discussione intorno alla proposta di riconoscere una pensione annua alla famiglia del tribuno Corsiglia “ucciso dagl’Insorgenti, mentre accorreva al Campo Francese sotto Civitavecchia per rendersi utile alla causa della libertà”.

Ai senatori è proposto che:

“Considerando, che i servizi prestati dai Cittadini alla Patria esigono la riconoscenza nazionale. Considerando, che il Tribuno Corsiglia, oltre ai servigi prestati, ha sacrificato la propria vita in tempo dell’assedio di Civitavecchia e dell’insurrezione della Tolfa. Considerando che la sua morte quanto è stata vantaggiosa al trionfo della Libertà, e dell’eccitamento del Patriottismo, altrettanto ha contribuito alla desolazione, e alla miseria della sua Famiglia. Considerando, che la medesima è perciò bisognosa di pronto soccorso per provvedere al proprio sostentamento” si propone che alla vedova e ai tre figli siano pagati “loro vita naturale durante scudi cento annui per ciascuno”.

Nella discussione che approva la concessione della pensione agli eredi del tribuno, interviene il senatore civitavecchiese Ilario Alibrandi:

“Egli preferendo il bene della Patria ai riguardi di marito, e di padre accorre intrepido all’invito fattogli dal Generale Francese, e si presta al servigio della Patria. Esso ha diritto alla riconoscenza Nazionale. Si appartiene altresì alla gloria, e all’interesse della Repubblica, poiché un tal atto incoraggia i Cittadini a sacrificarsi per la Patria…”

Duecentoventidue anni dopo, la Patria, cioè Civitavecchia, ha smarrito il ricordo del sacrificio del tribuno Corsiglia, indecisa se considerarlo un eroe o un avversario. La Storia la scrivono i vincitori e Bartolomeo Corsiglia, tramandatoci dai contemporanei come imprenditore illuminato ed eroico tribuno, ha la sfortuna di morire da patriota nella parte sbagliata del campo di battaglia, in tempi, ancora oggi, di difficile lettura. La Repubblica Romana ha breve durata, i francesi debbono lasciare Roma e Civitavecchia incalzati dalle truppe napoletane e dalla flotta inglese. Non sappiamo se alla vedova e ai tre bambini lo Stato pontifico abbia provveduto in qualche modo. Il ricordo rimane ormai intrappolato solo nelle carte d’archivio.

Ricordarlo mi sembra un atto dovuto di riconoscenza verso il suo impegno imprenditoriale e politico nei confronti di Civitavecchia, che lui immaginava più libera e più agiata, un desiderio che anche noi condividiamo ma che purtroppo ancora oggi non siamo riusciti a realizzare.

ENRICO CIANCARINI