LA RASPA
di CARLO ALBERTO FALZETTI ♦
Quando tutto questo avrà fine?
Quando le mani torneranno a sfiorarsi per poi stringersi con affetto?
E gli abbracci allontaneranno il timore del contatto,
Ed il sorriso sostituirà il sospetto,
Ed il parlare dilagherà di nuovo dopo i sussurri indistinti e precipitosi.
Un gruppo, uno spettacolo, il locale affollato, le Sardine della piazza,
La calca, il contatto epidermico, il bacio, l’amplesso.
. . .
L’evento avrà cambiato qualcosa?
Cambierà qualcosa in questa terra stanca dopo aver sopportato il peso dell’insostenibile.
Insostenibilità ambientale, insostenibilità economica,insostenibilità politica.
Le coscienze civili reagiranno?
I politici si adegueranno?
Il rapporto fra Stato e mercato ritornerà come un tempo?
Si negherà ancora che il clima avverso è solo opera del sistema produttivo?
La distruzione creatrice avrà luogo?
Si capirà come una società giusta non può essere fondata sul solo principio dell’autodeterminazione?
I grandi della Terra avranno compreso tutto questo?
. . .
Si tira in ballo la guerra come metafora del momento.
Paragone forse azzardato se solo si pensa ai popoli martoriati dalle guerre fra uomini, ma, accettiamolo tuttavia.
E, allora cosa faremo alla fine di questa guerra ?
Chi è datato ricorda.
Ricorda che cosa si svolgeva di fronte alla Cattedrale, accanto al Bar Baldassari sul finire degli anni ’40.
Tutti in piazza a ballare la Raspa.
Perché questo ballo popolare? Perché proprio questo?
Non lo so! Ma la cosa importante è che tutti i sopravvissuti, gli sfollati ritornati, i sofferenti, i tanti testimoni del terrore, gli invalidi, i reduci, i patrioti , le donne, gli uomini, i vecchi, i bambini, i ragazzi inneggiavano alla fine del dramma attraverso questa danza liberatoria.
Tutti al suono di questo ritmo villano, goffo, casareccio.
Tutti in piazza a ballare sullo sfondo delle macerie della Prima e della Seconda Strada e della Cattedrale.
Ma, in quel momento quel ritmo grottesco era l’inno alla gioia, alla vita ritrovata, alla Grazia ricevuta, alla guerra persa militarmente ma vinta umanamente.
CARLO ALBERTO FALZETTI
Vero, la II° guerra mondiale fu persa militarmente ma umanamente vinta da noi italiani con la lotta di Resistenza. Oggi siamo ancora in grado di vincere resistendo? Di vincere seduti sul divano di casa, davanti al televisore ? Certo, i riti liberatori fanno parte dell’umanità, alla fine di questo nefasto periodo ne abbiamo bisogno, ma dopo l’euforia, saremo in grado di affrontare con consapevolezza la crisi economica che ci attende? Forse è una domanda retorica, ma molti di noi sono preoccupati.
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Come disse Guccini: dopo la guerra tutti avevano una voglia di ballare che faceva luce
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Ci sono aspetti della vicenda che stiamo vivendo e soffrendo che interrogano necessariamente la sociologia. Mi spiego: l’Italia è stato il primo grande Paese europeo ad essere aggredito dal virus. E gli italiani hanno proposto al mondo la prima narrazione pubblica della resistenza al nemico invisibile. Le abbiamo dato l’imprinting emozionale che altri dopo di noi hanno più o meno goffamente riprodotto. Abbiamo raccolto la sfida sventolando i tricolori ai balconi, incoraggiando i nostri bambini reclusi a sentirsi parte con i loro disegni inneggianti alla speranza di di una battaglia comune, intonando le nostre canzoni. L’Aeronautica militare ha fatto decollare le frecce tricolori per colorare il cielo con i colori della nostra bandiera. E’ riecheggiata la voce di Pavarotti, è rimbalzato ovunque via social il Va’ pensiero eseguito magistralmente a distanza dal coro della Scala. Ho molti amici e colleghi stranieri: nelle prime giornate della quarantena a decine mi hanno inviato le immagini dell’Italia che resisteva divenute virali nei loro Paesi. Erano emozionati e solidali, volevano che sapessimo e sentissimo la loro ammirazione e la loro vicinanza. Cosa ci dice tutto ciò? Sicuramente conferma quella capacità di elaborare e tradurre esteticamente sentimenti e significati ereditati da una antica cultura sociale. Si è affacciato però anche un genuino sentimento di appartenenza, quasi un bisogno identitario che ha sorpreso molti, a cominciare dai corrispondenti dei grandi giornali stranieri. Mi voglio illudere che il miserabile contrappunto, eseguito senza pudore anche in queste circostanze, da politici sovranisti e cacicchi localisti, abbia prodotto per paradosso un effetto positivo. Forse nell’ora della paura e della solidarietà si è affacciato, mi si passi il gioco di parole, un sentimento nazionale ma post-nazionalista e anti-nazionalista. Bisogno di identità, orgoglioso sentimento di appartenenza e insieme consapevolezza di essere parte di un sistema planetario dive tutto si connette e si replica, anche la tragedia. Dove “nessuno si salva da solo”, come ci ha ricordato Papa Francesco. Ringraziando Carlo delle splendido spunto che ci ha offerto, vorrei che il prossimo 25 aprile ci portasse in dono questa narrazione, inedita e antica al tempo stesso, dell’italianità.
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Noi non sappiamo quando tutto questo avrà fine. Le mani, i sorrisi, le piazze ci mancano, le desideriamo e ci sentiamo poveri per la mancanza. Il periodo di ozio può permettere a ciascuno di rivolgerci dentro, sperimentando il sospetto non verso gli altri ma dentro noi stessi. Noi non amiamo autodistruggerci, siamo animali sociali, animali politici. Quindi è giunto il momento di riguardare le ideologie del secolo breve, di rintracciare le radici del nostro bisogno di vivere in comunità, nel collettivo. Possiamo fornire un esempio di una società giusta? Lontani Platone ed Aristotele, vicini Asimov, la fantascienza , le guerre biologiche. La guerra, la guerra che diede luogo alla grande trasformazione, al boom economico con grandi contraddizioni, perché non vi fu un analogo sviluppo civile del Paese, con forti disuguaglianze sociali e territoriali, che ancora permangono. Anche allora si delineò una grande distanza tra i cittadini e lo Stato : il familismo, il clientelismo, la dispensazione paternalistica di sussidi si infiltrò in seguito nella Ricostruzione. Oggi i politici e le coscienze civili non sanno fronteggiare il sovranismo che minaccia l’ Europa. Il motto è ” Ognuno pensi a se stesso “, la crisi sanitaria ed economica viene gestita guardando agli interessi nazionali – direi nazionalistici- e non comunitari. Il primo modello Europa si è disintegrato, si spinge verso un modello statunitense individualista ed aggressivo ( Trump), senza capire che solo con una cessione parziale di sovranità si potrà cambiare il mondo che verrà, mediante una federazione pacifica.
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” E, allora cosa faremo alla fine di questa guerra?”. Avremo salda la memoria di quella esistenza ” comunitaria” nella piazza della Cattedrale, di quella micro società calda, autentica, nel senso che ogni individuo sa chi gli è davanti ( Lévi-Strauss), una città ” invisibile” come quelle narrate da Calvino: concentrata nel bar Baldassarri – come erano gustose le cassate-gelato di quando ero bambina…-, nella prima strada con il broccolo, simbolo del centro storico, con il tunnel che apriva alla seconda strada – da noi solo immaginata perché fu inghiottita dai bombardamenti -, con pochi palazzi dei ricchi, i Patrizi, i Guglielmotti, i Manzi…una comunità semplice, tribale, che ha veicolato epidemie per le risacche dello scirocco e ondate sovversive sempre!! Una comunità in equilibrio con i legami della famiglia, dei parenti – la razza…- e a ballare la raspa, il grossolano e secolare rito della danza rigeneratrice, come avviene da sempre in primavera.
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