Quel sereno semestre del commissario Cosenza.

di FRANCESCO CORRENTI ♦

A giugno del 2016 è uscito su SpazioLiberoBlog l’articolo “Millenovecentottantatré”, dove erano illustrate le caratteristiche della vecchia scheda tipo dell’archivio personale, in cui l’autore ha raccolto documenti e immagini riguardanti prevalentemente, a parte le vicende famigliari e l’attività professionale, la storia di Civitavecchia. Prendendo spunto dalla scheda, si è parlato dello stemma di Benedetto XIV abbandonato a Villa Albani, che – a più di un anno e mezzo di distanza – è rimasto tale e quale.

Tornando allo schedario, voglio raccontarvi un altro episodio accadutomi giorni fa. Scorrendo le schede del Novecento, mi sono ritrovato sotto gli occhi una fotografia che avevo del tutto dimenticato. La foto ritrae alcuni personaggi, in un ambiente che riconosco per essere la stanza del sindaco quale era in quell’anno 1994, abbellita a parete da diverse vedute di Remo Sagnotti. La didascalia della foto è esplicita: «15 settembre 1994 – riunione per la definizione dell’intervento ACEA in relazione al progetto termale, Civitavecchia, Palazzo del Pincio, Ufficio del Commissario straordinario». Un fatto qualunque, eppure da allora, nulla sarà più come prima.

1994.09.15. Seduta senza testo

Le persone che si vedono nella foto sono in gran parte ben note a chi frequentava la sede comunale in quegli anni. Partendo dalla nostra sinistra e procedendo in senso antiorario, c’è il consigliere regionale avvocato Pietro Tidei. Sarà eletto sindaco di lì a poco, al ballottaggio del 4 dicembre, festa di Santa Barbara, e terrà una prima riunione con noi dirigenti il giorno 7. Per la cronaca, il giorno 6, a Milano, Antonio Di Pietro si dimetterà dalla magistratura in circostanze controverse. Per l’avvocato Tidei stanno per iniziare anni di impegno quale capo dell’amministrazione comunale, due volte a Civitavecchia, poi a Santa Marinella e, quindi, a livello nazionale quale parlamentare, per tornare ancora nel 2012, per la terza volta, a ricoprire la carica di sindaco di Civitavecchia e dopo, e siamo ai nostri giorni, nuovamente a Santa Marinella.

Accanto a lui siede l’avvocato Edoardo Marotta. Non fa parte delle figure che svolgono ruoli politici nelle istituzioni locali, ma anche per lui stanno per iniziare anni impegnativi e complessi.

Alla sua destra, il notaio Paolo Becchetti volge il viso al fotografo, con il suo consueto sorriso simpatico e accattivante. Già ufficiale della Capitaneria di porto, è da aprile di quell’anno deputato del Centro Cristiano Democratico e dal dicembre successivo farà parte di Forza Italia, rimanendo poi in parlamento anche nella legislatura successiva, fino al maggio del 2001. Certamente, anche in quella occasione, come in tutti gli altri nostri incontri, mi ha ripetuto le sue battute su quella che definiva la mia difficilissima «fatica di Sisifo» di convertire la città al rispetto della cultura, della storia e delle regole urbanistiche. Oggi, ne piangiamo la prematura scomparsa, avvenuta nel 2016, ad aprile.

Ultimo a destra, il collega Antonino Rossi, all’epoca facente funzione di ragioniere capo, con un compito tutt’altro che facile. Lo si intuisce dalla sua espressione, tranquilla ma attenta, di chi vuole rassicurare sé e gli altri. 

Il commissario Calogero Cosenza siede a capo tavola ed ha un atteggiamento sereno e sorridente. Come in tutti gli altri momenti del suo incarico, in tutte le circostanze ed occasioni. Alla destra del commissario, il procuratore della Repubblica, consigliere Antonio Albano, una persona che allora ci apparve subito straordinaria per la veramente straordinaria (ma in quei frangenti molto necessaria) serenità di giudizio.

Più oltre, l’allora facente funzione di segretario generale, il dottor Maurizio Feligioni, che a sua volta manifesta quale può essere il suo pensiero in quel momento. Vivendo per anni a contatto sul posto di lavoro, si impara a capirsi con uno sguardo, da un sopracciglio aggrottato, da un gesto impercettibile. A seguire, sono io stesso, unico del gruppo senza cravatta (ma gli architetti, si sa…), con una barba di insolita, filosofica lunghezza. All’estrema sinistra guardando la foto, un tecnico della ACEA che quasi non si vede, ed un consigliere della stessa azienda, dei quali non ho annotato i nomi e che si scambiano qualche impressione a sottovoce.

Quella riunione fissata da questa immagine ha qualcosa di emblematico. Non ricordo più da chi e perché sia stata scattata, a testimoniare cosa, forse in vista di un comunicato stampa sui risultati della riunione. Certamente, però, si colloca in un periodo particolare. Un periodo di circa sei mesi, dai primi di giugno al 5 dicembre del ’94, durante il quale, all’interno del Comune di Civitavecchia, si è avuta una atmosfera serena, densa di attività positive, in cui si è ripreso coraggio, superando quelle che erano state le avversità della fase precedente, ma anche ignorando quello che sarebbe accaduto di lì a breve.

Gli ultimi mesi dell’amministrazione ordinaria precedente erano stati mesi inquieti, mesi in cui il clima degli uffici comunali era teso, difficile, anzi ansioso. L’attività burocratica non riusciva più a svolgersi senza l’affanno continuo di una fretta eccessiva e di continui riscontri, quindi con decisioni rallentate. Tutti gli argomenti avevano assunto il carattere di pratiche spinose, in cui il sospetto di possibili errori ammorbava l’animo di chi doveva trattarle. Su qualunque procedimento si svolgevano riunioni alle quali partecipavano il dottor Feligioni, per gli aspetti amministrativi, l’avvocato Pala, per quelli giuridici e legali, ed il sottoscritto per quelli, i più delicati e controversi, dell’urbanistica. Nulla poteva esser avviato ad esiti e decisioni ufficiali senza la triplice firma di ogni documento.

L’attività d’indagine d’un oscuro sostituto della locale Procura della Repubblica, come sappiamo, dopo il famoso 17 febbraio del 1992 – la data dell’arresto a Milano del presidente del Pio Albergo Trivulzio – era diventata frenetica e, parallelamente ai clamorosi sviluppi dello scandalo nazionale di Tangentopoli, che giorno per giorno la televisione e i quotidiani portavano alla nostra attenzione, le pagine locali delle testate giornalistiche si alimentavano di scoop, nei quali l’attenzione maggiore era posta all’aspetto eclatante del numero di persone di volta in volta coinvolte: «sei indagati», «sette imputati» (il giornalista anticipa di suo il rinvio a giudizio), «salgono a dodici gli indagati», fino ad arrivare a cifre record: «ci sono ventisei indagati» e addirittura: «l’indagine bolle, gli indagati sono diventati cinquanta, partono gli interrogatori».

Ma a questi numeri assurdi, in una cittadina ed in ambienti da sempre provincialmente sonnolenti, ligi e timorati, si arriverà più tardi, quando sarà perso ogni scrupolo e quelle che dovevano rappresentare “garanzie” divennero pre-condanne, con molte vittime poi risultate davvero innocenti, in un numero che, alla fine dello tsunami giudiziario, ha visto praticamente coincidere la quantità degli imputati assolti con quella degli iniziali indagati e rinviati a giudizio. A contorno, pochi ma molto squallidi personaggi, caratteristi e controfigure, veramente privi di serietà e di umanità, hanno cercato di trarre il loro utile dalla disgrazia dei tanti incappati in quelle vicende, esplicitando in vario modo la loro codardia e, in qualche caso, la loro bassezza, diffondendo falsità e calunnie, come dimostreranno in seguito altre sentenze.

1993.01.20. Stralcio

Ed intanto, il clima di insicurezza, di ambiguità e di mancanza di fiducia aleggiava nell’aria come una cappa, sotto la quale era difficile mantenere la serenità e l’ottimismo. Lo stesso aspetto del sindaco, molte volte corrucciato, con una frequente espressione di dolore causatagli da emicranie insopportabili, non aiutava a rendere più gioioso il lavoro. Anche se, è doveroso ricordarlo con gratitudine, vi furono persone, anche assessori, nell’Amministrazione, che seppero alleviare e controbilanciare con la loro solidarietà i momenti di scoramento ed umiliazione per chi era stato implicato nelle indagini. Eppure, eravamo ancora ben lontani da quello che sarebbe accaduto successivamente.

Quel sereno semestre del commissario Cosenza rappresentò, quindi, un periodo, per chi lo visse dopo i mesi ansiosi precedenti, una pausa benefica di ristoro mentale e psicologico. A ricordarlo oggi, con l’esperienza della successiva incredibile vicenda, non può suscitare che un sentimento di profonda riconoscenza per quella persona misurata, investita di un ruolo di garante e di timoniere d’un Comune che appariva veramente un barcone in balia di tragici eventi.

Le elezioni che si tennero per il rinnovo dell’amministrazione furono le prime fatte con la riforma della legge 25 marzo 1993, n° 81, per l’elezione diretta del sindaco, che poi avrebbe nominato i componenti della sua giunta.

La figura dinamica e decisionista del sindaco Tidei, vincitore di quella tornata elettorale, diede subito la sensazione di portare delle novità in un “Palazzo del Pincio” immobile da decenni sotto molti aspetti. Certamente, molte di quelle innovazioni furono accolte malvolentieri dalla burocrazia comunale, come sempre riottosa a cambiare le proprie abitudini. Anche perché non sempre il metodo seguito per introdurle faceva leva su forme smussate dei rapporti gerarchici, per cui la ruvidezza verso i sottoposti (o alcuni di essi) non contribuiva a rendere del tutto gradevoli i nuovi indirizzi. E tuttavia, quelli furono per diverse persone gli aspetti meno indigesti di quei frangenti, tra la fine del ’94 e i primi del ’95, a fronte di quanto era nell’aria e di li a poco sarebbe avvenuto.

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Questioni di banale prassi normativa applicata come di consueto, venivano presentate come gravissimi casi di malaffare e di corruzione. Spesso gli uffici (uno più degli altri) dovevano subire sopralluoghi e sequestri di pratiche da parte di squadre di polizia giudiziaria composte dalle varie specializzazioni delle forze dell’ordine, guidate con piglio più adatto ad altri contesti e latitudini. Qualche cronista ne dava notizia con toni da bollettini d’una guerra vittoriosa, che però riecheggiavano sinistramente le discutibili farneticazioni sulla “geometrica potenza” (che hanno avuto ancora recenti epigoni) e la “perfetta sincronia” militare delle azioni brigatiste nei tragici anni del terrorismo, della lotta armata, dei sequestri, degli omicidi e delle stragi.

Ma quasi tutte le volte, i faldoni sequestrati vennero chiusi negli stessi uffici in armadi sigillati, che non sono stati mai più aperti, se non dagli stessi comunali, a bufera conclusa, per riportarli al loro posto negli archivi. Gli interrogatori si svolgevano in via Traiana, al civico 53 A, dov’era su vari piani la sede degli uffici giudiziari, se condotti direttamente dal sostituto, oppure in un piccolo appartamento dall’altro lato della via, dove la polizia giudiziaria svolgeva le sue indagini “a tavolino”. Solamente la cortesia e il tratto formalmente benevolo e rispettoso di questo o quel maresciallo – con cui ci si conosceva da anni – temperavano appena i toni minacciosi e, sovente, la brutalità con cui indagati e testimoni (questi ultimi continuamente a rischio di passare all’altra categoria) venivano trattati. Non posso cancellare dalla memoria i metodi violenti e le inqualificabili minacce con cui fu interrogato un testimone del tutto estraneo agli sviluppi del caso e ben noto per l’assoluta (quasi esagerata) correttezza professionale, quale era l’architetto Renato Amaturo, che ne restò a lungo letteralmente traumatizzato. Forse, mai come in quei momenti, in quelle settimane ed in quei mesi, l’impressione di non vivere in uno Stato normale ma in uno stato di emergenza democratica, sociale e morale mi è parsa altrettanto forte.

Si tratta di fatti che sono stati già raccontati, come è noto, con la partecipazione emotiva di uno dei principali protagonisti e, direi, di una delle vittime più gravemente colpite e danneggiate da quei giorni e da quelle notti da incubo.

Accanto all’offensiva “poliziesca”, si susseguirono una serie di iniziative di altri personaggi, che all’apparente attenzione per alcuni aspetti fondamentali e condivisi della società civile – in questo caso, la stampa parlava di «moschettieri contro gli abusi» – univano un forte disprezzo per le persone e per la verità, con forme di accanimento rimaste negativamente impresse nel ricordo per la loro infondatezza, provata ben presto dai primi riscontri istruttori più obiettivi, da cui furono inesorabilmente e definitivamente smentite.

Dal mio punto di vista, ho già espresso in due articoli lo stato d’animo che quegli avvenimenti suscitano in me oggi, nella distanza ormai ultraventennale della loro conclusione positiva. Anche se non sono mancati, in seguito, motivi di perplessità e di preoccupazione su quanto quell’esperienza possa essere stata di monito ad evitarne il ripetersi. Recenti episodi di troppo tenue obiettività e scarsissima indipendenza intellettuale riscontrati in alcuni rappresentanti della mia stessa professione, non sono rassicuranti.

Resta, tuttavia, la convinzione non solo e non tanto dell’esistenza della dea di cui abbiamo parlato nell’ultimo “giallo”, quanto della necessità che non si perdano mai quei valori – non sembri una frase retorica – che poi sono quelli su cui si fonda il nostro vivere civile, la nostra Costituzione.

Quei valori che distinguono il corretto senso del diritto e del rigore etico da qualunque forma di prevaricazione e di persecuzione. All’epoca, proprio la constatazione di essere divenuto, dopo una iniziale “immunità” durata a lungo, l’obiettivo per così dire privilegiato d’un quantità stupefacente di ipotetiche supposizioni tanto false quanto ridicole, mi diede la forza fisica e morale di guardare con tranquillità al futuro.

FRANCESCO CORRENTI